Delivery IGP - Luca Ferraro e la sua Bele Casel al tempo del Covid-19


di Carlo Macchi

Per la rubrica Delivery IGP intervistiamo Luca Ferraro, giovane vignaiolo, produttore di Asolo Prosecco DOCG (Bele Casel è la sua azienda), da sempre impegnato in FIVI e personaggio piuttosto attivo sui social. 

Partiamo subito con una domanda da 10 milioni. Tu produci un Col Fondo, pensi si sia arrivati in fondo al tunnel o la situazione può peggiorare ulteriormente? 

E’ proprio una domanda da 10 milioni di dollari! Diciamo che in Italia il mercato è abbastanza bloccato. Tutti i ristoranti la sera chiudono (loro sono in zona gialla) e quindi il lavoro si concentra sulle enoteche, ma tutti puntano li e quindi... 
A pranzo il vino non gira molto anche perché qui da noi il Prosecco è l’aperitivo e con questi orari non hai modo di farlo. Se in Italia è complicato si sta muovendo qualcosa negli Stati Uniti, che è il nostro mercato principale 


Di questo magari ne parliamo dopo. Ad un certo punto mi hai quasi risposto alla seconda domanda. Pensi che il Prosecco in generale e l’Asolo in Particolare sia avvantaggiato o svantaggiato in questa crisi? 

Noi siamo avvantaggiati per un motivo, vendiamo le nostre basi spumante a una grossa azienda che lavora nel campo della GDO e questo ci permette , anche se non vendiamo bottiglia, di incassare di meno ma di incassare comunque e mantenere viva e vegeta l’azienda. Questa cosa è abbastanza comune da noi, anche negli anni “normali”. Inoltre nell’Asolo Prosecco stanno entrando dei nomi molto importanti e quindi aumenta la richiesta dello sfuso e il prezzo rimane buono. 

A proposito, I rapporti commerciali come sono cambiati? Hai sempre gli stessi canali o hai cambiato qualcosa? 

Per forza di cose ho sempre gli stessi canali. Come ho detto primo abbiamo incrementato i canali di vendita delle basi spumante, anche quelle buone, ahimè, verso gli imbottigliatori. Questo secondo canale è comunque un bell’aiuto. 

Un piccolo produttore di vino cosa potrebbe chiedere al governo? 

Cerco di essere laico e razionale e dico non vorrei assolutamente essere in una delle poltrone del governo, a cui tutti tirano la giacca. Naturalmente vorrei soldi per sopperire alle perdite, ma so già che è una richiesta inutile perché i soldi per tutti non ci sono. Però se ci fosse da dare una mano al comparto io la darei ha chi era solito lavorare con la ristorazione (e quindi con grossi problemi) e di questi il 90% sono aziende che fanno qualità e non quantità. I piccoli in questo momento sono “cornuti e mazziati”: lottiamo da anni per promuovere la qualità e un prezzo adeguato e poi in un momento come questo se vuoi dare valore al vino non riesci a venderlo. E va a finire che un po’ ci prendono anc he in giro. 

Tu non hai utilizzato la distillazione? 

No, assolutamente. Comunque l’Asolo Prosecco è in aumento come vendite e quindi non c’ho nemmeno pensato. 


Hai visto che qualche giorno fa è stata fatta una fiera del vino in Cina, che situazione vedi all’estero? 

Bisogna dire che sono stati più bravi a chiudere la gente in casa e sconfiggere il Covid. L’estero in generale per noi ha avuto un grande tracollo a marzo e lì abbiamo perso tanto. Negli Usa ha ripreso un po’ in questo periodo, in previsione del Natale. 

Vinitaly spostato a giugno, cosa ne pensi? 

Che col caldo si berrà un sacco di Prosecco! Seriamente non so cosa pensare: Spero abbiamo fatto una ricerca di mercato e riescano a portare a giugno molti importatori a Vinitaly, anche se non so quanto potrà essere valido per un’azienda come la nostra. Mi sembra un gran punto di domanda. Forse questo potrebbe essere il momento di guardarsi attorno e capire se le fiere del vino siano ancora importanti e quanto. Io vedo nella mia zona, a Montebelluna, dove c’è un polo importantissimo per le calzature: Geox, Diadora etc. Loro per quanto riguarda le fiere dicono che devono esserci ma solo per “fare scena”, non certo per vendere. Probabilmente andrà così fra un po’ di tempo anche per il mondo del vino. 

Ennesima domanda da dieci milioni di dollari. Se ti dessero per un giorno il potere assoluto in Italia, quali sarebbero i primi tre provvedimenti che prederesti per il mondo dell’agricoltura? 

Tu domande facili mai? Ci sono tante sfaccettature che rischio sicuramente di dire stupidaggini, però ci provo. L’agricoltura soffre in questo momento di un problema di mancanza di valore. Il contadino medio lavora per nulla, solo per avere i contributi europei, perché quello che vende serve solo per pagare il suo lavoro. Quindi X spende 100 per incassare 100 e avere 50 di contributo. Se potessi come prima cosa toglierei i contributi e incomincerei a lavorare sul valore perché è l’unico modo per ridare dignità all’agricoltura. 

Per quanto riguarda la vigna siamo quasi allo stesso punto: il comparto è sostenuto molto dai contributi europei che fanno vivere tutto il comparto delle associazioni (Coldiretti, Unione Agricoltori, CIA etc) e il ministero stesso, che lavora con i contributi e per far avere i contributi. Quindi come seconda cosa bisognerebbe cercare di togliere più burocrazia possibile. Come FIVI ci stiamo lavorando da tanto ma capisco che è una battaglia difficilissima, perché finché ci saranno importanti gruppi che guadagnano sulle varie forme di burocrazia sarà impossibile toglierla. Pensa che in azienda noi siamo quattro tra cantina e vigneti, ho un distributore unico e quindi non devo star dietro alle varie fatture ai clienti e nonostante questo ho due persone che pensano solo alla parte burocratica. Questo vuol dire che metà del mio lavoro è riempire delle carte. Qui c’è qualcosa che non torna. 

