InvecchiatIGP: Vietti - Barolo Riserva "Villero" 2004


di Stefano Tesi

Bisogna sempre andarci cauti con le vecchie annate. Non solo perché, è normale, col passare del tempo crescono le possibilità che qualche bottiglia sia andata, ma soprattutto perché l’età del vino ingolosisce la curiosità e gonfia le aspettative. Col risultato che, poi, anche le eventuali delusioni arrivano col botto.
Non è il caso del Barolo Riserva Villero 2004 recentemente assaggiato durante una verticale organizzata a Firenze da Vietti che, a quel millesimo, affiancava oltretutto anche le 2007, 2010, 2013 e 2016. Tutte, ve lo dico subito, più che buone.


Inevitabile però che per questa rubrica la scelta cadesse sul più vecchio dei campioni in degustazione: gli oltre vent’anni di un’annata considerata molto importante costituivano quasi una sorta di obbligo morale e pure un’opportunità di racconto non così scontata. Si tratta oltretutto di uno dei più rappresentativi, se non il più rappresentativo vino della celebre casa vinicola oggi di proprietà degli americani Kraus (padroni tra l’altro del Parma Calcio), che nel 2016 la acquistarono dalle famiglie Currado e Cordero, proprietarie dal 1985, per via matrimoniale, della cantina storica fondata a fine ‘800 da Carlo Vietti a Castiglion Falletto, nel cuore delle Langhe.


Il nome del vino viene ovviamente dal nome del vigneto, Villero, tra i più prestigiosi della denominazione, piantato su un terreno argilloso e calcareo esposto a ovest sul fianco della collina e, con una scelta coraggiosa per l’epoca, selezionato nel 1982 dal comproprietario ed enologo Alfredo Currado in persona proprio per produrre una riserva di grande longevità.

Nel bicchiere il vino non delude.

Se all’occhio un’unghia appena aranciata denuncia l’età non più verdissima, al naso prevalgono le cangianti note balsamiche e un’eleganza lineare, piena, severa e asciutta, che lascia appena trapelare sentori di frutti scuri e quelli terziari di cuoio e sottobosco. In bocca un’ampiezza quasi suadente regala echi di freschezza e si mantiene etera, molto composta, con una finezza che sfuma in un finale lungo e senza sbavature.


Nessun dubbio che un sorso sia piaciuto anche alla lepre col calice tra le zampe che l’artista russo Leonid Sokov schizzò all’epoca per abbellire l’etichetta di questo sontuoso 2004.

Cave Mont Blanc - Valle d'Aosta DOC Blanc de Morgex et de La Salle Metodo Classico Brut "Blanc du Blanc" 2020


di Stefano Tesi

Uno dei migliori assaggi di Proposta Vini 2025 è stato questo Metodo Classico da uva Priè Blanc a piede franco coltivata a oltre quota 1.200, nella “terra delle valanghe” all’ombra del Monte Bianco: sobria ma ricca fragranza floreale e il paradosso di un retrogusto salmastro e torbato.


Da provare!

Piccoli ma con buon vino: i vignaioli della Val di Mezzane si uniscono in un “movimento” e si presentano al pubblico


di Stefano Tesi

Che cos’è, socialmente parlando, un “movimento”? Senza dubbio qualcosa di fluido, ma che induce ad aggregarsi più di una semplice corrente di pensiero. E che unisce non solo in base a un’idea condivisa, ma spinge le persone a conoscersi e a frequentarsi, senza tuttavia dar vita a un’organizzazione stabile o una struttura formale. Insomma, un movimento è qualcosa di popolare e concreto, ma non ancora un’associazione. Né tantomeno un partito.


Interrogati in proposito, i tredici vignaioli della Valle di Mezzane che dal 2022 si sono (come altro dire?) “messi insieme” si autodefiniscono infatti così, per sottrazione, sottolineando innanzitutto ciò che non sono: “Non siamo un’associazione, non c’è un presidente”. Il che è abbastanza singolare. Hanno però uno scopo preciso e grazie ad esso fanno gruppo, quindi li definirei un movimento. O anche una lobby, se poi, incontrandoli de visu, tutto potresti dire di loro tranne che siano lobbysti. Due invece gli obbiettivi: far conoscere, ovviamente, le peculiarità della valle con i suoi vini e “sostenere e sollecitare il Consorzio di Tutela nella definizione delle Sottozone per i vini Valpolicella, oggetto di studio della ‘Commissione Vallate’, in attesa di conoscere i passi che l’organo consortile sta facendo su questo percorso (il Consorzio del Soave ha già individuato 33 UGA, ndr)”.


