Castello di Ama: verticale storica di Chianti Classico Vigneto Bellavista

Ama è un piccolo borgo tra le colline, a circa 500 metri sul livello del mare, nel comune di Gaiole in Chianti in provincia di Siena. Si trova nel cuore del Chianti Classico storico, dove i vigneti si alternano agli oliveti e al bosco.
Dal 1982 la gestione tecnica dell’azienda, nata dieci anni prima per amore di quattro famiglie romane, è affidata a
Marco Pallanti, illuminato agronomo che, in tempi non sospetti, diede all’azienda una svolta qualitativa significativa: infatti nel quinquennio 1982-1987 furono reinnestate circa 50mila piante, un'enormità se pensiamo che la densità per ettaro era di 2.800 viti. Un'altra pietra angolare nella costruzione del successo dei vini del Castello di Ama è rappresentata dalla ricerca di nuove forme di allevamento dei vigneti, finalizzate ad ottimizzare la maturazione delle uve.

Nel
1982, per la prima volta in Italia, si vedono ad Ama delle viti dove la parete fogliare è sdoppiata a forma di V. Il sistema, detto a lira aperta per la somiglianza che il profilo della pianta assume con lo strumento musicale, era il frutto di studi effettuati in Francia e veniva proposta per vigne a bassa densità di impianto. Lo scopo è quello di incrementare il potenziale qualitativo delle uve attraverso una maggiore superficie fogliare esposta; la foglia, simile ad un pannello, catturerà più energia solare da cedere ai grappoli. Oggi Castello di Ama può vantare una superficie totale di circa 250 ettari dei quali 90 coltivati a vigneto e 40 a ulivo, posti ad un’altitudine media di 480 metri.

Il
Cru Bellavista è la selezione di vigneto più antica, si estende su 22.81.70 ettari impiantati tra il ‘67 ed il ‘75 ad una altitudine compresa tra i 530 metri s.l.m. (della zona denominata Bellaria) ed i 456 metri s.l.m. (dei Campinuovi). Il terreno ha una composizione prevalentemente argillosa con una forte presenza di scheletro. La forma di allevamento predominante è quella a spalliera (14.50.00 ha) con potatura a Guyot semplice, mentre la forma di allevamento denominata Lira Aperta si estende per 8.31.00 ha. La prima edizione di questo Chianti Classico, composto da Sangiovese con un pizzico di Malvasia Nera, risale al 1978 ed è sempre stato il fiore all’occhiello dell’azienda visto che, con la sua forte personalità, rappresenta l’eccellenza del terroir di Ama. Marco Pallanti, durante il Roma Vino Excellence, ci ha presentato le sue prime 25 vendemmie al Castello di Ama proponendo una verticale da brivido del “suo” Chianti Classico Bellavista (io per motivi di lavoro ho potuto seguire fino alla ’95).

Bellavista 2006
: l’elogio del frutto e non del vino frutto maroniano. Grande eleganza, equilibrio e, soprattutto, una viva acidità che solo vigne così alte possono conferire al vino. Nasconde secondo me un potenziale impressionante.

Bellavista 2004
(da magnum): rispetto alla precedente annata questo Chianti gode di maggiore profondità, la frutta rossa è meno croccante e si percepiscono chiaramente anche delle intense sensazioni floreali e speziate. Palato di grande equilibrio, tutto le componenti del vino sono ottimamente integrate fra di loro. Cresce la goduria.

Bellavista 2001
: la maggiore percentuale di Malvasia Nera utilizzate per il vino dona a questo un carattere diverso, esuberante, nette le note di liquirizia, cioccolato al latte, confettura di pomodoro, frutta di rovo. Tutto mi sembra più dolce e stemperato rispetto alle precedenti annate. Bocca come al solito di grande equilibrio, matura, forse poco dinamica e vivace ma comunque convincente.

Bellavista 1997
(da magnum): nonostante l’annata calda il vino mantiene una grande freschezza, ricorda con tratti più maturi la 2006. Cassis, prugna secca, liquirizia, spezie nere sono tutti i toni aromatici che possiamo sentire in questo Chianti che gioca molte delle sue carte in bocca dove mantiene un tannino scalpitante e, ripeto, una vivida acidità. Alla cieca ci sarebbero delle figuracce.

