Villa Franciacorta e quel cambio di nome...

di Lorenzo Colombo

Due vini di Villa Franciacorta per spiegare il cambio di nome

Il 2008 fu un anno fondamentale per la Franciacorta ed i suoi vini, ci fu infatti una modifica sostanziale del disciplinare di produzione. Questo cambiamento andò a riguardare sia in vini con le bollicine –ovvero la produzione più importante del territorio- ma in maniera più netta i vini fermi. La situazione che si presentava allora –sinteticamente- era la seguente:

Franciacorta Docg

Nel 1993 un cambio nel disciplinare di produzione aveva stabilito che potesse essere prodotto “unicamente” tramite la rifermentazione in bottiglia ed andava ad eliminare la scritta in etichetta “Metodo Classico. Due anni dopo, nel 1995 il vino otteneva – primo spumante italiano prodotto tramite rifermentazione in bottiglia-
Le tipologie ammesse erano: Franciacorta, Franciacorta Satèn, Fraciacorta Rosé. Per tutte e tre era prevista inoltre la menzione Millesimato. I vitigni utilizzabili erano Chardonnay e/o Pinot bianco e/o Pinot nero.
Per quanto riguardava il Satèn non era ammesso il Pinot nero, che invece diventava obbligatorio (minimo 15%) nel Rosé(In seguito ci fu un ulteriore modifica nel disciplinare che comunque per quest’articolo non ci interessa).

Terre di Franciacorta Doc

Così si chiamavano i vini fermi, sia bianchi che rossi, prodotti sul territorio. Per quanto riguardava i bianchi i vitigni ammessi erano gli stessi del Franciacorta, ovvero Chardonnay e/o Pinot bianco e/o Pinot nero. Quelli rossi invece prevedevano almeno il 25% di Cabernet (sia Franc che Sauvignon), almeno il 10% di Nebbiolo, altrettanto di Barbera ed altrettanto di Merlot, più (eventualmente) altri vitigni a bacca rossa. La produzione totale del 2007 era stata di poco meno di 8,4 milioni di bottiglie (circa la metà rispetto ai numeri odierni) e il numero d’aziende associate al consorzio erano novantasei. Il nuovo disciplinare, come detto, stravolgeva completamente questo status quo, soprattutto per quanto riguardava i vini fermi –ed è su questi che ci focalizzeremo- ed in particolar modo quelli rossi.

La prima modifica significativa riguardava il nome, veniva infatti sostituito il termine “Terre di Franciacorta” con “Curtefranca”, questo per evitare qualsiasi confusione con il vino con le bollicine, inoltre si andava a modificare la composizione dei vini e, nel caso di quelli bianchi a stabilire le percentuali dei vitigni che rimanevano comunque gli stessi. Lo Chardonnay diventava il vitigno principale, con un minimo del 50% -d’altra parte quest’uva rappresenta oltre l’80% della superficie vitata del territorio- agli altri due vitigni era riservato, nel loro insieme, al massimo l’altro 50%.

Come dicevamo però lo stravolgimento riguardò i vini rossi che si videro cambiare nettamente nella loro composizione che divenne la seguente: Cabernet franc e/o Carménère per un minimo del 20%, Merlot per un minimo del 25%; Cabernet Sauvignon da un minimo del 10% ad un massimo del 35%, inoltre si potevano utilizzare altri vitigni a bacca rossa per un massimo del 15%.

Cos’era successo? Perché di questo drastico cambiamento?

Il motivo principale fu dato dal fatto che si scoprì che buona parte di quello che sin’allora veniva considerato Cabernet, nello specifico della varietà Franc, in realtà era Carménère –vitigno riconosciuto dal disciplinare di produzione proprio nel 2008- e quindi questa modifica diventava indispensabile se non si voleva incorrere in sanzioni dovute al non rispetto del disciplinare.

Ma perché questa lunga premessa quando alla fine stiamo affrontando la degustazione di due vini?

Perché i due vini, seppur della stessa annata –la 2006- hanno in etichetta una diversa denominazione: Curtefranca per quando riguarda il bianco e Terre di Franciacorta per il rosso.


