De Fermo, la rusticità come dote e non come pretesto

Loreto Aprutino, per me, è un posto speciale e non solo perchè è Terra del Maestro Valentini. In questa piccola città dell'Abruzzo è nata mia madre, 75 anni fa, per cui ogni volta che torno da queste parti, così come ho fatto lo scorso week end, è come rincasare, ritrovare parte delle mie radici.
De Fermo è l'ultima delle aziende agricole che si è insediata nel territorio portando qualità. I loro vini li avevo già provati in due fiere naturali come Cerea e Navelli, il Prologo 2010 (montepulciano in purezza) pur nella sua gioventù mi aveva colpito favorevolmente per cui mi ero promesso a breve di passare a trovare Stefano Papetti Ceroni e sua moglie Nicoletta De Fermo direttamente in azienda.
L'appuntamento è all'interno della villa storica del '700, appartenuta da sempre alla famiglia di sua moglie, dove oggi, così come allora, si trova il fulcro dell'attività agricola della famiglia che, come vedremo, non si limita solo alla produzione di vino.
Facciamo prima un giro nei vigneti cambiandoci le scarpe perchè fino al giorno prima da queste parti ha piovuto e il terreno è ancora fangoso.
L'azienda è nata ufficialmente nel 2009 e attualmente dispone di 17 ettari di vigneto composto da pecorino, circa un ettaro, chardonnay, circa 4 ettari, e montepulciano d'Abruzzo per il restante. La coltivazione segue i principi della biodinamica.

vigneto di chardonnay
montepulciano a sx e chardonnay a dx
Stefano controlla il suo montepulciano

Camminando tra i filari, lavorati una fila sì e l'altra no, Stefano mi racconta un pò della sua vita, della sua professione di avvocato che ha ormai quasi "tradito" per l'amore verso questa Terra che gli è letteralmente entrata nelle vene qualche anno fa quando assieme alla sua famiglia, un pò per gioco e un pò per staccare dallo stress cittadino, ha cominciato a curare questi bellissimi vigneti. 
Non tutta l'uva prodotta, però, viene vinificata: la maggioranza della produzione viene infatti venduta a terzi (cantina sociale compresa) mentre solo la selezione dei migliori grappoli finisce nella piccola cantina aziendale che dopo andremo a visitare. 
Intanto, passo dopo passo, arriviamo nella parte più alta del vigneto di montepulciano, il cui suolo passa in pochi metri dall'argilloso al ciottoloso, da dove il panorama, che va dal mare Adriatico fino alla Maiella, ti fa rendere conto che questo che stai calpestando è un terroir unico.

il vigneto...dall'alto
la parte ciottolosa del vigneto di montepulciano

E' ora di tornare verso la vecchia cantina, il cuore battente dell'attività agricola dell'azienda che non si limita ad allevare solo vigne ma produce anche grano, da cui ricava un'ottima pasta secca, ed olio.
Arrivati davanti alla porta in legno della cantina, Stefano ci racconta un aneddoto:"Quando siamo arrivati io e mia moglie questo edificio era completamente in disuso. L'ultima volta, per vinificare, lo aveva usato il nonno di Nicoletta che un bel giorno, negli anni '50, decidendo di andare in pensione e godersi queste terre, ha chiuso questo portone lasciando al'interno tutto così com'era, attrezzature comprese. Sai Andrea, la cosa più curiosa è che dopo aver aperto con difficoltà questa porta, mi sono trovato davanti una vecchia Campagnola che sbarrava l'ingresso ad un altro accesso, quello alla cantina vera e propria che era costituita da vecchie botti di legno e vasche in cemento. Le prime, purtroppo, le abbiamo dovuto sostituire dopo essere state inutilizzate per oltre cinquanta anni mentre le seconde le abbiamo ristrutturate e le vedi là in fondo".

Entrando, passando davanti ad un bel torchio "Laverda" ristrutturato egregiamente, troviamo sulla sinistra i caratelli dove affina il vino passito a base pecorino e, subito dopo sulla stessa fila, due tonneaux (usati per il bianco) e due grandi botti di Garbellotto dove sta "riposando" il Prologo 2012. Più avanti le bellissime ed antiche vasche di cemento rimesse a nuovo. Niente acciaio. L'unico contenitore che vediamo viene usato al massimo per far transitare il vino durante i travasi. 

