Castello di Monsanto Chianti Classico Riserva Il Poggio 1982


La coscienza di camminare sopra un tesoro ha accompagnato Fabrizio Bianchi fin dall’inizio della sua avventura, non si trattava però di miniere d’oro, ma di semplice terra….
Così è scritto sul loro sito internet e nulla di più vero può esistere.
Castello di Monsanto è un’altra perla toscana dove il sangiovese ruggisce dal 1962, la prima vendemmia dove il Vigneto Il Poggio, ripulito sasso dopo sasso, diventa il primo Cru del Chianti Classico.

Il Castello di Monsanto - Fonte Freevax.it
Parlavamo di terra prima. I 72 ettari di vigneto che compongono la tenuta sono caratterizzati da due tipi di terreno: suolo di origine cretacica composto da argille pietrificate e stratificate a filaretto (c.d. galestro toscano). Un’altra parte della proprietà, nel versante a sud della zona di Valdigallo, è caratterizzata da terreni di origine pliocenica composti da banchi sedimentati di sabbie marine, detti “tufi”, intercalati da leggere lische di argille composte.
A 350 metri s.l.m., su un terreno galestroso, si estende in tutta la sua bellezza Il Poggio, vigneto dal quale nasce l’omonimo vino, un Chianti Classico Riserva, prodotto solo nelle migliore annate, composto da Sangiovese al 90% e da un 10% di Colorino e Canaiolo.

Laura Bianchi mentre mostra il vigneto Il Poggio



Nel mio bicchiere ho la Riserva 1982, l’anno della vittoria ai mondiali di calcio in Spagna anche se in Toscana, almeno per il vino, non è stata una grandissima annata, non ci sono le urla di Tardelli nei Chianti di questo millesimo che, nonostante tutto, rimangono decisi e profondi come la galoppata di Bruno Conti sulla fascia destra del Bernabeu prima del 3-0 di Altobelli.
Torniamo al vino e ai suoi profumi, territoriali, viscerali, e dotati, ad un primo impatto, di una grande mineralità che si esprime su sensazioni di ferro e sangue molto austere, da uomini duri.
 
Cantina di maturazione

Col tempo il quadro olfattivo diventa più complesso: inizialmente si alleggerisce esprimendo delicate note vegetali di erba medica, fieno e camomilla, a cui fanno seguito echi di frutta matura e sensazioni empireumatiche che forniscono al vino una veste scura, solenne, giocata su aromi di china, catrame, frutta secca tostata e legni nobili. Sembra davvero di mettere il naso nelle segrete del Castello di Monsanto.
Al sorso il vino sembra subire una scissione perché si coglie nettamente una leggera rottura tra la componente fresca e sapida del sangiovese, vibrante e a sé, e una nota di cera e di agrume amaro dall’altra che fanno fatica ad integrarsi e ad accompagnarsi mano nella mano nel finale gustativo che rimane comunque di buona persistenza.
Visto che rimango nel dubbio che la bottiglia possa essere “sfigata”, non mi rimane che andare al Castello di Monsanto e comprarmene un’altra. Tutto questo per amor di verità…eccerto!

Vecchie bottigle

Per le foto, tranne la prima, la fonte è Weimax.com


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