L’azienda

Villa Franciacorta non è solo un’azienda, ma un borgo medioevale risalente al XV secolo che si trova nel comune di Monticelli Brusati. Venne acquistato nel 1960 da Alessandro Bianchi. Purtroppo Alessandro –tra i fondatori del Consorzio del Franciacorta- s’è n’è andato poco più di un mese fa, a 85 anni d’età a causa di questo maledetto virus che tanto ha colpito la provincia di Brescia.  Le prime etichette di vini fermi risalgono al 1974 e quattro anni più tardi vedono la luce i primi spumanti ed è appunto in quegli anni che l’azienda abbandona la policoltura e si dedica unicamente alla produzione di vino. Attualmente l’azienda dispone di 37 ettari a vigneto dai quali si ricavano annualmente circa 300mila bottiglie

I vini

Diciamo subito che all’apertura entrambi i tappi non si presentavano molto bene (le bottiglie sono sempre state conservate coricate), quello del vino bianco, appena tagliata la capsula presentava una chiazza di muffa scura, brutto presagio, mentre il sughero del vino rosso era bagnato sino a metà della sua lunghezza.
In realtà però i vini non presentavano alcun problema, se non una nota evolutiva, soprattutto in quello rosso.

Curtefranca Bianco Doc “Pian della Villa”

Le uve, Chardonnay in purezza, provengono da un vigneto pianeggiante posto di fronte all’azienda, ai piedi della collina Gradoni, della quale condivide la tipologia di suoli, un cru aziendale di nome Pian della Villa. I sistemi d’allevamento utilizzati sono il Guyot ed il Silvoz modificato, con densità d’impianto di 4.500 ceppi/ettaro, con resa di 80/95 q.li /ha. La vendemmia è leggermente tardiva in modo d’avere la piena maturità del frutto; la fermentazione si svolge in acciaio -dopo criomacerazione delle uve- dove il vino rimane sino a primavera, viene quindi posto in barriques dove rimane sino all’autunno, dopo l’imbottigliamento soste per almeno dodici mesi in bottiglia.


Molto bello il colore, oro luminoso, limpido, ricorda l’olio. Intenso all’olfatto dove si coglie immediatamente una nota tostata che rimanda al caffè ed alle fave tostate, segno che, nonostante siano passati diciotto anni, il legno non è ancora stato completamente assorbito, perlomeno al naso, emergono poi fiori di tiglio e d’acacia, note di miele e sentori di frutta tropicale e di mela matura.
Morbido al palato, dove percepiamo sentori di nocciole tostate e di vaniglia, pesca gialla ed albicocca matura, buone sia la vena acida (leggermente agrumata) che la nota sapida che donano freschezza al vino, lunga infine la sua persistenza.

Terre di Franciacorta Rosso Doc “Gradoni”

Le uve per la produzione di questo vino - frutto di un’accurata selezione- provengono dal vigneto Gradoni, un vero e proprio cru aziendale situato sulla collina alle spalle dell’azienda. Il sistema d’allevamento è il Guyot con densità di 4.000 ceppi/ettaro e resa di 60-80 q.li/ha. Si tratta di un classico taglio bordolese con 30% di Cabernet franc e parti uguali di Cabernet sauvignon e Merlot. La fermentazione si svolge in acciaio mentre l’affinamento, per dodici mesi, in barriques, seguito da ulteriori diciotto mesi di sosta in bottiglia.


Color granato profondo, l’unghia presenta riflessi aranciati. Chiuso all’inizio, anche dopo averlo scaraffato, austero, presenta note di goudron e sottobosco, radici e liquirizia, unitamente a sentori balsamici, mentolati e leggermente speziati. I tannini sono netti, il vino è asciutto ed ancora fresco, con una vena acida ancora ben presente, tornano i sentori di radici, chiude con buona persistenza su ricordi di bastoncino di liquirizia.

Catabbo - Tintilia del Molise 2015

Ho provato in molti modi, inclusi abbinamenti arditi, a ammazzare questa Tintilia, vitigno-bandiera del Molise. 


Niente da fare: ogni volta il vino, che nasce in acciaio e vetro, è risorto come un’araba fenice, col suo naso ai sentori di Mediterraneo e di legno secco e una bocca suadente e ampia, diretta e netta. In sintesi: buono!