Il vecchio torchio ristrutturato e funzionante
Le vasche di cemento

La fermentazione dei vini, ovviamente, segue la pratica naturale per cui niente uso di lieviti selezionati, nessuna aggiunta di coadiuvanti enologici, nessuna filtrazione, chiarifica e uso della solforosa al minimo indispensabile (la media si aggira sui 40 mg/l)

Il primo vino che beviamo assieme a Stefano e sua cognata Lucrezia che ci ha gentilmente raggiunto al tavolo di degustazione è stato Le Cince 2012, il Cerasuolo d'Abruzzo di casa De Fermo che parte da uve montepulciano torchiate morbidamente e messe a fermentare in botte grande da 20 HL per sei mesi per poi essere imbottigliato così com'è senza altri fronzoli. In Abruzzo, e in particolare a Loreto Aprutino, questo è un vino importante, memoriale, e De Fermo ha l'onere e l'onore di continuare la tradizione con un Cerasuolo di grande personalità il cui tratto sapido e floreale di fresia e garofano rosso lo rendono di grande temperamento e di beva succosa. Le Cince non fa salasso.


Launegild 2012 (100% chardonnay) è il vino più controverso di De Fermo, uno chardonnay in terra di Trebbiano, vedi Valentini, è come andare con la maschera di Peppa Pig in terra musulmana. Eppure, se togliamo i pregiudizi, è un vino che ha il suo perchè, vuoi per la sua anima minerale, vuoi per la quella freschezza e dinamicità che lo abbastanza peculiare nel panorama, desolante, degli chardonnay made in Italy. Ancora troppo giovane, andrebbe valutato tra un paio di anni. Solo allora, penso, capiremo se e quanto sarà grande.


Il Prologo 2012, il montepulciano d'Abruzzo di De Fermo, è ancora lontano dal nascere visto che lo si trova ad oggi ancora in affinamento in botte grande. Anzi, in due botti da 20 HL di Garbellotto che, al loro interno, nascondono un segreto. Già, perchè il vino che viene spillato dal loro interno, essendo lo stesso come uguali sono i legni, è diverso? La prima, infatti, fornisce un montepulciano quasi domato, minerale e fresco mentre dalla seconda il vino ruggisce, è potente e dotato di un un tannino fervido e graffiante con finale giocato quasi totalmente sulla frutta nera. Misteri enologici. Tanto poi, mi spiega Stefano, si farà unica massa e tutto farà media.

Le botti dove affina il Montepulciano

La chiusura, dolce, è con il pecorino passito "Pié di Tancredi" che al momento della nostra visita era stato appena travasato (artigianalmente) in damigiana e che, normalmente, affina in caratelli (vedi foto sotto). Ovviamente, essendo ancora in fermentazione, non si può giudicare anche se la materia sottostante fa ben sperare per il futuro anche se non si sa bene quando questo vino vedrà la luce. Al massimo, come dice Stefano scherzandoci su, la famiglia avrà il suo vino dolce per tanto tempo. Piccola nota di colore: tra un assaggio e l'altro di passito la migliore bevuta, chissà perchè, è venuta dal vino proveniente da un piccolo caratello che De Fermo ha messo da parte per Don Elio. Trattasi di Vino Incorruptum senza solfiti. Secondo me  non arriverà mai in chiesa.......

Il passito in damigiana
Il vino per Don Elio
E' tempo di ripartire, salutiamo Stefano e tutta la sua bella famiglia. La convinzione, tornando a Roma, è che da qualche tempo Loreto Aprutino non è solo Valentini. Tante realtà si stanno facendo strada (vedi anche Torre dei Beati). Avanti così, nel segno della qualità e del rispetto per il territorio.




A lezione di Bonnes Mares Grand Cru con Roumier e Dujac 2002

La Borgogna è una scuola, probabilmente non finirò mai di imparare ma ho grandi maestri e la speranza di capirci qualcosa è molto alta.

Poco tempo fa mi si sono spalancate le porte di una delle denominazioni più affascinanti della Regione, Bonnes Mares, un Grand Cru storico che attualmente si estende per circa 15 ettari tra Chambolle-Musigny (13.5 ha) e Morey-Saint-Denis (1.5 ha).


Sebbene l'etimologia del nome non sia chiara, si pensa che il nome Bonnes Mares faccia riferimento alla vicina abbazia di Notre Dame de Tart, primo monastero cistercense femminile istituito nel 1125 dove, al tempo, vivevano le cosiddette Bonnes Meres (buone madri).

Oggi la denominazione appartiene a circa quindici produttori che sono entrati in possesso del loro appezzamento di terra grazie ai loro antenati e alle leggi di successione napoleonica che prevedevano la suddivisione della terra in parti uguali tra tutti i membri della generazione successiva. 

Dal punto di vista geologico, in linea generale, si può dire che i terreni di  Morey-Saint-Denis sono più ricchi e profondi e, per conseguenza, producono vini più potenti ed austeri mentre Chambolle-Musigny si caratterizza per un suolo più leggero, sottile, con una maggiore percentuale di calcare, caratteristica che dona eleganza e setosità al pinot nero di quella zona.

Per capire quanto finora scritto basta avere nel bicchiere i seguenti vini.