Bellavista 1995
: rispetto al precedente sembra che non abbiano solo due anni di differenza. Sensazioni evolute al naso, in bocca presente tannini “vecchia maniera”, aggressivi e scalpitanti che forse fanno capire come l’azienda, nel corso del tempo, si stia continuamente migliorando.

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Andrea

Zymè e la ricerca dell'autoctono dimenticato

Da team di consulenza ad azienda agricola, il passaggio che ha portato Celestino Gaspari, vignaiolo della Valpolicella, e Francesco Parisi a produrre il LORO vino non è così banale, ci vuole sempre un briciolo di sana pazzia per mettersi in proprio in un mondo dove la concorrenza è tanta e a volte anche sleale. L’azienda agricola Zymè, dal greco lievito, nasce ufficialmente nel 2003 ed oggi conta una superficie di 16 ettari di cui 15 a vigneto (sia di proprietà, sia in collaborazione con altri vignaioli locali) e 1 ad oliveto, una parte collocata nella zona orientale di Verona (Val d'Illasi, Lavagno e S. Martino Buon Albergo) mentre la cantina, una ex cava arenaria del XV° secolo, risiede a San Pietro In Cariano.
Zymè, un marchio a metà strada tra modernità e tradizione, con un’unica grande passione: la ricerca dell’espressione territoriale pura attraverso la ricerca dell’autoctono, una filosofia aziendale che si concretizza nella produzione di vini unici, di personalità, a volte estremi. Zymè è sicuramente la riscoperta dell’Oseleta, vitigno autoctone veronese che viene utilizzato sia per produrre vino in purezza, sia per dar vita al loro Amarone.
L’OZ, Oseleta al 100%, è il primo di questi vini originali in quanto nasce da un vitigno “dimenticato” in Valpolicella e che mai si era vinificato in purezza dato il suo carattere rustico, selvatico. Questo patrimonio enologico è stato ripreso e riportato in auge da Celestino Gaspari che ne ha fatto un vino di grande espressione aromatica, inizialmente ritroso al naso, dopo qualche minuto si apre in tutta la sua potenza dove la frutta nera gioco un ruolo principale insieme ad una timida nota balsamica di fondo.
In bocca è tutt’altro che ruspante, il vino ha un bellissimo equilibrio e tanta polpa. Non conosco le valutazioni di Luca Maroni su questo vino ma secondo me ci si fa le flebo.

L’altro vino innovativo e per certi versi estremo è l’Harlequin, l’Arlecchino dei vini, multiforme e poliedrico così com’è il costume della popolare maschera italiana, fatto di cento stoffe e cento colori, come la terra, le stagioni, uniche ed irripetibile ma pure sempre riconducibili alla tradizione del territorio veronese.
L’Harlequin nasce da più varietà di uve provenienti da un’area vasta e diversificata. A determinare la scelta è un solo concetto: la qualità. Raccolte a mano grappolo per grappolo, vengono riposte in plateaux da un minimo di cinque giorni a un massimo di quaranta, in ambiente naturale, senza ausilio di macchine per la ventilazione forzata o per deumidificazione. Pigiate tutte insieme senza diraspatura, sono fermentate in vasca di cemento con lievito indigeno, senza ricorrere a alcuna bioteconologia, per quindici -venti giorni.
Follature, delestages e soprattutto vista-udito-olfatto dell’uomo sono la chiave per una buona fermentazione. L’occhio, l’orecchio, il naso ti raccontano tanto del vino, se lo sai ascoltare. Si procede poi alla svinatura e alla decantazione per circa dieci giorni. Poi lo si fa entrare in barriques nuove da 225 litri. Lì riposa per almeno trenta mesi, senza alcun travaso. Viene imbottigliato senza effettuare chiarifica.
Quindi rimane in cantina per almeno sei mesi per poi essere successivamente commercializzato ed arrivare nei nostri bicchieri come questo 2003, ultimo millesimo di un vino affascinante fin dai profumi, penetranti come una lama nel burro ed intensi come solo una tempesta aromatica sa colpire. Ampio di marmellata di visciole, ciliegia sotto spirito, a volte percepisco anche la frutta bianca matura, poi escono il cioccolato, l’incenso, le spezie nere, le erbe aromatiche, un fresco balsamico, la carruba, la vaniglia, e poi…e poi.
La bocca conferma senza esitazioni il naso, tutto è incredibilmente fresco, elegante ed equilibrato e, soprattutto, di persistenza infinita. Un vino che difficilmente si abbina in cucina, lo considero più da meditazione, e che proverei a tenere in cantina per altri dieci anni per vedere come evolve.