Sono solo piccolissimi, piccoli e medi produttori (circa 130 ettari in totale per appena 700mila bottiglia prodotte all’anno) attivi in quest’amena vallata rimasta ancora quasi totalmente rurale a est di Verona, dove le doc Valpolicella e Soave si sovrappongono. Un paesaggio di quelli belli e un tessuto sociale campagnolo altrove scomparso. Li divide in realtà quasi tutto il resto: storie, origini, strategie, ambizioni. Orientamenti differenti anche nella conduzione del vigneto tra biologici, biodinamici e integrati. Segni particolari: vinificano esclusivamente uve dei vigneti che coltivano.


Nel 2023 hanno però commissionato al pedologo Giuseppe Benciolini la realizzazione di una Carta dei Suoli che ha messo graficamente in luce ciò che già si sapeva e loro volevano evidenziare: in Val di Mezzane convivono terreni vulcanici e calcarei. “Nero su bianco”, appunto, come i viticoltori valmezzanini hanno deciso di battezzare gli appuntamenti per la degustazione dei loro vini, puntando a rimarcare soprattutto le sensazioni tattili che essi sono capaci di offrire: “Una sorta di matrice territoriale che rimane pressoché costante anche al variare delle percezioni aromatiche e delle tecniche di vinificazione e di affinamento, con sapidità più o meno accentuata, freschezza acida e la piacevole piccantezza della speziatura. Non è certo un punto di arrivo – chiariscono - ma uno stimolo a dare avvio a una ricerca e dare corpo scientifico a quanto rilevato sensorialmente”.


Con tali premesse, la prova dell’assaggio e di verifica a cui, a margine di Amarone Opera Prima 2025, ci siamo (volentieri) sottoposti, non poteva che essere impegnativa. E ha previsto infatti una carrellata selettiva su tutte le tipologie di vino prodotte dalle aziende (Soave, Valpolicella, Ripasso e Amarone nelle varie declinazioni) in annate diverse, mettendo in luce stili, filosofie e personalità dei vini - nonché dei vignaioli - effettivamente diverse. Anche molto diverse. O forse troppo, se si fosse puntato a individuare un’impronta comune in grado di omologare davvero le etichette. Ma non era il caso, anzi. Ci hanno colpito invece l’elevata qualità media dei prodotti e la coerenza di indirizzo intrapresa dai singoli produttori, che hanno proposto vini di forte individualità, frutto di progetti spesso coraggiosi anche nelle versioni meno riuscite e comunque connotati da un’impronta identitaria condivisa che, al di là delle strette questioni critiche, ci è parsa il reale e più evidente segno distintivo del territorio, nonché un modello incoraggiante di aggregazione, capace di aprirsi a ombrello dalla produzione vinicola al paesaggio, dalle singole comunità alla gastronomia e ai rapporti sociali.


Se quindi lo scopo di offrirsi ai giornalisti era di sottolineare le differenze della valle in sé dal resto e dei produttori tra di loro, bisogna ammettere che Alessandro Benini, Marinella Camerani, Falezze di Luca Anselmi, Grotta del Ninfeo, Tamasotti, Monte Caro, ILatium Morini, Le Guaite di Noemi, Talestri, Massimago, Carlo Alberto Negri, Roccolo Grassi e Giovanni Ruffo (il decano del gruppo coi suoi 84 anni e appena 3mila bottiglie) l’obbiettivo l’hanno perfettamente raggiunto.

Dei 36 campioni degustati ecco, cantina per cantina, i vini che ci sono piaciuti di più e perché.

1. Benini, Amarone Spincristo 2020: intenso al naso ma non saturante, bocca asciutta e diretta, anomalo nella tipolgoa ma godibile.

2. Talestri, Valpolicella Superiore 2021: al naso un bel frutto fresco, pulito e fragrante, al palato è asciutto e gastronomico.

3. Monte Caro, Valpolicella Superiore Solaria 2020: un vino biologico, dal naso intenso e cangiante, sorso amarognolo e molto vivo, piacevole.

4. ILatium, Amarone Leon 2018: se al naso ha tutta la tipicità che ti aspetti, in bocca lo trovi agile, rotondo, equilibrato e di gran bevibilità.