Il primo Bonnes Mares Grand Cru 2002 che ho nel bicchiere è di Dujac, grande produttore di Morey-Saint-Denis. Inizialmente, mettendo il naso nel bicchiere, sembra di entrare all'interno di una sala dove al centro è presente un grande camino. L'odore di brace e cenere invade la sala di degustazione e annusando il bicchiere vengo trasportato in questa dimensione parallela che solo un grande Borgogna può offrire. Col tempo il vino si apre trasportandomi, stavolta, in un contesto dove floreale e balsamico si rincorrono come cane e gatto, senza mai acciuffarsi. Al palato è profondo, austero, riempie la bocca, ogni millimetro quadrato del nostro cavo orale ha un sussulto edonistico ogni volta che è a contatto con una molecola di questo grande Bonnes Mares. A Morey-Saint-Denis, ora lo so, c'è un indirizzo sicuro!


Foto: www.vinfolio.com

L'altro Bonnes Mares Grand Cru, sempre 2002, è di un signore chiamato Georges Roumier da Chambolle-Musigny. 
Per molti appassionati monsieur Roumier è sicuramente il migliore interprete della denominazione. Chi non lo conosce e lo beve per la prima volta capisce da subito perchè i vini di questo produttore hanno un non so che di mistico.
Rispetto a Dujac questo pinot nero è maggiormente profondo, carnoso, il liquido si trasforma in frutto sinuoso e carne, l'odore ematico misto a quello dei fiori rossi secchi dà un senso oscuro e affascinante al vino che potrebbe sedurti e succhiarti l'anima come un vampiro ad Halloween. 
Al sorso il vino acquista una tridimensionalità inaspettata ma invocata e progredisce elegante ed inarrestabile fino a quando, compulsivamente, non ne bevi ancora, ed ancora, fino a strizzare la bottiglia.

Foto: www.vinfolio.com
Grazie, davvero, a chi ha voluto condividere queste bottiglie con me. La grande Borgogna, a volte, passa per vere storie di amicizia e passione!

Ad Istanbul si beve Boza

Estate 2012, prima del casino di oggi.

La Turchia è ancora nei miei occhi e nel mio cuore nonostante abbia trovato una qualità media di vino e birra abbastanza bassa dipesa, anche, delle leggi islamiche che proibiscono l'alcol visto più come una bevanda per dissetare i turisti.

Ad Istanbul, per ovviare a questa carenza di alcol, ho seguito il consiglio di alcuni miei amici che mi hanno spedito a bere Boza.
L'unico posto nella città in cui, da oltre cento anni, è possibile gustare questa bevanda è il Vefa Bozacisi, un locale aperto dal 1876 all'interno dell'omonimo quartiere di Vefa, a due passi dalla moschea di Suleyman e vicino all'università di Istanbul.
La via per arrivare al Vefa Bozacisi è tutt'altro che turistica, percorro viuzze che sembrano uscite da una cartolina della Sicilia degli anni '50. Attorno a me solo vecchietti che all'ombra giocano a backgammon e negozi antichi che vendono prodotti dall'etichetta scolorita dal tempo.
Con la mappa in mano mi aggiro per Vefa alla ricerca della mia meta che non tardo ad individuare visto che tutta la popolazione del quartiere, capendo che da turista potevo solo cercare questo locale, mi aiutava con strani gesti manuali la via migliore per arrivare a destinazione.
Eccola là il Vefa Bozacisi, l'entrata e il suo interno non devono essere cambiati molto da quando Hadji Sadik Bey, bisnonno dell'attuale proprietario, giunse ad Istanbul dall'Albania stabilendosi in questa zona che, ai tempi, era considerata residenziale.


Foto: www.wittistanbul.com
Ma cos'è la Boza? E' una bevanda piuttosto densa derivante dalla fermentazione del bulgur, un cereale, con l'aggiunta di acqua e zucchero. A fine '800 ad Istanbul la produceva una comunità armena ma, rispetto all'attuale, era molto più acida e diluita. Probabilmente ad Hadji Sadik Bey non piaceva in quel modo e così si inventa la sua Boza, la Vefa Boza, più densa e meno aspra e nel 1876 registra il marchio Bozacisi Vefa.

Foto: www.tripadvisor.com
Tradizionalmente la bevanda si consuma in inverno con l'aggiunta di ceci tostati, che dovreste comprare al negozio di fronte, e cannella in polvere. In Agosto, fortunatamente, si "alleggerisce" il tutto eliminando i legumi.

La Boza nel mio bicchiere a prima vista sembra crema con sopra della cannella, la consistenza e i colori sono quelli. Bevendola ti rendi conto dell'originalità organolettica della bevanda, un misto tra succo un succo di pera denso a cui aggiungi dell'amido. Al gusto è pungente, soprattutto nel finale dove riconosci quell'acido lattico presente in grandi quantità nella bevanda e che, dicono, sia prezioso per le neo mamme e per combattere il colera.