A breve provo la sfida: Harlequin Vs Kurni.

A Suvereto da Tua Rita in compagnia di Stefano Frascolla

Suvereto, nel cuore della Val Cornia, rappresenta il centro del mondo per Rita Tua e Virgilio Bisti che, nel 1984, acquisirono pochi ettari di terreno con l’obiettivo di creare, anzitutto, un buon vino per se stessi. La passione, la consapevolezza di produrre da subito un gran vino hanno portato i proprietari a guardare avanti, oltre il Trebbiano e il Sangiovese, impiantando nel 1988 le prime barbatelle di Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay, Riesling e Traminer, che vanno a «popolare» impianti fitti (8-9.000 ceppi per ettaro) e bassi, dove le potature corte e i diradamenti diverranno prassi consolidate pressoché sconosciute fino ad allora in zona.
Attualmente l’azienda conta un’estensione di circa 22 ettari totali di proprietà di cui 18 a vigneto che oggi può contare, oltre alle uve citate in precedenze, anche Syrah e Cabernet Franc.
Stefano Frascolla, genero di Rita e Virgilio e vero deus ex machina dell’azienda, ci accoglie in cantina con i suoi grandi occhi chiari, l’ambiente è subito familiare, rurale, nulla a che vedere con le mie fantasie che pensavano a Tua Rita come ad un’azienda fredda, manageriale, dove tutto è marketing e pubbliche relazioni. Scordatevi tutto questo, da queste parti, malgrado i tanti punti Parker e il via vai di giornalisti internazionali, si sono mantenuti ben saldi i piedi per terra perché il contatto umano e il rispetto per il territorio sono valori da difendere a prescindere da ogni politica commerciale.
Tua Rita, un mix tra tradizione ed innovazione, soprattutto in vigna dove gli impianti a cordone speronato vanno tra i 5000 ceppi per le vigne più vecchie, fino ad arrivare agli oltre 8000 per quelli di nuova realizzazione, con produzioni però bassissime specie per i vini più importanti che si aggirano appena intorno ai 30 – 35 quintali per ettaro. I terreni sono un misto di argilla e limo con presenza di scheletro piccolo. Stefano Frascolla dopo averci fatto fare breve giro in cantina di vinificazione, molto semplice e con la presenza di tini di legno troncoconici, ci fa accomodare presso la cantina di maturazione, 700 mq interrati di grande fascino dove riposano ed evolvono tutti i vini aziendali, un vero patrimonio dell’umanità mi verrebbe da dire. E’ ora di bere, valuteremo le annate 2007 e 2008 (principalmente da botte), due millesimi che, lo anticipo subito, hanno caratteristiche molto diverse le cui differenze saranno facilmente leggibili durante la degustazione. Arriva il “semplice” Rosso dei Notri 2008 (sangiovese 50%, merlot 10%, syrah 15%, cabernet sauvignon 20%, petit verdot 5%), prodotto base che amo sempre valutare in quanto penso che proprio questi vini, diretti e senza fronzoli, diano spesso un’idea abbastanza netta della filosofia produttiva fornendo anche importanti segnali su cosa mi aspetterà a breve nel bicchiere. Un rosso molto interessante, tanta frutta rossa, balsamicità, un tocco vegetale per un vino decisamente equilibrato e dalla grande beva. Ottimo inizio.
Perlato del Bosco 2007 (sangiovese 60%, cabernet sauvignon 40%): si sale di intensità, complessità, l’orchestra comincia a formarsi, rispetto al Rosso dei Notri, entrano in gioco le spezie nere, la grafite, vino più scuro, profondo e di bella persistenza.
Giusto dei Notri 2007 (cabernet sauvignon 60%, merlot 30%, cabernet franc 10%): entriamo in punta di piedi nell’olimpo, ormai Tua Rita non è solo Redigaffi, questo taglio bordolese rappresenta una validissima alternativa al vino più amato (una volta) da Parker. L’annata 2007 è si caratterizza per la sua freschezza ed eleganza, i vini sono tutt’altro che concentrati e ciò lo possiamo notare subito dal naso dove le note di rosa, sottobosco, ginepro, piccoli fruttini rossi non vanno ad appesantire un quadro aromatico che rimane molto vellutato. Possente l’apparato gustativo dove troviamo solo freschezza, integrità ed equilibrio.
Giusto dei Notri 2008 (da botte): annata completamente diversa rispetto alla 2007, all’eleganza, che rimane sempre, si aggiunge la potenza, la verticalità, il frutto è nero come nere ed intense sono le sensazioni di terra, china, grafite, cassis, peperone. Ricchissimo il palato, regala rotondità a 360°. Da seguire attentamente nel tempo.
Syrah 2007: l’equilibrio dell’annata regala un vino di classe, le note floreali, fruttate e speziate regalano solo pennellate aromatiche vellutate mentre in bocca il vino stupisce per la sua espansione al palato e per la sua bella spina acida. Lunga persistenza su note leggermente boisè.
Syrah 2008 (da botte): un mostro, nel senso buono della parola. Appena Stefano ci porta il vino la carica aromatica del syrah ci fa compiere un salto spaziale catapultandoci nel bel mezzo della macchia mediterranea. Siamo inebriati completamente dalle note di ginepro, alloro, rosmarino, menta, rabarbaro, china. Bocca intensa, succosa, un vino che non ti lascia mai. Superbo.
Redigaffi 2007 (merlot 100%): altro piccolo mostro di goduria, eleganza e freschezza si sommano esaltando gli aromi di bacche selvatiche, prugna, ferro, viola, goudron e fresche note balsamiche. Bocca guidata dalla freschezza, avvolgente, voluttuosa, con un tannino ben presente a bilanciare la morbidezza del vino. Finale interminabile come la nostra goduria.
Redigaffi 2008 (da botte): il vino è ancora abbastanza chiuso, in fasce, anche se la lettura è quella di un vino ancora più complesso, muscolare, dirompente ora nella sua carica di frutta nera e ricordi di sottobosco. Al gusto percepiamo che il vino è ancora in assestamento ma, quando ogni pezzetto andrà al suo posto, saremo di fronte all’ennesimo capolavoro firmato Tua Rita.

