Nalles, piccolo paesino a pochi chilometri da Merano è famoso sia per essere situato sulla famosa strada romana Via Claudia Augusta, sia per il bellissimo e storico Castel Schwanburg o Castel del Cigno (schwan in tedesco significa cigno) citato già nel 1286 in un documento della Parrocchia di Bolzano come “Haus in der Gaul” (“casa nella stretta”) e appartenuto fin dal dal XIV secolo al nobile casato dei Boymont-Payersberg.
Beh, forse non tutti sanno che il castello, oltre ad essere tuttora sede dell'omonima azienda agricola appartenente ai discendenti di Rudolf Carli, ha prodotto per vari anni uno dei migliori Cabernet Sauvignon italiani e la bottiglia aperta poco tempo fa con amici ne è una conferma.
Prima di incensare il vino come merita, vorrei subito tarpare le ali a chi sta già esultando per la notizia: è un vino che probabilmente non c'è più perchè il suo papà, Dieter Rudolph, è morto ben sette anni fa durante una immersione alle Maldive.
Personaggio appassionatissimo di vino e, per certi versi, visionario, Rudolph dopo gli studi in enologia ed una serie di esperienze lavorative a Bordeaux tornò nella sua Nalles con le idee ben precise: fare di Castel Schwanburg una sorta di Château bordolese in salsa sudtirolese.
Rudolph, perciò, modernizzò tutti i vigneti aziendale creando impianti molto più fitti allevati a Guyot e non con la classica pergola trentina, costruì nei primi anni '70 il primo impianto in di vinificazione in acciaio e termocontrollato in Alto Adige e, ovviamente, diede una sterzata anche ai criteri di affinamento del vino grazie all'introduzione delle barrique.
Il frutto di quel lavoro incentrato sulla ricerca dell'eleganza e che, ai tempi, contrastava con l'idea di produzione enologica dell'Alto Adige, l'ho potuto ammirare poco tempo fa quando ho aperto una bottiglia di Cabernet Schloss Schwanburg 1996 durante una cena al Salotto Culinario di Dino De Bellis.
Beh, lo ammetto, nella mia insensata avversione verso ogni tipologia di cabernet in purezza proveniente dall'Italia, ho ritrovato in questa versione il sorriso che mi mancava legittimato da pirazine accuratamente addomesticate e slegate dall'immagine della peperonata classica che, spesso e volentieri, fa somigliare i vini di questa tipologia ad una confezione de I Grigliati Saclà!
Non solo.
L'anima bordolese, avidamente ricercata da Rudolph, ritengo sia perfettamente evocata quando al naso, col passare del tempo, il cabernet sauvignon amplia il suo quadro aromatico temprandosi con un susseguirsi di note che vanno dal cuoio al cassis fino ad arrivare alla terra e al tabacco mentolato. Tutto questo senza spingere ed urlare.
La bocca, penso, sia il tocco di classe di questo vino, straordinaria per equilibrio composto da sapidità, tensione acida e, perchè no, muscoli definiti senza iniettarsi steroidi.
E', ad oggi, un vino sospeso tra la ragione e la follia, da bere tutto di un fiato. Mi domando perchè nessuno più abbia intrapreso questa strada, la via Maestra del Cabernet Sauvignon.
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E il vino, in tutto questo, cosa c'entra?
Beh, forse non tutti sanno che il castello, oltre ad essere tuttora sede dell'omonima azienda agricola appartenente ai discendenti di Rudolf Carli, ha prodotto per vari anni uno dei migliori Cabernet Sauvignon italiani e la bottiglia aperta poco tempo fa con amici ne è una conferma.
Prima di incensare il vino come merita, vorrei subito tarpare le ali a chi sta già esultando per la notizia: è un vino che probabilmente non c'è più perchè il suo papà, Dieter Rudolph, è morto ben sette anni fa durante una immersione alle Maldive.
Personaggio appassionatissimo di vino e, per certi versi, visionario, Rudolph dopo gli studi in enologia ed una serie di esperienze lavorative a Bordeaux tornò nella sua Nalles con le idee ben precise: fare di Castel Schwanburg una sorta di Château bordolese in salsa sudtirolese.
Rudolph, perciò, modernizzò tutti i vigneti aziendale creando impianti molto più fitti allevati a Guyot e non con la classica pergola trentina, costruì nei primi anni '70 il primo impianto in di vinificazione in acciaio e termocontrollato in Alto Adige e, ovviamente, diede una sterzata anche ai criteri di affinamento del vino grazie all'introduzione delle barrique.
Beh, lo ammetto, nella mia insensata avversione verso ogni tipologia di cabernet in purezza proveniente dall'Italia, ho ritrovato in questa versione il sorriso che mi mancava legittimato da pirazine accuratamente addomesticate e slegate dall'immagine della peperonata classica che, spesso e volentieri, fa somigliare i vini di questa tipologia ad una confezione de I Grigliati Saclà!
Non solo.
L'anima bordolese, avidamente ricercata da Rudolph, ritengo sia perfettamente evocata quando al naso, col passare del tempo, il cabernet sauvignon amplia il suo quadro aromatico temprandosi con un susseguirsi di note che vanno dal cuoio al cassis fino ad arrivare alla terra e al tabacco mentolato. Tutto questo senza spingere ed urlare.
La bocca, penso, sia il tocco di classe di questo vino, straordinaria per equilibrio composto da sapidità, tensione acida e, perchè no, muscoli definiti senza iniettarsi steroidi.
E', ad oggi, un vino sospeso tra la ragione e la follia, da bere tutto di un fiato. Mi domando perchè nessuno più abbia intrapreso questa strada, la via Maestra del Cabernet Sauvignon.