Foto: mademoiselleistanbul.com
Sarà per quell'aspetto apparentemente goloso da crema liquida, sarà per quel fascino da bevanda rara e decadente, sarà per il tempo che da queste parti sembra essersi fermato, ma a  me la Boza è piaciuta, tanto da dovermi finire anche quella di Stefania che, un pò schifata, al primo sorso l'ha lasciata là...

Ovviamente il simpatico titolare vende anche Boza in bottiglia da portar via assieme ad altre specialità della casa come succo di limone, aceto, aceto balsamico e succo di melograno. 

Ah, potevamo anche bere del Sire, un fermentato d'uva ma......stavamo bene così.

Vi lascio con alcune bellissime fotografie tratte dal sito Istanbul for 91 days. Le immagini parlano più di mille parole...










Yahoo Answers ed il vino: altra chicca imperdibile nel web

TRATTO DA YAHOO ANSWERS


Oggetto: Come si fà a capire quando un vino vecchio è buono?
Salve a tutti ho alcuni vini datati che vorrei farmi valutare, e vorrei capire come si fà a capire senza stappare la bottiglia se il vino è buono o meno.
In ogni caso provo a lasciare i nomi dei vini che vorrei essere valutata nel caso in cui qualcuno che ne capisce legge questo messaggio. Spero in una risposta.
Grazie anticipate

MASTRO BERNARDINO 1986 TAURASI
denominazione di origine controllata RISERVA

CHIANTI CLASSICO DOC 1977 RUFFINO

BARBERA del MONFERRATO 1973 DOC
imbottigliato nelle cantine C.Valletti

CHIANTI 1914 Central Sporthotel Davos
Wieland Sohne A.G.Thusis

SILVIO CARLA 1988 VERNACCIA
della VALLE del TIRSO

BARBERA d'ASTI NEIRANO DOC
Vendemmia 1983
Imobottigliato nelle cantine Belcolle
6 anni fa Segnala abuso

Miglior risposta - Scelta dai votanti
senza aprire le bottiglie è difficile, ma confrontando il valore dell'etichetta con l'annata indicata, si potrebbe dare un valore indicativo. Se l'annata del vino in questione è stata un'annata poco prolifica, si avrà un vino di gran valore, che poi andrà ad influenzare anche il valore dell'etichetta. altro non so dirti.. ciao



GENIO!!

Collestefano, il Verdicchio di Matelica alla prova del tempo

Una vecchia canzone di Niccolò Fabi e Max Gazzè più o meno diceva:"vento d'estate, io vado al mare voi che fate....."

Cari ragazzi, ma è ovvio, noi ci vediamo all'Osteria Monteverde e beviamo Verdicchio di Matelica, durante la stagione calda non può mancare soprattutto quando Alessandro ci porta buona parte della verticale storica del Collestefano, vino cult per molti, vino dal grandissimo rapporto q/p per tutti.

Il vino della famiglia Marchionni, proveniente da 15 ettari di vigneto certificato biologico e prodotto per la prima volta nel 1998 attraverso un blend delle varie parcelle aziendali, lo abbiamo declinato in otto annate (dal 2003 al 2012 escludendo 2004 e 2005) al fine di capire se e come può evolvere questo verdicchio che da sempre fa solo acciaio e che oggi viene prodotto in circa 80.000 unità.

Bevitori e ....timidoni..
Verdicchio di Matelica Collestefano 2012 da Magnumcapire come un terreno posto a 450 metri ricco di calcare e scheletro possa influenzare un vino è abbastanza semplice: provate questo vino da giovane! Il verdicchio di Fabio Marchionni in questa fase di gioventù è tagliente e affilato come la lama della spada di Goemon, è acido, vitreo, essenziale canterebbe Mengoni. L'annata calda non la sentiamo, ha solo tempo per migliorare e stemperare i vizi di gioventù.

Verdicchio di Matelica Collestefano 2011: Stanlio e Ollio, questi primi due verdicchio potrebbero tranquillamente andare a braccetto e formare, fisicamente, la famosa coppia di attori che in tanti abbiamo ammirato. Perchè? Se il 2012 prende la fisionomia di Stan Laurel (Stanlio) per il suo essere dritto e magro, la 2011 non può che avere le sembianze di Oliver Hardy per il suo essere più pacioccone e largo. Strana annata questa, il Collestefano sembra quasi non essere lui nonostante la sua fresca adolescenza. Minerale, fruttato, rivela col tempo delle note quasi tostate e speziate abbastanza inaspettate. Manca un pò di freschezza ma dalla sua ha corpo e carattere. Stapperò un'altra bottiglia tra un paio di anni per capire come intende evolvere.