5. Massimago, Valpolicella Ripasso Marchesa Mariabella 2022: bouquet pulito ed elegantissimo, al palato è pieno e godibilissimo.

6. Le Guaite di Noemi, Valpolicella Superiore 2014: l‘invecchiamento non nuoce al frutto e alla freschezza, che grazie all’acidità in bocca risulta sapido e verticale.

7. Roccolo Grassi, Soave Broia 2022: al naso ha note pungenti e vive di pietra focaia, in bocca è asciutto, salino, diretto.

8. Le Falezze, Valpolicella Superiore 2018: naso intenso ma preciso e composto, al palato è lungo, gastronomico e con buona vena acida.

9. Carlo Alberto Negri, Amarone 2019: all’olfatto è gentile, fruttato e agile e si ripete anche in bocca con una struttura non invasiva e un accenno di vaniglia.

10. Corte Sant’Alda, Mithas Valpolicella Superiore 2018: vino biodinamico vivissimo e fruttato al naso, franco e rassicurante al sorso, bene!

11. I Tamasotti, Valpolicella Superiore 2018: naso tipico e rotondo, in bocca è severo e tosto, con note di legno.

12.Giovanni Ruffo, Le Caselle Valpolicella Superiore 2016: al naso è maturo, vigoroso e un po’ ostico, ma in bocca ha grande personalità.

13.Grotta del Ninfeo, Valpolicella Superiore 2020: molto concentrato al naso, in bocca è invece semplice, sapido, gradevole.

InvecchiatIGP: Librandi - Val di Neto IGT "Gravello" 2008


di Luciano Pignataro

Ci sono vini didattici, nel senso che sono utili a capire la tendenza del momento in cui sono stati pensati e proposti al mercato. A distanza di tempo, l’aspetto più interessante oltre al profilo gustativo, è capire perché alcuni sono finiti su un binario morto e altri no. Soprattutto sul piano della comunicazione. Gli appassionati più anziani ricorderanno il Gravello, primo Tre Bicchieri in Calabria quando questo riconoscimento cambiava lo stoccaggio di una cantina. Un’era geologica fa, quando internet non era ancora diffuso, non esistevamo siti, blog e tantomeno social. Il riconoscimento del Gambero era il segnale preciso per ristoratori ed enotecari su cosa comprare subito. Dovremmo ricordare questi meccanismi quando oggi ci lamentiamo degli influencer, cambiano gli strumenti, la capacità di approfondimento, ma alla fine la velocità porta sempre e comunque all’ipse dixit. Parlo della grande massa ovviamente, non di tutti.


Ma torniamo al Gravello: fu pensato da Severino Garofano, l’enologo irpino naturalizzato pugliese che ha creato alcuni grandi vini che hanno fatto epoca in Puglia. Un vino che mette insieme il Gaglioppo e il Cabernet Sauvignon, prima annata 1988 di cui abbiamo avuto l’opportunità di parlare ormai sette anni fa proprio nella nostra rubrica quando eravamo giovani e forti.
Era una moda dell’epoca, unire il vitigno locale a quello internazionale. Le ragioni erano diverse, la prima partiva dalla conoscenza decisamente maggiore sul comportamento dei vari Cabernet, Merlot e Chardonnay. Il secondo ragionamento riguardava la leggibilità del vino sui mercati stranieri dell’epoca, ossia spiegare il proprio prodotto partendo dal vitigno internazionale. Questa moda partì dalla Toscana e fu adottata soprattutto dai produttori del Sud che allora si affacciavano sui mercati. L’idea alla base era che il vitigno caratterizzasse l’origine di un territorio tenuto conto della diversità ampelografica del nostro Paese che riflette l’anarchia italiana rispetto alla precisione cartesiana e commerciale dei francesi, sempre portati ad esempio ma mai seguiti nella realtà fattuale.


Severino insieme ai fratelli Antonio Nicodemo Librandi diedero un grande impulso in questa direzione, ricordiamo anche lo Chardonnay, stavolta in purezza, del Critone sul modello di quello di Tasca che, se aspettato, regala belle sensazioni negli anni. Le verticali di Gravello hanno dato sempre belle soddisfazioni, il vino ha tenuto nel corso degli anni anche se la sua esuberanza alcolica e la sua concentrazione, rimasta sostanzialmente immutata negli anni anche quando c’è statio il cambio di enologo in cantina, lo rendono decisamente age rispetto ai gusti degli ultimi anni che puntano a rossi più leggeri e bevibili.


