Tenuta Trerose – Rosso di Montepulciano “Salterio” 2022


La Tenuta Trerose, situata a Valiano, ai confini con l’Umbria e il Lago Trasimeno, nella parte sud-est dell’areale di produzione del Rosso e del Nobile di Montepulciano, è una delle realtà più affascinanti del panorama vitivinicolo toscano la cui storia affonda le radici nell’epoca romana, quando la tenuta si trovava lungo importanti vie di comunicazione come la Via Lauretana e il Canale Maestro della Chiana. In quello che oggi è il parco antistante la villa di Trerose, ancora si possono trovare testimonianze del passaggio attraverso queste vie di comunicazione come, ad esempio, i resti di una pietra miliare che indicava al tempo la distanza da Roma.


La Tenuta Trerose, il cui nome e logo derivano dal blasone nobiliare raffigurante un orso con tre rose tricolori appartenente al vescovo Jacopo Vagnucci, proprietario del podere nel XV secolo, oggi conta oltre 100 ettari di vigneti, disposti ad anfiteatro e coltivati secondo i principi dell’agricoltura sostenibile, disposti su cinque colli ognun dei quali assume caratteristiche uniche di suolo, ricco di argille e sabbia, ed esposizione la coltivazione del Prugnolo Gentile, il vitigno principale utilizzato per la produzione dei vini aziendali.


Durante una bellissima degustazione organizzata all’interno della bellissima villa padronale del 1500 dal mio caro amico Raffaele Porceddu, hospitality manager del gruppo Angelini, ho degustato tutta la gamma dei vini della Trerose all’interno della quale il mio “coup de coeur” è andato al Rosso di Montepulciano “Salterio” 2022 (95% prugnolo gentile e 5% colorino).


Il vino, il cui nome deriva da un vecchio strumento musicale a corde risalente al 300 a.C., mi ha entusiasmato perché, dopo tanto tempo, ho trovato una versione moderna, scapigliata e scattante del Rosso di Montepulciano che finalmente, grazie a Trerose, ritorna alla sua funzione originaria: essere un ottimo vino quotidiano, un jolly a tavola. 


Come arrivare a tutto ciò? Semplice, si abbandonano certe inutili “zavorre” e si libera il vino che, grazie all’annata 2022, risulta essere un rosso arioso, leggiadro, dal carattere olfattivo puntellato da piccoli frutti rossi di bosco e sensazioni di agrumi rossi. La bocca, poi, è divertente, dinamica, dotata di sublime componente acido-sapida tanto che il sottoscritto, questa estate, freddando la bottiglia un paio di ore in frigo, ha abbinato il Salterio ad una strepitosa zuppa di pesce sarda. Provare per credere!

InvecchiatIGP: Dievole - Bianco Toscana IGT Campinovi 2017


di Stefano Tesi

In ambito enoico, e non solo, i cosiddetti “cambi di stile” sono un terreno tanto stimolante quanto scivoloso, perché spesso inducono ad assaggiare con molti preconcetti: quello che il vino per forza sia cambiato (il che è ovvio), quello che il prima sia peggio del dopo o viceversa, quello che la soluzione di continuità col passato sia troppa, o che, alla fine, nel bicchiere si trovino vini eccessivamente diversi per essere confrontati. E via dicendo. Perdendo così di vista quegli elementi che, invece, la continuità la danno: il vitigno, il territorio e il clima.


In quest’ottica, partecipare a una verticale di Campinovi, il Bianco Toscana Igt di Dievole, prodotto nel cuore del Chianti Classico con uva Trebbiano al 100% dalla cantina del gruppo ABFV Italia (Alejandro Bulgheroni Family Vineyards, di proprietà del magnate argentino), è stata un’esperienza interessante: nel bicchiere abbiamo trovato 5 annate consecutive (2017-2021) di questo vino, ricavato da particelle selezionate dello stesso vigneto di 10 ettari, impiantato in un’area di fondovalle nel 2014.


Annate caratterizzate ognuna – ha spiegato il direttore generale Stefano Capurso - da forti cambiamenti stilistici dettati da differenti usi dei legni e diverse macerazioni, frutto dalla nostra volontà di sperimentare le giuste vie per dare un’identità al vitigno toscano autoctono per eccellenza e di inserirci nel ristretto numero si aziende capaci, in Toscana, di scommettere su un Trebbiano di qualità, importante, adatto anche all’invecchiamento”. Con queste premesse, la nostra attenzione si è concentrata sul millesimo più vecchio, il 2017, caratterizzato da un andamento stagionale assai siccitoso. Il vino fu affinato, quell’anno, per 12 mesi in botti grandi di rovere francese non tostato.