Al tempo del Covid-19 riapertura e ristorazione non fanno rima!


di Stefano Tesi

La cosiddetta riapertura è alle porte, anche se nessuno ancora ha capito di preciso se, come, quando sarà. E, soprattutto, se funzionerà.
Il funzionamento si giudicherà su tre parametri: sanitario - e non è compito nostro - sociale ed economico. Il secondo e il terzo, come cronisti, ci investono invece in pieno.


Tra le preoccupazioni generali, quelle maggiori (non per importanza in assoluto, ci mancherebbe, ma per gravità e implicazioni delle conseguenze) riguardano quel vastissimo settore che fa leva sulla socialità, lo stare insieme quindi, e comprende turismo, ristorazione (che da sola vale 86 miliardi di euro e 1,2 milioni di posti di lavoro) e relativi indotti: dai produttori di vino e cibo alla distribuzione, dall’industria del divertimento al commercio al minuto, dai trasporti alla stampa specializzata e giù a cascata. In Toscana, un'aggregazione spontanea di ristoratori preoccupati ha dato vita in pochi giorni a un movimento trasversale che riunisce migliaia di operatori del settore in tutta Italia. A rincarare la dose è venuta la Fipe, che per i pubblici esercizi - bar, ristoranti, pizzerie, catene di ristorazione, catering, discoteche, pasticcerie, stabilimenti balneari - prevede "30 miliardi di euro di perdite il rischio di veder chiudere definitivamente 50mila imprese per 300mila posti di lavoro"

Ovunque, del resto, imperversano da un lato simulazioni da post virus, tra paratie di vetro e camerieri coi guanti (ma di gomma, come quando si puliscono i cessi), dall’altro fantasiosi e nuovi “modelli di business” che, in buona sostanza, suggeriscono ai ristoratori di cambiare mestiere, trasformandosi in imprenditori del catering o dell’asporto. Sbocchi non certi praticabili per tutti e che comunque, in quanto pecetta momentanea pensata più per passare il tempo che non per fare affari, già mostrano la corda.
Insomma è un subbuglio di domande e di ansie per il futuro.
Al netto di commenti miopi, o emotivi, o cointeressati (tutti purtroppo presenti in abbondanza, anche sui giornali) , dividerei il discorso in due parti molto nettamente separate, dove il confine è segnato tra la fine dell'emergenza e il post emergenza.
Finchè non si sarà conclusa la prima non potremo infatti realmente conoscere la seconda. Sulla quale, quindi, sbilanciarsi ora è prematuro. Può darsi accada di tutto, dal massimo del bene al massimo del male, ma ancora nessuno può saperlo. Concentriamoci dunque sulla prima.

Per come si delinea adesso, con il periodo transitorio e le relative norme, le conseguenze più evidenti saranno due (scegliete voi quale precederà l’altra, secondo me saranno concomitanti):
  • la decimazione di una vasta fetta dei ristoranti in attività, che chiuderanno per impossibilità tecnico/architettonica di adeguarsi, per asfissia finanziaria, per mancanza di prospettive imprenditoriali, per scoraggiamento o per incapacità di riciclarsi in qualcos’altro;
  • per i superstiti, il crollo del 50% della clientela e quindi dei ricavi, ma col mantenimento o la lievitazione dei costi (perciò anche dei prezzi?), perchè sfido chiunque ad aver voglia di andare a ristorante tra pannelli di vetro, guanti e mascherine, accessi contingentati, atmosfere ospedaliere, servizi acrobatici e distanze sanitarie. Oltre a situazioni quasi comiche: ad esempio, il vino chi lo versa? Chi tocca la bottiglia potrebbe contaminarla e deve comunque avvicinarsi. Che si fa, si stappa una bottiglia per commensale, con conseguenze etiliche ed economiche conseguenti?
Insomma, la gran parte della gente starà a casa e, se proprio avrà voglia di qualcosa, se la farà portare. Ma ovviamente non sarà la stessa cosa né per il cliente, né per il ristoratore.
Il tutto si risolverà con una facilmente vaticinabile catastrofe e la caduta a scalare di tutti i settori del comparto. Più una variabile inquietante: a chiudere non saranno solo i più deboli o i meno capaci. Insomma non ci sarà una selezione qualitativa. La decimazione potrà dipendere da mille altri fattori contingenti: ubicazione, regione, architettura, interpretazione locale delle norme generali e così via.
Ma il punto focale è forse un altro, sebbene meno appariscente in un periodo di emergenza come questo.