Prossimo appuntamento con Tua Rita? L’8 maggio con gli amici del forum del Gambero Rosso, ne vedremo delle belle..

Ca' Del Bosco - La Cuvèe Annamaria Clementi in una splendida verticale storica

Il Franciacorta Cuvée Annamaria Clementi di Cà del Bosco sicuramente è uno dei rari spumanti italiani che possono contrastare l’eleganza e la complessità degli champagne francesi. Durante l’ultimo Roma Vino Excellence Maurizio Zanella e Ian d’Agata hanno condotto una verticale storica di otto grandi annate di questo Franciacorta vinificato solo dai migliori cru di Chardonnay, Pinot Bianco e Pinot Nero e solo nelle grandi annate. L’Annamaria Clementi è il frutto dell’assemblaggio dei migliori vini base, di almeno 10 partite diverse, che danno vita ad una cuvée che rimane in affinamento sui lieviti per circa sette anni.

2001
: da un’annata importante in Franciacorta ne deriva un vino di grande eleganza e personalità che porge i suoi aromi in maniera delicata ma inesorabile. Bella la nota floreale e di frutta matura, non c’è alcuna sensazione di burro, vaniglia e crosta di pane. Bocca di grandissimo equilibrio e persistenza. Diventerà grande.

1998
: l’annata relativamente calda si sente già al naso con un sensazioni di confettura di frutta gialla (mela e pera), agrumi leggermente canditi, leggere note tostate. Sicuramente meno floreale e leggiadro del 2001 anche in bocca dopo c’è più struttura a scapito di una acidità un po’ latente nel finale.

1995
: il vino comincia a maturare, nette ora si fanno le sensazioni di fieno, spezie gialle orientali a corollario di una nota surmatura (c’è chi la chiamerebbe morbida) che lo rende meno elegante della precedente annata. Sento stranamente il legno. Fino ad ora l’annata meno convincente.