Il risultato della degustazione è stato superiore alle mie aspettative.

Il tappo era ovviamente perfetto. Il colore è un oro rosso profondo, tendente al biondo-miele. Al naso spicca subito una marcata nouance varietale che sfuma poi in note evolute e penetranti di fiori appassiti, frutta ipermatura, pot pourri. 


Al palato il Campinovi è complesso ma ancora agile, lunghissimo, asciutto all’impatto e poi più morbido, con vaghi ritorni fruttati e una dominante amarognola che lo rende enigmatico. In definitiva: un vino ancora vivo, che sarebbe interessante lasciare ancora qualche anno in cantina “per vedere l’effetto che fa”.

Hofkellerei des Fürsten Von Liechtenstein - Ried Karlsberg Riesling Privat 2022


di Stefano Tesi

Dagli storici vigneti principeschi in Bassa Austria, un Riesling al contempo potente, delicato, ricco di sfumature: al naso emergono pietra focaia, mela, pesca, frutta matura che in bocca prendono corpo con l’acidità e assumono belle note citriche.


Equilibrato, lungo, soave, insomma una gran bevuta.

Il Morellino di Scansano protagonista a "Vinellando" 2024


di Stefano Tesi

Tirando le somme della 23° edizione di "Vinellando", l'evento-concorso dedicato al Morellino di Scansano che ogni terzo weekend di agosto si organizza a Magliano in Toscana, la prima domanda che verrebbe da farsi è: perché, su centinaia di produttori, solo qualche decina decide di mettersi in gioco partecipando a questo pur consolidato appuntamento pubblico (definito dagli stessi organizzatori “nazionalpopolare, ma di qualità”)?


Le risposte possono e potrebbero essere tante. E tutte legittime: sovraffollamento delle manifestazioni legate al vino, calendario incompatibile con altri impegni, esaurimento del budget, periodo feriale, scarsa fiducia nel potenziale promozionale dell’evento in parola o in questo tipo di eventi in generale, aspettative ed esigenze diverse rispetto alla tipologia di pubblico presente, questioni diplomatiche o politiche interne alla denominazione, strategia aziendali o chissà cos’altro.


Io, però, da presidente (ahimè, altrettanto “storico”) della giuria che da sempre sovraintende al momento-clou di Vinellando, ossia il concorso per “il miglior Morellino” e per il “Morellino più tipico” (quest’anno era di scena la vendemmia 2022), mi sono fatto una domanda parallela. E l’ho espressa anche pubblicamente, durante la premiazione. Chiedendomi: cosa ha spinto invece 23 produttori a iscrivere il proprio vino al contest, insomma a mettersi in gioco, in gara, diciamo pure a esporsi, in una circostanza giocata in casa, in un contesto familiare e pertanto, come tale, anche un po’ insidioso? L'ho trovato un gesto di coraggio niente affatto scontato, a ben pensarci. E a cui va dato il giusto riconoscimento.

Giuria

La risposta, o meglio le risposte le ho in buona parte trovate già negli assaggi. Tutti svoltisi ovviamente alla cieca, e sotto il vigile occhio di un notaio, dal sottoscritto e dai colleghi della giuria: Filippo Bartolotta, Aldo Fiordelli, Francesca Granelli, Richard Baudains e Riccardo Margheri. Una scelta, quella di un panel giudicante composto esclusivamente da critici, alla quale non ho contribuito direttamente, ma che ho condiviso, perché garante, rispetto al passato, di un’uniformità di metodo – condivisibile o meno che sia – capace di dare indicazioni coerenti. Le stesse indicazioni che, ed ecco la prima delle risposte, i vignaioli in concorso cercavano esplicitamente di ottenere per capire se e quanto la strada da loro intrapresa sia in grado di incontrare il gusto della stampa, quali ne siano invece i punti deboli, su quali le leve puntare per riscuotere riscontri positivi su guide e giornali. L’obbiettivo può apparire ovvio, ma non lo è affatto: primo, perché il criterio di degustazione dei giornalisti è diverso da quello di altre e pur qualificatissime categorie di assaggiatori. Secondo perché, al di là del risultato finale, era proprio l’approccio dei giornalisti ai vini, nel loro complesso e nei dettagli stilistici o tecnici, che ai vignaioli interessava conoscere. Mettendo a fuoco specificità che, in una giuria mista di professionalità diverse come in passato, rischiava di vedersi annullata per compensazione. E quindi di non poter dare indicazioni precise.
Intendiamoci bene: 23 campioni, qualunque sia la composizione di una giuria, non possono certo rappresentare l’intera denominazione e quindi offrire prove di alcunchè sulla medesima. Quindi nessuna velleità in tal senso. Ma alcuni indizi di tendenza forse, sì, li possono dare.