Verdicchio di Matelica Collestefano 2010: si cambia registro, è lui, lo riconosco, è il mio Collestefano ed è tornato più in forma che mai. Se domando a me stesso le caratteristiche di un grande Verdicchio di tre anni non ho dubbi nella risposta: deve essere intenso, dotato di elegante espressione agrumata, vegetale (anice), minerale e floreale. A queste qualità, poi, si ha la necessità di aggiungere doti di freschezza, finezza, equilibrio e persistenza. Ecco, questo Collestefano ha tutti questi requisiti e mentre lo bevo mi ammalia per la sua chiusura sapida e succosa. Basta poco per finire da solo la bottiglia. Grande versione!

Qualcosa, col tempo, è cambiato....
Verdicchio di Matelica Collestefano 2009:  qualcuno mi ha detto che le annate dispari del Collestefano non sono le migliori. Sarà che il confronto con la precedente annata è davvero duro ed impietoso, ma questo Verdicchio al naso risulto abbastanza anonimo, forse è ancora chiuso, forse il marcato tratto minerale imprigiona (troppo) la carica fruttata e vegetale che sento solo in lontananza e che prende la forma dell'anice e del sambuco. Chissà... Fortunatamente i punti li riprende un pò alla gustativa che caratterizza un palato fresco, vibrante e dalla felice chiusura sapida. Mah, chissà se quel qualcuno ha ragione?!?

Verdicchio di Matelica Collestefano 2008: nonostante l'annata sia pari sembra che il dio del  tricloroanisolo, volgarmente del Tappo, abbia fatto visita a questa bottiglia che, dopo un breve combattimento, ha dovuto desistere e alzare bottiglia bianca alla TCA. Che ci siamo persi?

bevitori....schizzati.
Verdicchio di Matelica Collestefano 2007: l'annata calda carica il vino di una evoluzione che fino ad ora non avevo sentito così marcata. Al naso esce immediatamente il miele di castagno affiancato da sentori di frutta gialla matura, quasi esotica e sprazzi idrocarburici. In bocca avverto la stanchezza di questo Verdicchio che parte molle e sembra non avere la forza di ingranare la prima. Ancora una versione larga del Collestefano che si fa ricordare solo per la buona scia minerale nel finale. 

Verdicchio di Matelica Collestefano 2006: forse non tutti sanno che Fabio Marchionni, prima di condurre con successo la sua azienda famigliare, ha preso la laurea in enologia e per fare esperienza è andato a lavorare in Germania in due piccole realtà vinicole della zona del Reno. Chissà come ha fatto Fabio a portare in bottiglia quei territori e quelle magie ma questo Collestefano sembra in tutto e per tutto un grande riesling e sono sicuro che, se messo alla cieca in un tavolo di vini della Mosella e del Reno, non sfigurerebbe affatto grazie alle sue doti mixate di agrumi e idrocarburi. Il vino preferito di tutta la verticale, una punto di arrivo che in realtà rappresenta un punto di partenza per l'azienda. 

Muffette...
Verdicchio di Matelica Collestefano 2003: quando penso di aver trovato una certezza nel Collestefano, e cioè che le annata calde (e dispari) non vanno a genio al vino, ecco arrivare questo Verdicchio a smentire tutto. Solo il colore giallo paglierino carico tradisce forse l'età non più candida visto che l'olfatto è ancora pimpante e giocato su sensazioni di granito, idrocarburi, camomilla per poi virare su inaspettate sensazioni mentolate e di erbe mediterranee. Bocca più orizzontale che verticale ma tutt'altro che grassa ed alcolica. Chiude , ricco e sinuoso, su note di buccia di arancia amara e mandorla. Vista l'annata e il suo stato di anzianità lo metto al secondo posto del podio a pari merito con la 2010.

La verticale completa
Chiudiamo la cena con il Rosa di Elena, il rosato di Collestefano prodotto da uve sangiovese. Che dire, non mi ha entusiasmato più di tanto, Fabio probabilmente è ancora alla ricerca della via maestra per questa tipologia di vino che mi è sembrato sì fresco e beverino ma anche abbastanza semplice. 


Roberto, lo chef dell'Osteria con la verticale di Collestefano







Lapio e il Fiano di Avellino di Rocca del Principe

Il terroir del Fiano è composto da quattro territori: Montefredane, Summonte, Cesinali e Lapio. Rocca del Principe, azienda nata nel 2004 per volontà di Ercole Zarrella, suo moglie Aurelia Fabrizio e il fratello Antonio, assieme a Clelia Romano è una delle realtà più importante di tutto l'areale che viene spesso considerato uno dei Cru di maggiore pregio.

Con Ercole visitiamo subito i suoi vigneti, 5 ettari coltivati a fiano collocati sulle pendici del colle Arianiello, la parte più alta del comune di Lapio che rappresenta, così dicono, una delle zone più vocate per la coltivazione del vitigno. 