Ma la tenuta di questo Gravello 2008, speso su un robusto piatto di agnello lucano passato al forno, non solo ci riporta a quell’epoca, ma ribadisce che ogni stile in realtà ha una sua ragion d’essere se si abbina al cibo. Al naso profumi fruttati con un corredo leggermente fumé, al palato questo rosso di 17 anni mantiene una grande energia, occupa il palato supportato da una bella freschezza facilitato dai tannini ben levigati. Il finale è lungo, preciso, pulito. Un vino integro e perfetto.

Boccella Rosa - Taurasi DOCG 2017


di Luciano Pignataro

Il Taurasi dei fratelli Soccorso e Luigi Molettieri racconta la campagna irpina di Montemarano, di conferitori che per difendere le viti vinificano in proprio, di operai che tornano alla terra. 


Un sorso tradizionale, legno e frutto ben fusi, lungo, imponente, sulla cucina di territorio è indimenticabile.

Cecchi lancia il nuovo Coevo: con il 2021 si cambia passo (con mini verticale)


di Luciano Pignataro

Viviamo tempi di grandi cambiamenti e il mondo del vino non fa eccezione. Ma senza voler affrontare i massimi sistemi che potrebbero annoiare i nostri lettori, possiamo segnalare il cambio di passo del Coevo, vino iconico di Cecchi, una delle aziende più antiche e conosciute anche dal grande pubblico. Con l’annata 2021 si è infatti deciso di semplificare il blend e restringerlo al Sangiovese della tenuta aziendale Villa Rosa a Castellina in Chianti e al Merlot della Tenuta Val delle Rose in Maremma.


La presentazione è stata fatta all’Enoteca Pinchiorri dallo stesso Andrea Cecchi, che nel 2006 volle questo vino in onore di Luigi, fondatore della azienda nel 1893, accompagnato dalla responsabile di produzione, l’enologa Miria Bracali, e dal direttore commerciale Luca Stortolani. Una occasione anche per fare una mini verticale di questa etichetta in uno dei templi del vino italiano analizzando oltre la prima annata, anche la 2013 e la 2015.

Andrea Cecchi

Il Coevo è un fine che testimonia con la sua esistenza gran parte della storia del vino toscano degli ultimi due cenni, quasi un supertuscan fuori tempo massimo perché unisce i luoghi tradizionali della viticultura regionale alla nuova frontiera maremmana che ha spinto con le grandi uve internazionali, cabernet sauvignon e merlot in primis, ma anche petit verdot e cabernet franc regalando grandi classici famosi in tutto il mondo. Fu anche un modo per l’azienda storica di mettersi al passo con i tempi e il passare degli anni costituisce la cartina di tornasole per misurare la validità di queste etichette.

Miria Bracali

A questo proposito dobbiamo dire che la 2006 ha colpito per la sua freschezza assoluta, regalando al naso sentori di frutta rossa per alcuni versi ancora fresca con leggeri rimandi fumé. Un vino compatto, solido, in cui non è facile distinguere il ruolo dei diversi vitigni perché era concepito non solo come la sintesi di due territori cos’ diversi ma anche come fusione di ben quattro uve diverse, oltre al sangiovese e al merlot, anche il cabernet sauvignon e il petit verdot, questi ultimi due eliminati nell’ultima versione presentata da Pinchiorri. La fermentazione e la macerazione sono state fatte in acciaio, seguite da un affinamento di 18 mesi in tonneaux di rovere francese, poi 10 mesi di riposo in bottiglia. «Coevo 2021 – ha detto Miria Bracali illustra Bracali - è figlio di una stagione che nel suo complesso potremmo annoverare tra le migliori di sempre».


Naturalmente la 2021 apre un mondo nuovo rispetto alle precedenti versioni di Coevo, una svolta emersa con molta chiarezza non solo nel raffronto con la 2006, ma anche con le altre due annate. Appare infatti un rosso maggiormente equilibrato, con i tannini molto ben risolti, al naso note speziate e di frutto ancora scisse, l’acidità decisa ma non scissa, il finale lungo, piacevole dopo un sorso dissetante. Sicuramente quel che colpisce del Coevo, e che mette insieme annate così diverse da ogni punto di vista, è la propensione ad un invecchiamento senza limiti. I quasi vent’anni della 2006 non si avvertivano nemmeno scrutando il colore, rosso rubino vivo. Crediamo che sarà così anche per il 2021, decisamente solido, ma che va aspettato ancora un poco prima di stapparlo.
Del resto l’annata 2021 ha registrato condizioni climatiche favorevoli con un inverno mite e piovoso che ha garantito una buona riserva idrica, sia una primavera fresca che ha supportato una fioritura regolare. L'estate asciutta e le piogge di fine agosto hanno contribuito a una buona maturazione, con la vendemmia fatta tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre. Del resto, questa annata è l’ultima veramente regolare che ci possiamo ricordare se pensiamo alle successive passate fra peronospora, siccità e gran caldo.