Come terza cosa vorrei unità d’intenti: per esempio nel Prosecco ci sono tre consorzi e ognuno tira acqua al suo mulino, però noi dovremmo tirare acqua al mulino di tutti perché non è giusto che il grande imbottigliatore che vende in GDO schiacci il piccolino, non è più possibile che poche aziende comandino un consorzio e tutelino solo il loro modo di ragionare. Magari le loro proposte sono anche giuste nella loro ottica ma esistono molti che hanno ottica e punti di vista diversi. Le cose e le decisioni andrebbe pesate meglio e non perché io sono un imbottigliatore devo comandare, specie in un consorzio dove vi sono centinaia di piccoli produttori. 

Anche se sei un produttore e quindi dirai “grande annata”, come è andata la vendemmia? 

(Ride!) Parlo per la mia azienda naturalmente: come quantità non è stata grandiosa e tecnicamente parlando è un’annata da polifenoli alti, che nel prosecco possono portare a qualche squilibrio e a tempi più lunghi per sistemarli. Sinceramente ogni anno in questo periodo fatico ad esprimermi perché i vini cambiano moltissimo ogni quindici giorni e così fino a che non arriviamo a oltre la metà di dicembre non ho un quadro preciso. Ripeto non è una cattiva annata ma dobbiamo solo capire l’evoluzione di questi benedetti polifenoli. 

Grazie mille Luca

Mario Ghezzi e le Terrazze di Montevecchia - Delivery IGP


di Lorenzo Colombo

Come chiaramente esplicitato nell’articolo apparso sabato scorso, ad opera di Carlo Macchi e Luciano Pignataro lunedì scorso è partita una nuova rubrica ad opera del gruppo Garantito IGP, il suo nome è “Delivery IGP” ed ha come sottotitolo Le interviste al tempo del Covid-19 di Garantito IGP”. 

Oggi è il mio primo turno per questa nuova rubrica ed ho quindi pensato di iniziare dai produttori del territorio nel quale vivo, ovvero la Brianza, ho quindi fatto una breve chiacchierata con Mario Ghezzi, titolare dell’Azienda Vitivinicola Terrazze di Montevecchia.


Ma prima vediamo d’inquadrare personaggio e azienda: s
i può dire che Mario nasca in mezzo al vino, infatti il padre a quel tempo gestiva un’osteria, aperta all’inizio degli anni quaranta a Rovagnate, il passo successivo è l’acquisto di uve, per produrre il cosiddetto “vino della casa”. Negli anni sessanta, unitamente al fratello Aldo, nasce la Vinicola Ghezzi dove si vende vino acqua minerale ed altre bevande, sono anche gli anni in cui Mario produce direttamente, acquistando e vinificando partite d’uva in Puglia, vini che poi vengono imbottigliati -soprattutto primitivo e negroamaro -generalmente nei bottiglioni con vuoto a rendere, come s’usava allora.
Nel 1981, assieme al fratello mettono a dimora il primo vigneto, ai piedi di Montevecchia, sono anni in cui presso la vinicola Ghezzi si tengono corsi di avvicinamento al vino, con relatori famosi, un paio di nomi su tutti Antonio Piccinardi e Fabio Rizzoli, quest’ultimo allora a capo del Gruppo Mezzocorona. Dopo la divisione dal fratello, Mario diventa unico proprietario della vinicola, ma sente la mancanza della produzione diretta del vino, nel 1994 acquista una cascina in rovina, la cascina Ghisalba, situata nella parte più alta di Montevecchia, questa era stata un tempo deposito di carrozze e cavalli in uso alla nobiltà locale, era poi diventata una stalla ed infine un allevamento di maiali.


Ci vogliono cinque anni per ristrutturala, mantenendo intatta la parte esterna, oltre che i vincoli di un parco (siamo nel Parco del Curone) occorre considerare che siamo in un, seppur minuscolo, centro storico. 
Questa diventerà l’agriturismo, che, gestito dalle figlie Alice ed Anna, coadiuvate dalla mamma Matilde, aprirà nel 2000, nel frattempo, sempre ne 1994 mette a dimora i primi vigneti, in un’epoca in cui andavano di moda Cabernet e Chardonnay, Mario, da buon bastian contrario, ma su consiglio di Attilio Scienza, impianta Syrah e Viognier. Attualmente l’azienda Terrazze di Montevecchia dispone di 11 ettari a vigneto, sei dei quali in proprietà, suddivisi in diverse parcelle, la produzione è di circa 30.000 bottiglie/anno (la resa in questi luoghi – i vigneti sono terrazzati- arriva a malapena ai 40 q.li/ettaro). Nell’annata appena conclusa si sono infatti prodotti poco più di 420 quintali d’uva. Cinque i vini prodotti, tra i quali spicca un Metodo Classico da uve Viognier, se non l’unico, certamente uno dei pochissimi Spumanti Metodo Classico prodotti con questo vitigno. La prima annata di produzione di questo spumante è stata la 2002 e se ne producono circa 7.000 bottiglie/anno.


Ma veniamo alla nostra inchiesta.

Ciao Mario, parlami un poco di come stai vivendo questo periodo di secondo lockdown e che attività hai intrapreso per sopperire alle problematiche che questo crea alla Tua azienda. 

Già dalle prime chiusure della scorsa primavera abbiamo istituito, come Consorzio Terre Lariane, un Wine Delivery dove si possono ordinare i vini di 12 aziende del territorio, ma, perlomeno per quanto mi riguarda, i risultati sono stati sotto le aspettative. Mi salva in parte il fatto che circa un terzo dei miei vini sono distribuiti da una GDO nazionale nei loro supermercati sul territorio, ma anche lì ho notato un leggero calo, ipotizzo che questo sia dovuto al fatto che i miei non sono vini da “primo prezzo” e che in questo momento di crisi generale, le persone tendano comunque a risparmiare su tutto. Il canale Ho.Re.Ca. in questo momento è completamente chiuso e, avendo chiuso anche l’agriturismo anche lo sbocco di vendita diretta e di mescita è fermo. 

Ti volevo appunto chiedere dell’agriturismo, hai pensato d’attivare l’asporto od il delivery? 