Anche quest’edizione di Vinellando non ha infatti mancato di fornirli: dai calici sono emerse, ad esempio, minori estrazioni, più freschezza, più agilità e al tempo stesso, in modo a volte contraddittorio, il tentativo da parte di alcune aziende (non sempre riuscito, ma questo fa parte del gioco) di mantenere uno stile e una riconoscibilità propri, a volte anche a costo di inseguire modelli meno attuali, ma commercialmente più affidabili nei confronti della clientela consolidata. Il risultato finale è stato, nelle differenze a volte anche marcate tra le diverse etichette, la percezione di un trend condiviso e di un ulteriore rialzo della qualità media rispetto alle precedenti edizioni. Resa evidente non solo dai giudizi individuali, ma dalla classifica finale, dagli scarsi scarti tra i punteggi di noi giurati e dalla discussione di confronto sui campioni che - altro importante elemento di novità rispetto al passato – si è deciso di animare tra una batteria e l’altra.
Non credo sia un caso se, alla fine, si è riscontrata una convergenza piuttosto decisa verso i nomi dei vincitori: al primo posto come “Miglior Morellino 2022” si è piazzato il Podere Poggio Bestiale, al secondo posto la Fattoria dei Barbi, al terzo Il Forteto della soc. agr. Le Rogaie.


Ancora meno casuale il fatto che la palma di “Morellino più tipico” sia andata allo stesso vino vincitore, a riprova che, almeno per i sei degustatori in campo, l'idea della qualità e quella della "tipicità" (concetto volutamente sfumato e che di solito dà il "sale" al confronto) coincidono o quasi. Alla luce di questo, si torna alla domanda iniziale: perché, davanti a un'occasione di confronto come quella offerta da Vinellando e a prescindere dall'intrinseco valore promozionale della manifestazione, su centinaia di produttori di Morellino di Scansano, solo qualche decina decide di mettersi in gioco partecipando a un concorso organizzato sul territorio e quindi, in qualche modo, pure identitario?

Il dibattito è aperto: battete un colpo!

InvecchiatIGP - Paternoster: Aglianico del Vulture "Rotondo" 2008


di Luciano Pignataro

Non è certo una novità la predisposizione all’invecchiamento sano e gioioso dell’Aglianico in generale e del Vulture in particolare. Quando si lasciano dormire le bottiglie al riparo della luce, stese e a temperatura giusta non c’è bottiglia ben eseguita che possa ossidarsi. Naturalmente molto dipende dall’annata e dal protocollo di lavorazione, ma in generale possiamo dire che fra acidità e alcol e davvero difficile perdersi grandi bevute. Spinto da non so quale impulso infanticida ho allungato la mano verso la magnum di Rotondo di Paternoster, anno 1998, oltre un quarto di secolo fa. Il motivo che mi spinge a parlare di questo vino è il fatto che questa etichetta della storica cantina di Barile, che ebbi la fortuna di visitare quando ancora aveva la vecchia sede nel cuore del paese arbëreshe a quota 600 metri, parte proprio con questo millesimo spettacolare in Vulture.


Perché la decisione di affiancare al Don Anselmo, etichetta portabandiera dell’azienda un secondo vino? Bisogna ritornare con la mente a 26 anni fa, ossia alla fine degli anni ’80 quando l’uso della barrique, sotto la spinta di Parker nel mondo e di Veronelli in Italia, conobbe uno sviluppo incredibile. In pratica, nonostante la resilienza di alcuni produttori tradizionali che usavano botti grandi, non c’era cantina che non avesse il 225 litri da esibire al visitatore con la stessa foga con la quale oggi vengono nascoste in un doppio fondo sostituite dall’anfora o dagli antichi tonneaux. Moda che va, moda che viene, fatto sta che Paternoster decise di produrre una etichetta dall’uva di una tenuta appena acquisita fuori il paese dove poi sarebbe sorta la moferna cantina, utilizzando appunto la barrique per l’aglianico chiamando la bottiglia Rotondo. Fu, manco a dirlo, il primo tre bicchieri della Basilicata dopo anni di due bicchieri al Don Anselmo.