Foto: Lello Tornatore
I vigneti, in particolare, sono stati impiantati tra il 1990 e il 2011 e hanno esposizioni opposte collocandosi sia a nord che a sud. 
Nel primo caso troviamo due appezzamenti, uno in contrada Arianiello, a circa 600 metri di altezza, e l'altro in contrada Tognano a 520 metri di altezza. A nord, ovviamente, il clima è più fresco e ventilato e le escursioni termiche più accentuate. I terreni sono abbastanza sciolti, di origine vulcanica, costituiti da uno strato superficiale  composto da limo, sabbia, arenarie e lappilli mentre l'argilla la troviamo solo in profondità.
A sud/est, invece, troviamo vigneti in contrada Arianiello e contrada Lenze (altezza di 570 metri s.l.m.) mentre con esposizione sud/ovest abbiamo il vigneto in contrada Campore post ad altezza di 500 metri s.l.m.. Il clima qui è decisamente più caldo e il terreno ha natura argillosa e calcarea.

Parte delle vigne di Rocca del Principe
Ercole spiega la sua filosofia a Lello!
Spiegazioni. Foto: Lello Tornatore
Il tempo a disposizione non è tanto, un breve giro nella piccola cantina di vinificazione dove l'acciaio è un pò il padrone, e via di corsa a degustare una mini verticale del loro unico Fiano di Avellino che, a partire dal 2012, esce in commercio con un anno di ritardo. La scelta è ovviamente coraggiosa ma, come visto con altri produttori che hanno scelto da tempo questa strada, il Fiano per essere davvero grande va lasciato riposare affinchè possa esprimersi al massimo in futuro.

La piccola cantina. Foto: Lello Tornatore
Seduti attorno ad una bella tavola di legno abbiamo degustato:

Fiano di Avellino 2011: la nuova annata, messa in commercio per la prima volta con un anno di ritardo, si presenta con due novità estetiche: la forma della bottiglia, che diventa una borgognotta, e la nuova etichetta che vira verso un bianco più lineare ed elegante. Il vino presenta al naso note scalpitanti di frutta gialla e fiori di campo mentre al sorso è avvolgente, delicato e di grande dinamismo. Da mantenere in cantina e riaprire tra due anni.

Foto: Lello Tornatore
Fiano di Avellino 2010: degustato un anno fa a Roma in occasione dell'evento "I Terroir del Fiano" l'avevo giudicato un vino verticale dove le note minerali e acide erano in grande evidenza. Oggi, lo stesso vino, ha aggiunto complessità e profondità al profilo gusto-olfattivo che si ammorbidisce con le note di agrume maturo, ginestra, timo e una nota idrocarburica che forse denota una evoluzione che sta pian piano iniziando. In bocca ritrovo la grandezza dei 2010, tutto è plasmato perfettamente per dare al degustatore ogni possibile piacere edonistico.

Fiano di Avellino 2009: complice probabilmente un'annata non felicissima trovo questo Fiano abbastanza avanti con l'evoluzione visto che il naso gioca su toni di muschio, foglie secche, farine di castagne. In bocca, invece, si rifà discretamente mostrando un lato gustativo rotondo e di buon equilibrio. Per me da bere subito con grande goduria.

Foto: Lello Tornatore
Fiano di Avellino 2008: è un vino che mostra tutta l'eleganza e la classe di un Fiano con qualche anno sulle spalle. Ritrovo al naso il miele di castagno, la mineralità di Lapio, le note di erbe aromatiche e di idrocarburo mentre al sorso il Fiano si presenta denso, rotondo, avvolgente e presenta una chiusura che vira sulla nocciola tostata. Forse manca un pà di acidità per dargli il giusto "grip" ma è indubbio che è stato e sarà un grande vino di territorio.


Franciacorta Satèn 2008 Arcari + Danesi

Adoro lo Champagne in maniera smisurata ma, nonostante tutto, mi applico poco nello scrivere di "cose frizzanti".
La domanda, come diceva qualcuno, però sorge spontanea: perchè allora scrivi di Franciacorta, cioè di metodo classico italiano? Semplice, perchè quando mi trovo davanti ad un grande spumante come questo mi rimane difficile non prendere carta e penna, pardon, tastiera e PC e non "buttare giù" qualche impressione.
Partiamo però dall'inizio: chi sono Arcari e Danesi? Giovanni Arcari e Nico Danesi, anzitutto sono amici, l'amore per il vino li ha fatti incontrare, discutere, sognare, e così nel 2002, grazie hanno provato a creare il loro progetto che, ancora oggi, ha preso la forma di TERRAUOMOCIELO, un'idea solo in parte imprenditoriale che si propone, così come scritto sul loro blog ufficiale, di salvaguardare il mondo agricolo fatto fatto innanzitutto da uomini capaci di vederlo nel suo insieme, contribuendo alla creazione di vini con una precisa identità e comunicando al mercato la loro unica, irripetibile caratteristica.