Come ben sai la nostra posizione in mezzo alla natura ed ai vigneti che, in condizioni normali è molto appetibile e ricercata, diventa uno svantaggio per quanto riguarda l’asporto, siamo in cima ad una collina, un poco fuori mano, la gente ci dovrebbe venire apposta e quindi abbiamo pensato che sarebbe stato meglio chiudere, di conseguenza abbiamo dovuto mettere in cassa integrazione i due dipendenti, in attesa di tempi migliori. 

Com’è stato e cosa vi siete inventati nel periodo di transizione in mezzo ai due lockdown? 

Durante l’estate il problema era il distanziamento sociale, abbiamo sopperito inventandoci il “picnic in vigna” che ha avuto un grande successo, soprattutto tra i più giovani. In pratica avevamo preparato delle postazioni segnalate nel vigneto adiacente all’agriturismo, i clienti preordinavano il cibo che veniva consegnato in appositi contenitori assieme ad una copertina e quindi veniva assegnata a ciascuno una postazione dove potevano tranquillamente fare un picnic, oppure, i meno audaci avevano a disposizione i tavoli, ben distanziati tra loro, sul grande terrazzo. 

E per il futuro

Ultimamente ho messo a dimora un nuovo vigneto in località Bernaga, una frazione del comune di La Valletta Brianza, dove sono nato, con uve Chardonnay e Sauvignon e per non farmi mancare nulla ho impiantato anche un oliveto sui versanti di Montevecchia. E poi debbo anche pensare al mio nipotino nato da poco.

Nifo Sarrapochiello - Aglianico del Taburno DOCG 2016

di Lorenzo Colombo

Situata a Ponte, una decina di chilometri a nord-est di Benevento, l’azienda di Nifo Sarrapochiello dai suoi 25 ettari di vigneto ricava diversi vini, utilizzando unicamente vitigni autoctoni.


Noi abbiamo assaggiato l’Aglianico del Taburno, un vino nitido, elegante, con un bel frutto rosso in evidenza, ancora freschissimo a quattro anni dalla vendemm
ia.

Terre di Leone e la loro Valpolicella

di Lorenzo Colombo

Giovanni Battista Perez, nel suo “La provincia di Verona ed i suoi vini”, Memorie Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona ,vol. LXXXVI, 1900, scriveva: “…gli aromatici vini di Marano” Ci siamo ricordati di questa frase, nella quale ci eravamo imbattuti diversi anni fa, assaggiando i vini di Terra di Leone, prodotti appunto a Marano di Valpolicella, vini che si connotano appunto per una caratteristica che, durante l’assaggio dei vini di un altro produttore, anche lui di Marano, avvenuto nel lontano 2013, faticavamo a descrivere e che così avevamo sintetizzato: “…inoltre c’è un qualcosa di non ben definito, difficile da esprimere, quasi una certa sensazione di leggera “aromaticità” che non ricordiamo di aver mai notato nei seppur tanti vini della Valpolicella assaggiati…” 

Ma partiamo dall’inizio. 

Martedì 27 ottobre, abbiamo partecipato ad un pranzo stampa, presso lo Spazio Nico Romito, a Milano, durante il quale sono stati presentati alcuni dei vini prodotti da Chiara Turati e Federico Pellizzari, titolari di Terre di Leone, azienda nel 2005 ma già a metà degli anni novanta parte il progetto partendo da un ettari di vigneto di proprietà del nonno di Federico, che si chiamava Leone (e qui si spiega il nome dell’azienda).


Attualmente Terre di Leone dispone di sette ettari a vigneto, parte in proprietà e parte in affitto, tutti a Marano di Valpolicella, il sistema d’allevamento è a Guyot con densità d’impianto di 7.000 ceppi/ettaro, vi si coltivano le cinque varietà autoctone della Valpolicella: Corvina, Corvinone, Rondinella, Molinara ed Oseleta. Vi si ritrovano però anche vecchi vitigni ormai semiabbandonati, sono infatti 15 quelli ritrovati nel vecchio vigneto del nonno, 14 di essi sono a bacca nera e solamente uno a bacca bianca, successivamente estirpato.


Due le linee produttive, la Terre di Leone, dedicata ai vini più importanti, tutti appartenenti alle denominazioni della Valpolicella, dove si utilizzano esclusivamente vitigni autoctoni, Corvina e Corvinone le principali, ma anche Rondinella, Molinara ed Oseleta. Chi vuole assaporare questi vini non deve avere fretta, vengono infatti commercializzati molto tempo dopo rispetto a quanto previsto dai disciplinari di produzione, basta dire che ora sono in vendita l’Amarone dell’annata 2010 e l’Amarone Riserva del 2011. Unico vino fuori dal coro nella linea Terre di Leone è l’IGT Rosso Veneto “Dedicatum” nel quale vengono utilizzati, dipendentemente dall’annata i 14 vecchi vitigni. 


L’altra linea prende il nome di Il Re Pazzo, sono vini questi dai tempi d’affinamento più brevi, meno impegnativi negli intenti, anche se parlare di “meno impegnativo” per un Amarone ci pare una parola grossa. Anche in questa linea c’è un vino fuori dalla denominazione è il’Igt Rosso Veneto “Mappale 108”. 


La produzione dei vini prevede la fermentazione ad acino intero, quindi le uve non vengono precedentemente pigiate, ma unicamente diraspate, per quanto riguarda l’affinamento si utilizza esclusivamente legno francese con capacità dai 5 ai 25 ettolitri. Sono circa 45.000 le bottiglie prodotte annualmente e, curiosamente e contrariamente alla maggior parte delle altre aziende della Valpolicella, che vedono come sbocco principale per i lori vini l’estero, il mercato principale per Terre di Leone rimane quello italiano. 