Sarà capire, al netto del danno percentualmente maggiore che subiremo in Italia in quanto paese economicamente molto dipendente dalla filiera turismo-ristorazione-cibo-vino, se la crisi che si profila sarà anche globale, e perciò planetaria, oppure più nazionale che altro.
Ovvio che se, per ragioni di prevenzione sanitaria, andare a ristorante diventerà ovunque pressochè impossibile, o pericoloso, o troppo scomodo, o comunque spiacevole, anche le conseguenze e i rimedi andranno visti in un’ottica planetaria e i contraccolpi negativi spalmati sull’intera industria mondiale del settore.
Se invece il problema, per questioni normative o epidemiologiche, riguarderà solo o soprattutto l'Italia, allora saranno dolori peggiori.
Anche alla luce del quadro sociopolitico generale, è difficile essere ottimisti.

Duca di Salaparuta - Duca Enrico 1995


Una bottiglia epica, la prima volta del Nero d'Avola tra i grandi vini italiani. 


Un quarto di secolo forse è un po' troppo per questo vitigno pensato all'epoca in stile eccessivamente materico, ma l'emozione e la freschezza hanno garantito una buona Pasqua e il rimpianto per quel decennio fantastico.


www.duca.it

Dal Vesuvio arriva Ereo, il rosato di Cantine Olivella


Tempo di rosati, aumentano le aziende campane che iniziano a crederci con passione e determinazione. Parliamo di Cantine Olivella che completa il suo progetto agricolo di recupero delle uve tipiche del Vesuvio proprio con questo rosato per il primo anno in commercio. Infatti, oltre al Piedirosso, questo blend vede la presenza di Guarnaccia e Sciascinoso, vitigni presenti in vario modo in regione ma decisamente poco valorizzati sul piano commerciale.

Sono uve che regalano in genere vini di buona bevibilità e assoluta gradevolezza, usati soprattutto per tagliare le durezze dell’Aglianico oppure per vini frizzantini come il Gragnano e il Lettere. In questo caso la scelta dell’enologo Fortunato Sebastiano è quella di usarli per produrre il primo rosato aziendale. Decisamente fresco, al palato sapido e con un finale amarognolo tipico del vino da suolo vulcanico. 
Si tratta dell’ultimo nato della cantina di Sant’Anastasia nata nel 2005 su un progetto al tempo stesso semplice e ambizioso: riprendere i vigneti sul Vesuvio con un progetto coerente alla sua incredibile storia ampelografica.


Siamo alle spalle della “montagna”, come la chiamano i Napoletani, quella meno conosciuta rispetto al versante bagnato dal Golfo di Napoli ricco di gioielli archeologici e di citta importanti proiettate sul commercio e sul mare, prologo della Penisola Sorrentina. Qui c’è un’anima più contadina che ha le sue radici nella piana che un tempo si chiamava Terra di Lavoro e che comprende le terre nere irrorate nei millenni dal Vesuvio che vanno dalla provincia di Salerno sino a quella di Caserta passando per i grandi centri agricoli a Nord di Napoli. Esattamente quindici anni fa Ciro Giordano, Domenico Ceriello e Andrea Cozzolino partirono con il loro progetto aziendale che oggi comprende dodici ettari sparsi sulla montagna in conversione certificata biologica con la stragrande maggioranza delle vigne ancora piede franco.