L'intuizione visionaria di Giovanni Arcari, allora agente di commercio, e Nico Danesi, enologo, ha preso concretezza quando si sono incontrati con Andrea Arici durante la vendemmia del 2002, primo anno di produzione di una piccolissima azienda franciacortina che oggi, grazie alla loro consulenza, è diventata una splendida perla di come Agricola Colline della Stella. Oggi, dopo oltre dieci anni, TERRAUOMOCIELO è diventata una realtà consolidata interagendo con altre piccole aziende locali come ad esempio Camossi, giovanissima azienda franciacortina che più volte ho avuto il piacere di bere a Roma.

Arcari e Danesi
Qual'è, però, il sogno proibito di tutti gli amanti del vino? Creare un proprio vino, un prodotto che sia a loro immagine e somiglianza. Ecco, perciò, la nuova sfida dei due amici/soci: dare vita ad un loro Franciacorta proveniente da uve chardonnay di due piccoli vigneti situati in zona Capriolo (2 ettari) e Coccaglio (2.5 ettari).
Lo spumante, prodotto in 3000 unità, prevede un tiraggio effettuato solo con lieviti senza aggiunta di liquer, affina 35 mesi sur lie a cui seguono almeno 6 mesi di bottiglia dopo la sboccatura.
Quello che mi davvero impressionato di questo vino è stata la tua temperanza, la sua precisione millimetrica che per certi versi mi ha ricordato certi champagne RM bevuti negli ultimi giorni. E' uno spumante che punta tutto sulla sapidità, sulle durezze che, a centro bocca, vengono smussate abilmente da ritorni di mela matura, pain grillé e fiori di acacia. Pur essendo strutturato è tuttavia agile e scattante, perfetto nella sua misurata freschezza e incredibilmente persistente.


Foto: TerraUomoCielo
L'ho visto venduto online a circa 30 euro, un prezzo davvero egregio vista anche certa concorrenza. Bravi ragazzi, avanti così!

Quando un vino si può dire "alla francese"?

Giuro che non mi va di parlare male dei miei "colleghi" blogger, però leggendo l'ultimo post uscito su Avvinando (wine blog del TG COM) mi è scappato più di un sorriso. 
Il titolo dell'articolo era abbastanza stuzzicante: Tenuta Rapitalà Casalj: il grande bianco siciliano “alla francese”.

Ah però, penso, fammi vedere fino a che punto si spinge il paragone tra un vino siciliano e uno francese?

Nell'articolo si parla del Casalj, vino bianco della grande e nota azienda siciliana che, leggo, dal 2011 viene prodotto solo con Catarratto. Il perchè della scelta è spiegato nell'articolo di Sergio Bolzoni che ha riportato le seguenti affermazioni di Laurent Bernard de la Gattinais, titolare di Rapitalà insieme al Gruppo italiano vini:“Volevo andare verso un vino che si caratterizzasse per l’eleganza e quindi abbiamo deciso di fare a meno dello Chardonnay”.


Caspita, un francese figlio di un conte francese che rinnega lo chardonnay battezzandolo come simbolo di non eleganza? Boh, vabbè, proseguo la lettura cercando a sto punto di capire sempre di più perchè il Casalj è un grande bianco siciliano "alla francese". 

L'articolo va avanti presentando una piccola verticale di tre annate del vino in questione, dal 2010 al 2012. Dando una scorsa alla descrizione dell'annata 2011 si può leggere quanto segue: vira sulla mineralità, sulla sapidità e su una certa asciuttezza e compostezza il 2011 che si rivela con grande sorpresa uno dei bianchi con la maggiore persistenza assaggiati negli ultimi mesi (dove per persistenza si intende quanti secondi il sapore di un vino resta intatto nel palato prima di sparire o degenerare). Diremmo quasi alla francese..

Ecco, siamo forse arrivati al punto. Forse ho capito male io ma, secondo l'autore, un vino può definirsi "quasi francese" solo quando questo ha questi tre caratteristiche: mineralità, sapidità e persistenza. Tutti gli altri, per esclusione, saranno "quasi qualcosaltro".

O forse il "quasi" è dovuto alla NON presenza di chardonnay....

O forse il "quasi" è dovuto al fatto che il vino è,  a prescindere da tutto, prodotto in Italia....

Ma il titolo non diceva che il Casalj era un grande bianco alla francese senza il quasi??

Intanto, per esercizio, comincio a buttar giù una lista delle caratteristiche di un vino "quasi italiano". Idee a tal proposito? Magari se qualche amico francese mi risponde.....