Veniamo ora ai vini degustati, sono quattro, tutti appartenenti alla linea Terre di Leone: 

Valpolicella Classico Superiore 2016 

I vigneti si trovano bei comuni di Marano di Valpolicella e di Fumane, a 420 metri d’altitudine con esposizione Sud e Sud-Est, i suoli, d’origine vulcanica, sono composti da tufo basaltico e parzialmente calcarei e sono disposti su terrazzamenti sostenuti da marogne. La composizione del vino prevede 40% Corvina, 20% Corvinone, 25% Rondinella, 10% Molinara, 5% Oseleta. La vendemmia si svolge tardivamente, le uve, dopo un breve periodo d’appassimento in fruttario, vengono vinificate dopo essere state diraspate e senz’essere pigiate; dopo la fermentazione alcolica il vino s’affina per 24 mesi in tonneaux di rovere francese e quindi sosta per un anno in bottiglia prima della commercializzazione. 


Cominciamo col dire che è certamente tra i nostri migliori assaggi di Valpolicella, un vino buonissimo, al vertice della tipologia, al quale abbiamo attribuito un punteggio elevatissimo (che, trattandosi di degustazione palese non riportiamo). 

Si presenta con un color rubino-granato di media intensità, intenso ed elegante al naso, dove cogliamo note balsamiche e vanigliate, frutto rosso selvatico e quella leggera e strana aromaticità descritta all’inizio. Succoso e fresco alla bocca, con bella vena acida e delicata nota speziata, spezie dolci, ma anche un pizzico di pepe, buona la sua persistenza, ma soprattutto il suo equilibrio e la sua eleganza. 2.500 le bottiglie prodotte. 

Valpolicella Ripasso DOC Classico Superiore 2015 

La provenienza delle uve e le prime fasi di lavorazione rispecchiano quelle del vino precedente, dopo il ripasso con la rifermentazione del Valpolicella Classico Superiore sulla vinaccia dell’Amarone il vino si affina in tonneaux e botti di rovere francese da 10 hl. per circa 24 mesi ai quali seguono ulteriori 12 mesi di sosta in bottiglia. 

Il colore è granato-rubino di discreta intensità. Intenso al naso dove prevalgono note surmature e sentori di ciliegie mature, accenni vanigliati dolci, spezie dolci e aromi balsamici completano il quadro olfattivo.Strutturato, morbido e succoso, né nuovamente il frutto rosso maturo ad emergere, con sentori di ciliegie e prugne,, lunga la sua persistenza, su note di spezie dolci. Circa 2.500 le bottiglie prodotte per un prodotto di ottima qualità. 


Prima di passare ai due Amarone assaggiati occorre una precisazione, fornitaci da Federico di fronte alla nostra perplessità nell’andare a degustare un Amarone del 2010 ed un Amarone Riserva più giovane, ovvero del 2011, soprattutto sapendo che si tratta di vini attualmente in commercio La spiegazione in verità è assai semplice, ovvero, a partire dall’annata 2011 Chiara e Federico hanno deciso di commercializzare una Riserva, la 2011 è quindi la prima annata di produzione di questa tipologia. Le uve per questi vini provengono dagli stessi vigneti dei precedenti, unica piccola differenza è che questi hanno un orientamento Sud-Ovest e Sud-Est. Cambia inoltre la loro composizione e la percentuale dei vitigni che, tolta la Molinara prevede: 40% Corvina, 30% Corvinone, 20% Rondinella, 10% Oseleta. Dopo la vendemmia le uve subiscono un appassimento in fruttaio per circa 110 giorni, dopo di che vengono diraspate e fermentate.
Cambia infine, tra i due vini, l’affinamento, sia per quanto riguarda il periodo, come pure (in parte) per quanto riguarda i contenitori. 

Amarone della Valpolicella DOCG Classico 2010 

Color granato, mediamente intenso, con unghia aranciata.
Intenso al naso, alcolico, si percepiscono sentori di prugna secca, ciliegia sotto spirito ed una nota di tabacco dolce. Strutturato, morbido ma fresco, succoso, con una leggera nota piccante che rimanda al pepe, lunga la sua persistenza. Affinamento in botti di rovere francese da 25 hl. per circa 60 mesi e successivamente in bottiglia borgognotta per almeno 12 mesi. 


Amarone della Valpolicella DOCG Classico Riserva 2011 

Alla vista è molto simile al vino precedente. Al naso denota una nota balsamica-vanigliata, sentori di tabacco dolce ed una notevole eleganza. Decisamente fresco al palato, con un bel frutto speziato, elegante, lunghissima la sua persistenza su note di liquirizia dolce, piacevolissima la beva. Un grande vino, curiosamente facile da bere (per quanto possa essere facile la beva di un’Amarone. Affinamento in botti di rovere francese da 10 hl. e da 25 hl. per 80 mesi e successivamente in bottiglia borgognotta per 12 mesi. 


Entrambi vini di grande qualità, con una marcia in più, secondo noi, per la Riserva 2011, un vino quest’ultimo, da posizionarsi ai vertici della tipologia.

Pizza Mater: il futuro della pizza in tempi di pandemia - Delivery IGP



di Roberto Giuliani

Amalia Costantini è ormai nota a livello nazionale, il suo Mater (ex Pizza Mater) è riconosciuto fra i migliori locali italiani per la pizza gourmet, fatta esclusivamente con il lievito madre, che lei coccola quotidianamente da oltre 10 anni. Il locale si trova a Fiano Romano, a meno di 2 km. dal casello Roma Nord dell’A1; nato nel 2015, in pochi anni ha avuto una crescita esponenziale, tanto da essere stato inserito nella maggior parte delle guide e, quest’anno, da aver conquistato i tre spicchi del Gambero Rosso.  Amalia ha sempre amato cucinare, ma il lievito madre è per lei qualcosa di speciale, io ho avuto modo di sentirne persino il profumo, dolce, buonissimo; da Mater, oltre a una serie di pizze di altissimo livello, Amalia propone calzoni, supplì originali, hamburger di vario genere, timballini di gricia, le mitiche polpettine Mater (che non sono altro che olive ascolane al contrario, carne fuori e oliva dentro) e mille altre bontà, dolci compresi (ad esempio le sue cheesecake sono le più buone che abbia mai mangiato); ogni prodotto è frutto del lavoro di Amalia e del suo staff, le materie prime sono di altissima qualità e vengono lavorate sul posto. L’arrivo del Sars-Cov2 ha prodotto subito delle conseguenze, infatti a fianco di Mater c’è l’Irish Mater pub, che avendo pochi posti, è stato chiuso, non era possibile adattarlo alle nuove regole. Gli hamburger e le birre nascono da lì, ora si possono apprezzare anche con il delivery. 