Rossi da Piedirosso, bianchi solo da Caprettone e Catalanesca, mentre Aglianico e Falanghina, i due vitigni autoctoni principi della Campania, non rientrano nei piani produttivi. Insomma, si potrebbe dire una nicchia nella nicchia. Ma è proprio questa scelta rigorosa e coerentemente territoriale a conferire grande valore al progetto di Cantina Olivella. Ogni sorso è assolutamente tipico e inimitabile, improntato alla bevibilità immediata anche se non manca qualche esperimento che punta a giocare su tempi più lunghi.
I vigneti sono sparsi sul territorio di Sant’Anastasia, un grande centro vesuviano meta di migliaia di pellegrini ogni anni che visitano il Santuario della Madonna dell’Arco. Si tratta di agricoltura eroica, curata direttamente da Andrea Cozzolino, decisamente faticosa perché non si tratta di un corpo unico e il vigneto più alto arriva a 600 metri di altezza. Dunque parliamo di una viticultura di precisione motivata soprattutto dalla passione e rifinita da una intelligente politica commerciale che, viste le piccole dimensioni dell’azienda che non supera mai le 90mila bottiglie, non cede a compromessi praticati purtroppo da tante piccole aziende della vicina Irpina che non rinunciano a una gamma troppo ampie di prodotti comprando uve fuori provincia.
La specializzazione invece è sicuramente la strada più lunga e faticosa, ma finisce per pagare e fidelizzare meglio esperti ed appassionati.
Chiudiamo dicendo che l’energia di Cantine Olivella si fonde ormai con quella di numerose altre aziende del Vesuvio grazie a nuove generazioni che hanno studiato Enologia e hanno viaggiato in Italia e nel Mondo accumulando esperienza soprattutto aprendo la mente. Un passo in avanti enorme per un territorio che sino agli anni ’90 vedeva soprattutto grandi vinificatori che ancora compravano uve in tutto il Sud per soddisfare la sete della vicina Napoli, unico mercato di riferimento.
Una rivoluzione colturale e culturale insomma, che rende sempre più interessante il territorio vesuviano. E di cui il rosato Ereo è solo l’ultima squillo di tromba.

Fratelli Barale - Dolcetto d'Alba 'Le Rose' 2015

Una vigoria aromatica incredibile! Frutta nera, ciliegia e note vinose e speziate come un fresco dolcetto d’annata. Tannino leggermente accennato in una bocca piena e rotonda.


Una Sorpresa con la “S” stramaiuscola da un produttore storico che non considera certo il Dolcetto il suo vino di punta.

Per ultimo dopo gli ultimi: cosa rimarrà del comparto vitivinicolo "superata" la crisi del Covid-19?


di Carlo Macchi

Dalla lunga serie di interviste che Winesurf ha fatto in questi giorni ai presidenti di molti consorzi italiani esce un quadro tra il desolante e il tragico.
Visto che “La vigna non si può spengere” e fra poco più di 4 mesi saremo in vendemmia, la stragrande maggioranza delle aziende vinicole italiane si ritrova ad avere la cantina piena, ordini zero e una nuova raccolta in arrivo, con i conseguenti costi per (come negli anni scorsi) portare avanti il vigneto. Il problema è che negli anni scorsi i vini partivano e arrivavano i bonifici, che servivano (anche) per pagare la normale gestione aziendale. Tanto per fare un esempio, chi deve imbottigliare adesso o ha appena imbottigliato, con che soldi pagherà bottiglie, tappi, capsule e etichette? Qualcuno, specie le grosse aziende o comunque quelle che si erano attrezzate da tempo, ha “un paracadute”, formato dalle vendite nella GDO e tramite canali internet (Tannico ha aumentato le vendite del 100%) ma non servono certamente a far quadrare i bilanci e a svuotare le vasche per metterci il vino nuovo.


Si parla sempre più di distillazione, ma a che prezzi e di quali vini? Qualcuno parla invece di potatura verde e probabilmente tutti i consorzi abbasseranno la resa per ettaro, ma tutte queste misure serviranno solo a rimandare quello che ancora non ha una data ma che comunque io chiamo “il punto di non ritorno”.
Quello che fa più paura ai nostri produttori non è tanto il portare avanti l’annata, il tirare la cinghia, ma per quanto durerà il blocco che costringe la catena bar- ristorante-enoteca-albergo-turista a rimanere ferma al palo. Senza chi compra e beve il vino tanti produttori moriranno, finanziariamente parlando, più o meno lentamente.