All’epoca la Guida Gambero-SlowFood era un vero Ipse dixit nel mondo del vino capace di orientare il mercato e svuotare effettivamente le cantine. I tradizionalisti continuarono a preferire il Don Anselmo ma fu il Rotondo il vino emblematico del rinnovamento del Vulture sino all’arrivo di Titolo di Elena Fucci a partire dal 2004.
A distanza di tanti anni cosa possiamo dire. Beh, in tutta sincerità che la scelta della Guida Ipse dixit era forse omolgante ai mantra dell’epoca ma che non era sbagliata: il Rotondo 1998, annata che Veronelli definì problematica in cantina nonostante i facili entusiasti da vendemmia del secolo che allora si portavano quanto le barrique, si è espresso con una perfezione didattica assoluta, senza sbavature, senza cedimenti, senza residui, con un naso maturo in cui frutto e legno appaiono assolutamente ben integrati e un palato bellissimo, elegante, fine, con una chiusura lunghissima e precisa che invoglia a ripetere il sorso. Non c’è stanchezza bnel berlo nonostante l’alcol e ben si è accompagnato ad ogni ben di Dio, da un erborinato cilentano di capra alla milza imbottita, dal cotechino irpino alla pasta e ceci e ai pecorini stagionati.


Una grande bevuta che ci ricorda una stagione di grande entusiasmo anche al Sud, atteggiamento ottimistico che ha avuto le sue difficoltà ma anche le sue conferme. Un vino assolutamente identitario, che conferma le potenzialità in credibili di questa regione vulcanica, dello stesso territorio di Barile, il paese che ha il lato nord-est della sua collina trasformato in una gruviera per le oltre cento cantine scavate nel corso dei secoli e che oggi compongono il cammino delle Sheshë.
Un territorio onirico, silente, sorvegliato dalle sette bocche del vulcano che esplose in modo devastante 700mila anni fa e dai castelli di Lagopesole e Menfi costruiti dal grande Federico II, un monarca decisamente più moderno e aperto mentalmente della nostra attuale classe dirigente.

Gravner - Rosso Rujno 2006


di Luciano Pignataro

Uno dei vini italiani mitologici in magnum con uve merlot e cabernet sauvignon di una vecchia vigna. La ricchezza al naso e la pulizia al palato hanno un valore assoluto, insuperabile. 


Ma quello che colpisce 
sono la modernità e la bevibilità di questo vino sacro, un privilegio averlo provato grazie a Simone Padoan.

Antonella Lombardo e i vini calabresi di Bianco


di Luciano Pignataro

Antonella Lombardo faceva l’avvocato a Milano quando, nel 2019, decise di invertire la direzione di marcia della propria vita tornando a Bianco, in Calabria, per fare vino. Uno dei numerosi casi di abbandono della grande città che non aveva retto allo stress dell’emergenza rivelando la propria debolezza strutturale con le immagini della grande fuga alle stazioni di migliaia di giovani del Sud.
Bianco è nella Locride, precisamente lungo la Costa dei Gelsomini e le tracce della cultura del vino risalgono sicuramente ai Greci che sbarcarono nell’VII secolo a Capo Zefirio. Fu così che la Calabria divenne una piattaforma di lancio dei vitigni coltivati dai coloni e la traccia di questa storia è nell’incredibile numero di varietà di uva, oltre cento, che ne fanno ancora oggi la regione italiana più ricca di patrimonio genetico.

Antonella Lombardo -  Foto: Reggiotoday

Le tracce di questa storia sono nelle centinaia di palmenti sparsi sulle colline della costa, circa 700 tra Bruzzano, Casignana e Ferruzzano dove ne sono stati catalogati ben 160: in pratica ciascuna famiglia lavorava in propri l’uva e aveva il suo personale, un po’ come noi oggi abbiamo in tutte le case il frigorifero! Il nome Bianco viene dai calanchi argillosi che costituiscono, insieme ai venti dello Jonio e dell’Aspromonte, al clima e alla luminosità, le condizione pedoclimatiche favorevoli alla viticoltura la cui importanza viene sottolineata dalla dop Greco di Bianco. Uva è in realtà una Malvasia chiamata Greco, termine usato in tutto il Sud per uve molto differenti fra loro.