Ho deciso di intervistarla per la nostra nuova rubrica, perché un’esperienza come quella affrontata in questo maledetto 2020, va raccontata in prima persona, è l’unico modo per capire fino in fondo le difficoltà che attraversa chi lavora in questo settore. 

Come hai affrontato il periodo di lockdown di marzo-aprile? Hai chiuso totalmente l’attività o hai fatto il delivery? Con quali modalità? 

Marzo e aprile sono sicuramente stati i mesi più duri del lockdown, quelli in cui il mondo ci è crollato addosso a causa dell’improvvisa e inimmaginabile chiusura totale di tutte le nostre attività. Abbiamo avuto però la possibilità, in questo periodo di riflettere e organizzarci sul come sarebbe stato possibile reinventarsi.  Mezzi di trasporto, nuovo gestionale per le ordinazioni, bancomat wireless, nuovo packaging e le nuove buste per il trasporto comodo e igienico dei nostri prodotti e tutto il resto che è servito per organizzare un servizio di delivery (parola che molti, ancora ad oggi e specialmente in un paese come Fiano romano, faticano a comprendere) che potesse essere utile e all’altezza di quanto era stato fatto nei nostri locali fino a quel momento. Non è stato semplice ma alla fine del mese di aprile siamo riusciti a ripartire.  Le modalità adottate dovevano essere di semplice interpretazione per chi, come noi, doveva affrontare qualcosa di sconosciuto. Igiene, prodotti all’altezza, packaging adeguato, servizio puntuale, cortesia, queste sono le caratteristiche del servizio di delivery e di asporto sulle quali noi abbiamo puntato. Naturalmente per dar vita a questa nuova tipologia di servizio abbiamo dovuto cambiare alcune cose, primo fra tutti L’IMPASTO della nostra pizza. Era necessario infatti creare un qualcosa che risultasse più fragrante e adeguato al trasporto, di conseguenza, fondamentale è stata anche la scelta del CARTONE in pet, novità assoluta sul territorio sul quale dovevamo operare. Il nuovo connubio tra impasto con blend di farine dedicato e il nuovo packaging ha dato risultati totalmente inaspettati che, sommati alla completezza dell’offerta (panini, fritti, birre artigianali anche alla spina consegnate in appositi brik di cartone e menu dedicati ai bambini), sono stati la vera chiave di volta di questo oscuro periodo. 


Quando hai ripreso l’attività, cosa è cambiato? Quali modifiche, eventuali, hai adottato? Il numero di tavoli e di persone che avevi prima del covid, di quanto si è ridotto? 

A un certo punto ci è stata data di nuovo la possibilità di riaprire per il servizio al tavolo ma con grandi limitazioni. Questo è stato forse il periodo più difficile da affrontare. Servizio serale con posti ridotti, l’attenzione maniacale all’igiene personale che ogni cliente doveva tenere all’interno del locale e tutte le ulteriori restrizioni da adottare senza mai abbandonare però quanto di buono era stato ottenuto con il servizio di asporto e delivery. Tutto questo naturalmente utilizzando una forza lavoro al 50%. Bisognava fare ulteriori scelte. La nostra è stata la più difficile. Con il pub ormai chiuso dal giorno 8 marzo 2020 e senza alcuna possibilità di riapertura, dati i pochi posti già esistenti al suo interno, io e i miei ragazzi abbiamo deciso di procedere con un menu per il servizio al tavolo a dir poco azzardato. Fiano Romano, 30 posti a sedere solo pizze a degustazione, lasciando tutto il resto (70% del nostro lavoro) al solo servizio di asporto e delivery. 

E ora che siamo in seconda fase, quali difficoltà hai dovuto affrontare?  Il tuo staff ne ha risentito? Dal punto di vista economico, hai ottenuto degli aiuti dallo Stato? In che misura? 

Parlare a questo punto di seconda fase non è più possibile, le fasi sono fatte di regole certe e durature nel tempo. In questa seconda fase di pandemia, invece, l’incertezza regna sovrana e i continui cambiamenti di rotta insinuano in noi e nei nostri dipendenti paura e timori. Gli aiuti, se così vogliamo chiamarli, sono arrivati anche tempestivamente per quanto ci riguarda ma purtroppo totalmente inadeguati a quelle che erano le previsioni meno rosee di profitto delle nostre tipologie di attività. Purtroppo non sono bastati neanche a mantenere un reddito certo a tutti i nostri dipendenti pre-pandemia. Siamo passati infatti da 12 dipendenti a 3 più la forza lavoro della mia famiglia che fortunatamente non mi ha mai lasciata sola e mi ha permesso anzi di dedicarmi al prossimo durante i mesi più duri del lockdown, nei quali ho potuto recarmi presso molte abitazioni per la consegna di pacchi alimentari. 


Hai delle idee, dei progetti per continuare al meglio l’attività?  Secondo te il governo ha sbagliato qualcosa nei confronti della tua categoria durante questo periodo di pandemia? Cosa avrebbe potuto fare che non ha fatto? 

Ora questa nuova chiusura serale, a parer mio, è inconcepibile e inopportuna, visto quanto accade di giorno in scuole, mercati, supermercati, poste, trasporti ecc. penalizza esclusivamente un settore che ha una sola fascia d’orario per poter ottenere qualche risultato. Sicuramente si sarebbe potuto fare di meglio ma anche di peggio. Non sono io a poter esprimere giudizi su un qualsiasi governo oggi alla dirigenza di questo paese in un momento così complesso, dico solo, e parlo esclusivamente per la mia attività, che con il protrarsi della chiusura e l’impossibilità di effettuare una qualsiasi tipologia di servizio serale, mantenendo in piedi solo delivery e asporto, non si arriva più in là della fine di dicembre. Le strutture non riescono a sorreggersi con un servizio che dà a noi circa un quinto delle entrate del passato.