Purtroppo dai discorsi fatti in questi giorni pare proprio che quando si ripartirà lo si farà per scaglioni e per tipologie. Qui purtroppo il mondo del vino ho paura si becchi il bastoncino più corto: infatti pare che il settore ristorazione sarà l’ultimo a riaprire i battenti. Ma appena riaperto quale ristorante ordinerà del vino e soprattutto quale ristorante lo pagherà praticamente al momento e non con la solita trafila a cui i produttori italiani sono abituati? Quindi il mondo del vino ripartirà per ultimo dopo gli ultimi e questa cosa andrebbe fatta presente ai politici locali, regionali, nazionali, perché questa situazione creerà, come detto una serie non certo breve di tracolli finanziari, a meno che lo stato e le banche non intervengano a supporto REALE delle aziende.
Le misure potranno essere diverse e io riporto quelle che i alcuni presidenti di consorzio hanno presentato nelle interviste: dal congelamento dei mutui e la loro riprogrammazione spalmata nei prossimi anni (diciamo 20-25), ai sostegni finanziari devoluti quasi “a pioggia” basati sul reddito dell’anno precedente, a finanziamenti quasi a fondo perduto o con rateizzazioni lunghissime.


Purtroppo sui giornali nazionali o nei telegiornali quando si parla di categorie in crisi la parte del leone la fanno sempre la Confindustria, le aziende siderurgiche, meccaniche e i sindacati di questi i settori, mentre il comparto agricolo non è nemmeno relegato ai titoli di cosa, figuriamoci quindi il mondo del vino, salito alle cronache solo perché i Carabinieri hanno multato una persona che usciva dal supermercato con solo tre bottiglie di vino, ritenendo il suo acquisto  non di beni di prima necessità.
La mia paura è che da questa crisi ne usciranno con le ossa rotte soprattutto i più piccoli e così si perderà una “biodiversità” un modo comunque diverso di produrre lo stesso vino, portando ad una maggiore omologazione produttiva. Non per niente chi vende adesso è perché è posizionato nella GDO, non certo famosa per presentare e affiancare le piccole cantine  particolari .

Cari amici produttori, la situazione non sarà facile per tutti ma forse per voi sarà peggio. Per questo mi permetto di lanciare due piccole proposte.  La prima è semplicissima: tutti noi conosciamo dei produttori e quindi alziamo la cornetta e ordiniamo almeno 6 bottiglie. Oramai tutti spediscono dappertutto e questo piccolo gesto, se fatto da molti, servirà almeno a dare un briciolo di speranza per il futuro. La seconda proposta è questa: tutte le manifestazioni con pubblico, che verranno fatte in Italia entro il 2020 (sperando naturalmente che a maggio si possa, lentamente ripartire) non dovrebbero prevedere costi di partecipazione per i produttori. La loro quota di partecipazione dovrebbe essere ammortizzata da una parte con un minor ricavo da parte degli organizzatori e dall’altra con l’aumento, anche del 100%, del biglietto d’ingresso. Così noi appassionati potremmo dare un’ulteriore mano alla ripartenza della viticoltura in Italia, aiutando quelli che ripartiranno per ultimi e dopo gli ultimi.

Tiziana Marino - Turandea Rosato 2014


di Roberto Giuliani

Potenza dell’aglianico di Montevetrano: dopo 5 anni dalla sua uscita, nonostante sia un rosato, sconfessa chiunque pensi che questa tipologia sia necessariamente di breve durata. 


Non ha perso nulla né in freschezza né nella qualità dei profumi, mandarino, salvia, alloro, buonissimo e succoso al palato!


Tasca D'Almerita - Cabernet 1998


di Roberto Giuliani

La storia dei Tasca è una delle più antiche di tutta la Sicilia enoica, sono 8 generazioni che la famiglia si dedica alla viticoltura, a partire dal 1830, quando i fratelli Lucio, e Carmelo Mastrogiovanni Tasca acquistarono la Tenuta Regaleali, 1200 ettari nella contrada omonima, in comune di Sclafani.
Le basi della loro fama nascono dopo la seconda guerra mondiale, quando l’azienda inizia a produrre e vendere i tre vini che l’hanno fatta conoscere nel mondo, un bianco, un rosato e un rosso.