Belva 2010: c'è del buono tra San Gimignano e Scansano

Eravamo a Monte Compatri per partecipare a Degustando 2013, ospiti dell'amico Paolo Gherardi de Candei che, grazie alla sua professionalità, ci aveva riservato uno stand. EnoRoma, Enoclub Siena e Riserva Grande tutti assieme per promuovere il vino di qualità. Quella domenica di maggio erano presenti anche Gianpaolo Paglia e Mattia Barzaghi, due produttori a me cari che sono venuti dalla Toscana solo per un motivo: rendere onore a Simone Morosi, scomparso prematuramente poco tempo prima e che con tanti appassionati abbiamo voluto ricordare con un bel brindisi in piazza.


Giampaolo e Mattia
Questo post non vuole essere triste però, assolutamente, perchè oggi il mio intento è quello di scrivere due righe su un vino che proprio quel giorno Mattia e Gianpaolo hanno portato in degustazione. Il nome è tutto un programma: Belva 2010.
Il vino è nato da un'ispirazione di Simone che dopo aver lavorato a San Gimignano da Mattia è passato a Poggio Argentiera
L'idea, così come mi ha riferito lo stesso Paglia, era al tempo stesso semplice ed audace: mettere assieme due mondi apparentemente diversi come San Gimignano e la Maremma Toscana. L'obiettivo: capire se la rocciosa mineralità della Vernaccia si poteva sposare con la solare mediterraneità dell'Ansonica.
Gianpaolo e Mattia si sono messi subito a lavoro nelle rispettive cantine dove ognuno ha vinificato il proprio vino. Successivamente, Barzaghi ha portato le prime 10 damigiane di Vernaccia (distruggendosi anche una mano) a Banditella di Alberese dove il vino, una volta unito all'Ansonica, è andato in bottiglia senza filtrazione, chiarifica o altri accidenti per essere poi dimenticato in cantina per circa un anno e  mezzo.


Il risultato di questo lavoro/gioco tra amici è stato di assoluto livello. Il vino dopo tre anni ha raggiunto un bellissimo equilibrio con un naso che esprime in maniera chiara e netta la visione primitiva del progetto. L'energia e l'ardore della Maremma Toscana, infatti, si fondono perfettamente con il rigore minerale e la frutta turgida della Vernaccia di San Gimignano.
Il legame diventa intenso ed avvincente soprattutto alla gustativa dove, al momento, sembra prevalere la parte algida della vernaccia che caratterizza un sorso teso, fresco, roccioso, persistente. Qualcuno ha azzardato un paragone con uno Chablis francese....
Io, senza pretese, penso solo che il sogno un pò visionario di Simone, Gianpaolo e Mattia sia diventato realtà e, da appassionato, li ringrazio per questo regalo che forse nemmeno loro pensavano di farci così grande.
Ah, il costo del vino si aggira attorno alle 10 euro. Ottimo anche il rapporto q/p!

Quando bere è un lusso per pochi eletti

Ha iniziato Salvatore Calabrese, barman del “Salvatore at Playboy” di Londra. Il suo Salvatore’s Legacy, con un prezzo di 5.500 sterline a bicchiere, veniva giustamente considerato il cocktail più costoso al mondo tanto da entrare di prepotenza nel Guinness dei Primati. Il motivo? E' realizzato con quattro ingredienti: Cognac Clos de Griffier Vieux del 1778, liquore Kummel del 1770, Curacao Dubb Orange del 1860 e due gocce di angostura bitter del 1900.

Salvatore Calabrese, l'ideatore
Le bottiglie

C'era una volta il Salvatore's Legacy perchè in Australia Joel Heffernan ha deciso di strappare lo scettro del barman più cool del mondo. 
Infatti, all'interno del Club Crown Melburne 23, ha realizzato The Winston, un cocktail da ben 12.900 dollari composto da un rarissimo cognac Croizet del 1858, con l’aggiunta di un pizzico di Grand Marnier Quintessence, Chartreuse Vieillissement Exceptionnellement Prolonge e un sorso di buon Angostura Bitters.

Joel Heffernan e il suo The Winston

In questo contesto di bevute sfarzose per pochi eletti non poteva mancare sua maestà lo Champagne che balza all'onore delle cronache per la sinergia appena costituita tra la Maison Goût de Diamant e il designer Alexander Amosu al fine di realizzare per un facoltoso cliente una bottiglia speciale, unica, tanto che per acquistarla ci vogliono ben 1.2 milioni di sterline.....!!!!
Come si fa ad arrivare a queste cifre mostruose? si prende una placca di oro bianco massiccio da 18 carati (simile allo stemma di Superman) e la si piazza sulla bottiglia assieme ad un diamante da 19 carati
L'etichetta, anche essa in oro, è lavorata a mano e porta inciso il nome del cliente. Dentro, ma non sembra essere importante in questi lidi, c'è pinot nero, pinot meunier e chardonnay proveniente dal villaggio di Oger. Insomma, anche le uve sono Grand Cru.



La domanda che mi pongo è: quando dovremo aspettare perchè anche questo record sia battuto? Secondo me poco, molto poco....