Marilena Barbera: io e il vino al tempo del Covid-19 - Delivery IGP


Per il mio primo articolo dedicato alla rubrica Delivery IGP non potevo non intervistare una delle vignaiole più intelligenti e social che conosca: Marilena Barbera. Con lei abbiamo parlato, ovviamente, di Covid e di come le piccole aziende vitivinicole come la sua hanno affrontato l'emergenza anche da un punto di vista commerciale.


Ciao Marilena, anzitutto una domanda personale: come stai affrontando questa emergenza?

Ti dirò, tutto sommato bene. In Sicilia siamo stati fortunati dal punto di vista epidemiologico, e vivere a Menfi, un piccolo paese di campagna, aiuta anche psicologicamente. C’è tutta la natura intorno, un paesaggio meraviglioso, il mare a pochi passi, condizioni climatiche straordinarie che ci permettono di vivere all’aperto praticamente 12 mesi all’anno. E’ un contesto che, mi rendo conto, consente di affrontare la pandemia con una serenità molto maggiore rispetto a chi vive in città, o in regioni dove il clima ti impone di rinchiuderti in casa durante l’inverno.

Veniamo ora al tuo mestiere di vignaiola. Mi puoi dire come hai affrontato aziendalmente la situazione e quali sono state le ripercussioni?

All’inizio ovviamente siamo stati colti di sorpresa: il primo lockdown è stato durissimo. La paura di una malattia sconosciuta, l’incertezza economica, la frustrazione di assistere alla totale incapacità gestionale di una classe dirigente profondamente inadeguata. Noi abbiamo chiuso subito, per proteggere noi stessi e le nostre famiglie. Dal 3 marzo e fino alla fine di luglio abbiamo gestito l’ufficio in smart working e, naturalmente, abbiamo adottato tutte le precauzioni necessarie per il lavoro di campagna. Per fortuna in cantina di lavoro rimasto ce n’era poco, perché la maggior parte degli imbottigliamenti era già stata completata tra gennaio e febbraio. 

Immagino che la parte più dura sia stata quella commerciale...

E' stata ovviamente una situazione estremamente delicata. Voglio dire: tutti i nostri clienti sono stati chiusi d’imperio da un giorno all’altro, con nessuna prospettiva se non l’attesa pomeridiana dei bollettini medici televisivi. Terrificante, a ripensarci.

Come l'hai gestita?

Mi sono dunque mossa su due fronti: Italia ed Estero. L’estero, quasi tutto, ha continuato a lavorare. Per me, che esporto molto, è stato un grande sollievo. Il problema era continuare a vederci senza poterci fisicamente incontrare, dato che i viaggi sono stati sospesi (e ancora lo sono). Quindi ho organizzato una hot line con gli importatori, abbiamo condiviso le rispettive reti di relazioni, abbiamo organizzato interviste su IGTV, degustazioni su zoom, abbiamo prodotto video e mandato videomessaggi personalizzati ai clienti che ci garantivano continuità di lavoro. Abbiamo messo a sistema un patrimonio di relazioni che esistevano, ma che non erano mai state gestite in maniera sinergica. E questo, credo, ha fatto la differenza, garantendo non solo il rispetto dei budget concordati a inizio d’anno, ma in alcuni casi e per alcuni vini anche il loro superamento. In questo momento il mio fatturato estero supera del 20% quello del 2019, e non mi stupirei se crescesse ancora un pochino da qui a Natale.


Nel nostro Paese è andata ugualmente?

Tutt’altra musica invece si suona qui in Italia. Perché siamo più lenti e perché siamo tendenzialmente degli analfabeti informatici. Il sito ce l’ha fatto nostro cugino, le mail le guardiamo se c’è tempo, i social servono per condividere gattini o, peggio, i meme su Salvini. Negli Stati Uniti in una settimana hanno cambiato la legge che per 100 anni ha impedito ai ristoratori di vendere le bottiglie di vino all’asporto, mentre qui in Italia stiamo ancora a discutere se sia etico che un produttore abbia un e-commerce “perché farebbe concorrenza alle enoteche”. Quello che ho fatto io, che poi è quello che faccio da 7 anni, è stato potenziare proprio il canale diretto. Che non copre ancora la perdita di fatturato del canale tradizionale, ma offre una bella rete di sicurezza. Al mio shop storico su Vinix, che quest’anno ha movimentato più di 4.800 bottiglie, ho affiancato un ulteriore marketplace: un sistema innovativo basato su una piattaforma logistica integrata che consente di acquistare online e di ricevere, in un’unica spedizione, le bottiglie di oltre 100 vignaioli italiani senza minimi d’ordine né vincoli nella composizione dell’acquisto. Un sistema che garantisce, fra l’altro, le consegne a privati in tutta Europa e nel Nord America ). Risultati? Quest’anno il canale telematico per me vale il 42% del fatturato Italia. Questo è stato possibile grazie ai social, sui quali ho impostato delle promozioni mirate con una buona segmentazione, e alle newsletter – che prendono tanto tempo, ma sono convinta diventeranno sempre di più un canale insuperabile per la gestione delle relazioni e la costruzione della fiducia.

In quei primi mesi di pandemia sei stata anche una dei dei punti di riferimento del movimento "il vino non si ferma". Puoi spiegarmi di cosa si tratta?

Credo che “il vino non si ferma” sia nato dallo sgomento di cui parlavo all’inizio, quel trovarsi di fronte a qualcosa di cui non si percepivano i contorni e di cui non si ipotizzava l’esito. Nasceva come un think tank, un modo per mettere insieme le energie e per elaborare proposte da inoltrare a chi avrebbe dovuto ascoltare le istanze che nascevano nel mondo della produzione. Un modo per affrontare insieme i problemi della filiera, e per mettere insieme i piccoli produttori, i ristoratori, gli enotecari, i distributori, i sommelier, tutti quelli che vivono di vino insomma. Ci proponevamo di essere d’aiuto, fiduciosi che dall’altra parte (la parte della politica, per capirci) ci fosse qualcuno interessato ad ascoltarci. Che cosa abbiamo trovato dall’altra parte? Disorganizzazione, spesso inettitudine, ancora più spesso attenzione ai particolarismi, narcisismi ed ego smisurati, spartizione di risorse senza alcuna trasparenza, promesse di risorse che non ci sono mai state, inefficienze di sistema, ritardi burocratici, mancanza di risposte. Quello che ho visto con estrema chiarezza è che il nostro è un sistema irriformabile, impossibile da penetrare o da migliorare. A queste condizioni non voglio più perderci tempo!