Bianco -  Calabria

L’arrivo di Antonella e l’incontro con l’enologo toscano Emiliano Falsini hanno acceso la miccia del cambiamento, un po’ a Cirò una quindicina di anni fa o come sta avvenendo in provincia di Cosenza sul Pollino e lungo nella provincia di Reggio Calabria dalla Costa Viola a Bivonci. Emiliano Falsini sta lavorando molto al Sud, citiamo i vini Fontanavecchia nel Sannio, Francesca Fiasco negli Alburni in Cilento, Girolamo Grieco sull’Etna. Interpreta il vino, soprattutto i rossi, in maniera decisamente moderna, a sottrarre piuttosto che aggiungere per usare due termini in voga della critica gastronomica. Rossi bevibili ma non banali, direi essenziali.

Emiliano Falsini

Ed è quello che riesce ad ottenere anche in questo luogo, dai circa cinque ettari di vigna di Antonella Lombardo che deve combattere con rese basse, bassissime: a stento raggiunge le 15mila bottiglie perché non si superano i 20 quintali per ettaro negli ultimi anni soprattutto per la carenza di acqua che stressa le viti ormai dal lontano 2003, prima vera annata calda italiana con i suoi 40 giorni pazzeschi che allora sembravano una eccezione e che adesso sono la norma. I vini di Antonella hanno personalità, carattere, possono piacere o meno ma sicuramente si ricordano. Sono ottenuti da uve allevate in regime biologico dove si pratica solo sovescio. La fermentazione viene sollecitata da lieviti indigeni. Noi li abbiamo provati in cantina, ricavata dai capannoni di una cooperativa vitivinicola che ha chiuso i battenti tanti anni fa.

Charà Rosato Nerello Mascalese IGT Calabria 2023 

Siamo di fronte alla Sicilia e dobbiamo dire che di Nerello qui ne abbiamo tanto con grandi risultati. Il vino viene affinato per cinque mesi sulle fecce. Qui il rosato si esprime alla grande, ricco di personalità, piacevole, sapido.

Cheiras Greco di Bianco DOC 2022

Qui siamo in una tradizione rivisitata come diremmo a tavola, via il caramello e i datteri, avanti con note suadenti di pesca, sentori di macchia mediterranea. Il vino affina sulle proprie fecce per oltre un anno.

Greco Calabria IGT 2022 

La conferma della mia teoria per cui i bianchi andrebbero bevuti tutti almeno dopo due anni dalla vendemmia. Da una sola vigna, Fresco, polposo, lunghissimo e dissetante.


Autoritratto Mantonico Calabria IGT  2022 

Questo vitigno bianco rilanciato da Nicodemo Librandi insieme a Donato Lanati alla fine degli anni ’90 potrebbe giocare un ruolo importante su questo fronte grazie alla incredibili capacità di invecchiamento. Il nome rivela l’ambizione di Antonella di farne un grande vino. Lavorato in acciaio, affina per cinque mesi.

Particella 58 Calabria IGT 2022

Vino certificato biologico, il bianco viene lavorato in acciao dopo una macerazione di 24 ore a freddo. Il risultato è un bianco elegante, di ottimo spessore, decisamente piacevole.


Aoristo Gaglioppo Calabria IGT  2020 

Siamo lontani da Ciro, 202 chilometri sulla famosa 106 jonica che rappresenta uno dei gravi ritardi che abbiamo in Italia. Aqui la mano di Falsini è evidente: il vino è leggero, freschissimo, si aggancia ai grandi rossi dei Cirò Boys e di Librandi (Duca Sanfelice). Affina in legno grande e barrique dopo la fermentazione in acciaio per 15 mesi e poi altri sei in bottiglia prima di essere commercializzato.

Ichò 2020 Calabria IGT rosso

Un vino di vigneto che mette insieme nerello mascalese, gaglioppo e calabrese nero. Lunga macerazione a contatto con le bucce e affinamento in legno grande e barrique per 15 mesi, poi altri sei mesi in bottiglia. Il risultato è un vino scattante, dal frutto piacevole e preciso. Dalle ottime prospettive di invecchiamento.


Ogni vino è un racconto, un sogno, l’espressione di una donna che ama la sua terra in maniera viscerale e che è pronta a sacrificare tutto per portare avanti questo progetto. Antonella ed Emiliano sono una coppia micidiale che ci farà divertire molto, intanto vi dico che questi vini sono antichi e moderni. Non è un ossimoro, perché la radici e il territorio hanno tanto da raccontare, ma l’impostazione segue proprio il gusto moderno del momento, soprattutto sui rossi nei quali si rivela meglio la mano. E bianchi? Se si lascia libera un po’ di acidità senza averne paura ci si può davvero divertire. L’equilibrio non fa per noi!