I piatti di Riccardo Monco e la sala di Alessandro Tomberli sono stati la degna cornice ad una presentazione elegante e non ostentata, una chiacchierata che è andata in profondità su tutti i temi: il modo migliore per presentare un grande vino di una storica azienda.

InvecchiatIGP: Vigneti Massa - Costa del vento Timorasso 2013


di Carlo Macchi

Ho una teoria che spesso fa sorridere e alzare un dubbioso sopracciglio ma che altrettante volte ci azzecca: i vini assomigliano ai produttori che li fanno (realmente!) e viceversa.
Questa teoria applicata al Costa del Vento 2013 di Walter Massa (nonché a tutti gli altri suoi vini) mi porta inizialmente a non parlare molto bene, dal punto di vista estetico, del mio amico Walter. Diciamoci la verità, se uno incrocia Walter per la strada certamente non si gira a guardarlo, non è un adone, non colpisce l’occhio da un punto di vista puramente estetico, e se specialmente sta parlando con qualcuno il suo modo di esprimersi e di gesticolare non lo mette certo nel mirino di donne in cerca dell’anima gemella.


Il Costa del Vento 2013, scoperto in cantina sotto cartoni pieni di tutto è, all’inizio, proprio così. Non colpisce l’occhio in maniera favorevole perché ha un colore dorato solo un po’ brillante, inoltre il naso sembra tra l’ossidato e il maturo.
Ma prima di proseguire su questa strada due parole su questo vino che oggi si porta in dote 12 primavere. Si parla naturalmente di timorasso, cioè il "Walterigno" ovvero il vitigno che Walter ha riesumato dal niente o quasi circa 30 anni fa e che oggi non è solo il fiore all’occhiello dei produttori del Tortonese, non è solo l’oggetto del desiderio di tanti consumatori, ma lo è anche di qualsiasi azienda langarola di alto lignaggio che ha comprato, compra e comprerà terre nei Colli Tortonesi per produrre questo bianco, la cui storia coincide inopinatamente col suo presente e col suo futuro.


Comunque, la storia di Walter e del Timorasso è stata scritta e riscritta e quindi è inutile tornarci sopra, meglio tornare sopra al Costa del vento 2013, figlio di un’annata fresca/fredda, forse l’ultima che c’è stata in Piemonte fino ad oggi. Mentre sproloquiavo è successo quello che succede quando Walter non solo lo guardi per strada ma ci parli: come Walter ti incanta con la sua profonda conoscenza del vino e del mondo e ti stupisce con le sue idee che spesso sono avanti anni rispetto agli altri, così il Costa del Vento 2013 mi ha incantato perché non solo la pseudo-ossidazione è svanita ma ha tirato fuori aromi in primis di frutta, poi di miele e al massimo dell’espressività note minerali e di idrocarburo di grande finezza e profondità.


L’ho assaggiato e, proprio come Walter, ha stupito me e i commensali perché ha unito a un equilibrio incredibile una profondità di beva che parte dalla grassezza del vino ma si sviluppa grazie alla sua colonna vertebrale acida, che ancora oggi lo sorregge perfettamente. Aprirla, ma soprattutto finirla è stata un vero onore e un grande piacere.


A proposito di aprire, Walter è in prima linea da sempre per quanto riguarda i tappi da usare ed è ormai convinto sostenitore del tappo a vite, però questo vino venne tappato con un Diam 30 (addirittura!) e forse la sua “chiusura” iniziale è dovuta proprio a questo. La morale è che Walter Massa e i suoi vini hanno sempre belle sorprese in serbo (anche in croato… ops!): l’ultima la troviamo sull’etichetta del Costa del vento, che è scritta anche in alfabeto braille. Del resto, anche ad occhi chiusi si capisce che è un grande vino.