Ti aspettavi questa seconda ondata di epidemia? Come la stai affrontando?

Certo che me l’aspettavo, e ho sempre pensato che la prima ondata fosse solo un assaggio di quello che sarebbe accaduto in seguito, non foss’altro perché stavamo andando incontro all’estate, mentre adesso stiamo solo in autunno, ed è ancora lunghissima. La sto affrontando con la consapevolezza di avere impostato delle strategie commerciali e di posizionamento che hanno già iniziato a produrre i loro frutti, e quindi con molta più serenità.
Certo, mi mancano i viaggi, mi manca il contatto personale con i clienti e con gli importatori, mi mancano le degustazioni e le piccole fiere dove i rapporti umani sono diretti ed emozionanti. Dedichiamo il tempo che abbiamo a coltivare le relazioni con i nostri clienti, prestando la massima attenzione alle loro richieste, alle esigenze che dovessero manifestarci, fornendo loro supporto e valore tutte le volte che possiamo. Dedichiamo le nostre energie ad investire: che sia un nuovo vino, un restyling delle etichette, una giovane vigna o magari una vecchia (magari), ricordandoci sempre che fare il vino è un mestiere bellissimo, e che siamo davvero fortunati ad essere parte di questo mondo.

Si è parlato in passato che l'emergenza Covid, per le aziende che hanno le cantine piene di vino che non sono riuscite a vendere, possa essere affrontata con la distillazione di emergenza. Te pensi sia una soluzione?

Beh, come sai, la distillazione è diventata realtà con il DM 6705 e un finanziamento iniziale di 50 milioni di euro, a cui si sono aggiunti altri 28 milioni lo scorso settembre. Guardiamola in dettaglio questa misura, per capire di cosa stiamo parlando: un prezzo di 2,75 euro ad ettogrado con base 10% di alcol, che si traduce in circa 30 centesimi al litro dai quali devono ancora essere detratti i costi di denaturazione e di trasporto in distilleria. Pensiamo davvero che questi 30 centesimi lordi coprano le spese sostenute dai produttori per la coltivazione, raccolta e trasformazione dell’uva, oltre a quelle di almeno un anno di affinamento? Non solo questa misura non interessa ai vignaioli, ma sottrae loro risorse che potrebbero essere utilizzate, come dicevo prima, per valorizzare il vino anziché distruggerlo.
In quest’ottica, che è poi l’ottica del vignaiolo, il consiglio che mi sento oggi di dare ai miei colleghi - e a me stessa - è di investire quante più risorse possibili in marketing e strategia commerciale, e di impostare una buona programmazione per la produzione dei prossimi anni.


Fammi un esempio...

Impostare al meglio la vendemmia appena conclusa e la prossima: ad entrambe dovremmo chiedere vini che ci permettano una più rapida rotazione del magazzino, vini facili da bere e che possano essere offerti a prezzi in grado di farci ammortizzare le sofferenze di questo difficile 2020, e del prossimo difficilissimo 2021. Una strada possibile, ad esempio, può essere quella di produrre un “vino speciale”, un’edizione più maneggevole di un vino che è già nella nostra gamma oppure proprio un vino del tutto nuovo, funzionale a sostenere il nostro reddito e, in un’ottica di filiera, ad aiutare un po’ anche la marginalità dei nostri clienti ho.re.ca. Non dovremo farlo per sempre, se in futuro non ci sarà più utile, ma non dovremmo neanche vergognarci di proporlo se dovessimo averne bisogno. Sui mercati esteri, parliamo apertamente con i nostri importatori: vi assicuro che la maggior parte di loro sarà felice di partecipare ad un progetto smart che può aiutare sia noi che loro a far girare le nostre etichette.

Ultima domanda: come vedi la comunicazione del vignaiolo nel prossimo futuro?

Dobbiamo tutti lavorarci di più: questo è il tempo di dedicarci al nostro sito web, a renderlo più ricco e funzionale; comunichiamo di più con i nostri agenti e distributori, anche loro stanno soffrendo come noi e più informazioni, più flessibilità, più innovazione possono aiutare anche loro. Non abbiamo ancora un database dei clienti o è fermo all’anno 1000? Bene, rimettiamoci mano, rendiamolo completo e aggiornato: servirà da piattaforma per inviare delle newsletter o delle semplici email di saluto. Aiutano, eccome. Sembra strano dirlo, ma questo è un periodo di trasformazione, non di blocco. E ogni trasformazione porta con sé delle opportunità, che possono diventare delle grandi opportunità se non ci lasciamo scoraggiare dalle difficoltà che sono inevitabilmente ad esse collegate!

Il vino del Collio Friulano secondo Paraschos

Nel Collio, dove tutte le famiglie del vino hanno origine italiana o slovena, il cognome Paraschos, che tradisce la sua origine greca, è una curiosa eccezione che ha origini lontane ovvero quando negli anni ‘70, il salonicchese Evangelos Paraschos, decide di trasferirsi a Trieste per studiare Farmacia. La sua sembra una carriera abbastanza segnata poi, l’incontro con la moglie Nadia, figlia di ristoratori di Gorizia, crea una svolta inaspettata nella sua vita. Grazie al suocero, infatti, scopre la sua passione per la terra e, in particolare, per la vigna domestica che inizia a lavorare con il solo obiettivo di fornire un po’ di vino al ristorante di famiglia.

Evangelos Paraschos

Gli scherzi del destino per Evangelos non sono finiti perché, se produci vino nel Collio e negli anni ‘90 incontri ed inizi a frequentare Stanko Radikon e Josko Gravner, allora clienti del ristorante, è chiaro che la tua vita da vignaiolo inevitabilmente cambierà. In meglio! E così, nel 1997, Evangelos prende il coraggio a due mani e compie il grande passo acquistando all’asta i primi 4 ettari di vigneto tra San Floriano e Oslavia costruendo, l’anno successivo, la sua prima cantina e uscendo sul mercato, nel 1999, con la sua prima vendemmia mentre bisogna aspettare il 2003 per la sua prima annata "naturale".