Vigneti

Nel 1959 Giuseppe Tasca acquista barbatelle di perricone e nero d’Avola e le pianta ad alberello sulla collina di San Lucio, in un’epoca in cui il vino siciliano era quasi sconosciuto fuori dall’isola. Nel 1970 nasce il Riserva del Conte, primo vino ottenuto da unica vigna, chiamato da molti Rosso del Conte.
Negli anni ’80 arriva anche un bianco importante, il Nozze d’Oro (inzolia e sauvignon Tasca), già allora concepito con le caratteristiche per evolvere a lungo.
Pochi anni dopo il figlio Lucio introduce le varietà internazionali, così a fianco di nero d’Avola, perricone, nerello mascalese, catarratto e grillo, arrivano cabernet, merlot, pinot nero, chardonnay ecc. Disponendo di un territorio vasto, composto da ben 6 colline e 12 diversi tipi di suolo, ad altitudini che vanno dai 450 fino agli 850 metri, i Tasca avevano di che sperimentare, selezionare, migliorare per ottenere vini sempre più convincenti.

Alberto Tasca d'Almerita

Oggi Tasca d’Almerita, guidata da Alberto, nipote di Giuseppe, vanta numerose “costole”, sempre nel circondario della Trinacria: Capofaro a Salina, Tascante sull’Etna, Sallier de La Tour a Monreale e Tenuta Whitaker all’isola Mozia. Da sempre la famiglia ha concepito la viticoltura in simbiosi con l’ambiente e con altre coltivazioni, non solo i classici ulivi, ma anche frutteti, grano, ortaggi e la presenza di animali al pascolo.
Con il passare dei decenni si è sempre più spinta verso la massima attenzione alla cura e salvaguardia dell’ecosistema, consapevole che la terra ti restituisce il meglio di sé solo se ne rispetti tutti gli elementi che la mantengono viva.


Il Cabernet Sauvignon nasce nel 1985 da una vigna di 9 ettari, San Francesco, situata lungo la parete della collina omonima a un’altitudine che va dai 550 ai 600 metri s.l.m.. Oggi gode del contributo di altri tre appezzamenti: Baracca nuova, Cozzo delle Ginestre e Cozzo Rina.
Le uve dell’annata 1998 sono state vendemmiate il 6 ottobre, con una gradazione zuccherina di 20,70° Babo, acidità totale di 5 g/l e pH 3,70, con una resa uva/ettaro di 65 quintali. Dodici giorni di contatto con le bucce, a fine fermentazione malolattica (svolta in acciaio), il vino viene posto in barrique di rovere di Allier e Troncais per 12 mesi. Imbottigliato il 18 e 19 gennaio del 2000 in 41.500 bottiglie da 75 cl e 1.000 magnum.


Il tappo si presenta integro, non è stato difficile estrarlo, odore vinoso senza strane derive. Versato nel calice, il vino mostra un colore ancora sorprendentemente vivo, un granato pieno ma con qualche riverbero rubino; dopo 20 anni di chiusura in bottiglia, mi aspettavo una riduzione spinta, invece con grande stupore lo trovo solo appena chiuso. Bastano una dozzina di secondi per farlo emergere in un bouquet di classe, fine, elegante, per nulla surmaturo; già al naso penseresti a un vino di 5-6 anni, perché la componente terziaria è ancora agli inizi, con le note di tabacco e sottobosco, cuoio e leggera cenere, ma non si va oltre; quello che invece colpisce è la prugna matura, la liquirizia, ma nessun cenno di caduta. Strano, visto che era già nato come un vino equilibrato, godibile, a volte si teme che vini così abbiano grande fascino iniziale ma reggano meno nel tempo. In questo caso non è sicuramente così. 


Ne ho piena certezza quando lo assaggio, magari sarà anche merito della conservazione in cantinetta a temperatura costante di 12 gradi, sta di fatto che è una vera goduria! Tanta polpa, matura al punto giusto, tannino vellutato, venature di cioccolato e mallo di noce, nel finale torna la prugna sotto spirito, ancora fresco e dinamico, più si beve e più piace. Un vero punto di riferimento della tipologia, una sicurezza anche a lunga distanza.