La cantina e parte dei vigneti - Foto: L'indovino

La viticoltura, ieri come oggi, ha un solo credo:  zero concimi chimici, diserbanti o antiparassitari nocivi. I vigneti sono tutti inerbiti, il terreno viene mosso solo d'inverno se necessario. Le concimazioni avvengono solo saltuariamente ed esclusivamente con letame animale appropriatamente stagionato. Oggi, grazie anche al prezioso aiuto dei figli Iannis ed Alexis, Evangelos gestisce circa 7 ettari di vigneto dove troviamo maggiormente friulano, pinot grigio, ribolla gialla e merlot. In quantità minore sono presenti anche malvasia, chardonnay, sauvignon e pinot nero. Le parcelle sono localizzate tra i territori di San Floriano, Oslavia, Gradisciutta, Lucinico e Sant’Andrea.

Foto: Winetaste.it

In cantina, ovviamente, si segue una filosofia naturale e non interventista per cui l’uva, una volta vendemmiata manualmente, viene fatta fermentare sulle bucce, in maniera spontanea e senza controllo della temperatura, per circa una settimana usando tini aperti di legno o, preferibilmente, di plastica alimentare o vetroresina. “Ogni tipologia di uva raccolta in vendemmia – racconta Alexis - va all’interno di un solo tino e viene vinificata separatamente. L’assemblaggio avviene solo alla fine. Questo per un discorso di pulizia e per evitare ogni contaminazione di tipo batterico”. 



Una volta sfecciato, il vino viene poi passato all’interno di grandi botti di rovere dove rimane in affinamento per almeno due anni prima di essere imbottigliato e commercializzato.


C
on Alexis, che passo a trovare una mattina di estate, degustiamo i seguenti vini:

Paraschos – Kai 2016 (100% friulano): questo Friulano in purezza, provenienti da vigne di 80 anni localizzate a Gradiscutta e Lucinico, rappresenta un biglietto da visita vincente non solo per i Paraschos ma per tutto il territorio del Collio che non può non essere rappresentato da questo vitigno unico così come il vino che, grazie alle vigne vecchie, risulta straordinariamente complesso e vibrante. Aromi di fiori, erbe aromatiche, e frutta a polpa gialla e salgemma anticipano un sorso pieno, vigoroso, ricco di spunti minerali e, soprattutto, lunghissimo e straripante nel finale.


Paraschos – Kai 2
009 (100% friulano): il friulano di Paraschos evolve ma non invecchia. Anzi, aggiunge carattere e complessità ad un quadro generale già di per sé sontuoso e quasi inscalfibile. Al bouquet olfattivo del precedente vino, questo Kai viene impreziosito da sensazioni di nocciola tostata, humus, caramella all’orzo e bastoncino di liquirizia. Il sorso, con al sua vivacità e la sua prorompente freschezza, è un inno al Collio e ad uno dei suoi vitigni prediletti.


P
araschos – Orange One 2017 (50% ribolla gialla, malvasia e friulano): da questo uvaggio tipico del Collio nasce questo orange wine, dove le uve vengono macerate anche fino a quattro settimane, che i Paraschos hanno voluto produrre come tributo al vino tradizionale che si faceva in zona nel passato. Naso, come tutti i vini di questa tipologia, estremamente sfaccettato e dotato di tridimensionalità grazie a tre assi olfattivi caratterizzati da frutta esotica matura, spezie orientali e sensazioni di tostatura. Sorso affatto pesante ma dotato di leggerezza, equilibrio e una certa briosità tannica che lo rende compagno adatto di carni succulente.


Paraschos – Amphoreus “Malvasia” 2017 (100% malvasia istriana): dalle viti più vecchie di malvasia istriana (90 anni di età) dei vigneti di Lucinico e Sant’Andrea si selezionano i grappoli con le bucce più sane che, dopo una diraspatura, vengono lasciati macerare in anfore terracotta cretesi, incerate internamente con cera d’api del Collio, per tutta la durata della fermentazione e del seguente affinamento
(circa 12 mesi) fino a completo illimpidimento e stabilizzazione naturale del vino. Al naso questa malvasia risulta graffiante ma al tempo stesso armonica, si fa apprezzare per i suoi aromi di albicocca disidratata, agrumi canditi, ginestra passita, erbe di campo e cera d’api. Al sorso si apprezza la grintosa texture del vino che gioca su un teso equlibrio tra acidità quasi salmastra e una morbidezza glicerica che avvolge il palato senza eccessi.


Paraschos -
Amphoreus “Ribolla Gialla” 201
5 (100% ribolla gialla): rispetto al vino precedente, come logico immaginarsi, questa ribolla gialla sembra essere ancora in fase embrionale, il corpo e sopratutto il graffio tannico di questo vino hanno ancora bisogno di tempo per amalgamarsi e svilupparsi. Con il suo respiro aromatico di miele millefiori, tiglio, pesca gialla matura e mandorla amara e la sua vigorosa silhouette gustativa è un vino importante che diventerà a mio giudizio prodigioso se ce lo dimentichiamo in cantina per almeno altri 5 anni.



Paraschos – Merlot 2014 (100% merlot): da viti di merlot abbastanza giovani (circa 15 anni di età) nasce questo rosso davvero interessante con un naso articolato dove ritrovo note di mora, confettura di visciole, tabacco da pipa e lievi sentori di china e grafite. Sapore pieno, armonico, la vendemmia non certo calda dona al vino linearità e rigore ed una splendida verve acida quasi salmastra che accompagna un finale nitido e succosissimo. Piccola curiosità: a casa Paraschos il merlot è stato imbottigliato per la prima volta nel 2004, ovvero, la prima vendemmia delle viti da loro piantate nel 2001 a Sant’Andrea. Gli innesti per le nuove vigne sono stati presi dai tralci delle vecchie viti di merlot coltivate nello stesso paese e vecchie anche più di 80 anni.