1993
: grandissima annata in Franciacorta. Naso caleidoscopico dove giocano le note agrumate, di fiori gialli, mango, litchi, miele, un insieme di aromi che sembrano tradire il lungo affinamento (5 anni e 6 mesi). Bocca di grande eleganza, piacevole grazie all’equilibrio tra le note sapido-fresche del vino e le note morbide tipiche del Franciacorta invecchiato. Da bere e ribere senza soluzione di continuità.

1990
: ancora un’annata calda e ancora un vino dai toni aromatici morbidi, al naso si avverte una note di caramella al miele Ambrosoli davvero intensa, poi arriva la frutta matura e una avvolgente nota tostata. Bocca molto armonica, calda, persistente, un Franciacorta che gioca tutte le sue carte sulla morbidezza.

1988
: questa annata, così come le successive, sono state sboccate apposta per questa verticale. Naso fine, elegante, per nulla gridato, la frutta matura è declinata in tutte le sue più eleganti versioni e trovo, finalmente, una nota minerale che aggiunge complessità al quadro olfattivo. In bocca trovo corpo, equilibrio, struttura senza che nulla venga ceduto ad una possibile ossidazione. Piacevolissimo.

1984
: sarò stato sfigato io ma ho beccato tre bottiglie, e dico tre, tappate. Ce ne era una quarta che non mi è arrivata che mi dicono di ottima fattura. Sì, vabbè, però…..

1979
: seconda grande annata dopo la mitica ’78. Naso di grande complessità, si percepiscono nette le note di mela renetta, miele di castagno, frutta secca, spezie e un eco minerale di grande eleganza. In bocca grande sapidità, avvolgenza, persistenza. Con un guizzo di freschezza in più avrei gridato al miracolo gettandomi ai piedi di Zanella. Rimane, comunque, un grandissimo Franciacorta, il migliore della batteria se paragonato alla sua età. Lo Champagne è avvisato!

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Andrea


Non capisco certi vini...

Si parla tantissimo di rinascita per alcune tipologie di vino italiano, soprattutto si legge in vari blog di un nuovo corso per il lambrusco, simbolo enologico storico di una Regione che per troppo tempo è rimasto ai margini della qualità organolettica.
Si dibatte molto anche di rinascita del Frascati laziale, in alcuni precedenti post di Percorsi di Vino ho seguito il dibattito, anche politico, che sta alimentando nuove speranze per quello che spesso viene definito il vino di Roma, il più amato e il più odiato.
Si parla tanto e si produce lo stesso tanto, troppo, perché se vado in giro per i vari siti internet si trovano dei veri obrobri, bottiglie che contengono qualcosa di inaccettabile (anche se potabile, lo dico subito) che male, malissimo fa a tutto quel movimento di rinascita qualitativa di cui parlavo prima.
Come si può a produrre, e questo lo chiedo anche al legislatore che lo permette, e vendere ancora oggi il Lambrusco di Puglia? No, dico, il Lambrusco, simbolo della Emilia Romagna, prodotto in Puglia? E venduto poi nei classici boccioni di vetro da due litri? Bella la foto, il classico pranzetto pugliese a base di Lambrusco e salame…
E che dire dei boccioni di Castelli Romani bianco color bianco carta?
Ripeto, vini assolutamente bevibili, ci mancherebbe, però mi chiedo a chi giova tutto questo: forse alla casalinga che compra questi prodotti per fare al marito l’ennesima scaloppina al vino? Ma lo sa questa persona che le stesse caratteristiche del vino, che lascio a voi immaginare, se le ritrova nel piatto?
Posso pensare anche che questi prodotti, dal punto di vista del marketing, siano orientati ai tanti muratori rumeni che ogni sera stanziano sotto la mia casa ubriacandosi con questi vini a basso costo. Parlate con le cassiere dei tanti discount di alimentari….
Tutto questo, in generale, non giova certamente al consumatore, sempre più confuso, indifeso e capace, dall’alto della sua inesperienza, di fare di tutta un’erba un fascio andando a penalizzare soprattutto i vignaioli seri.
Scusate lo sfogo ma certe cose, certe bottiglie, mi fanno venire la rabbia….

Jacopo Cossater organizza il Vinix Live di Perugia

Sabato 6 marzo, all'interno di ExEliografica, a Perugia, si terrà un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati di vino.

Vinix Live!, evento itinerante e momento di incontro tra appassionati e produttori nato in rete sul social network dedicato al vino Vinix, farà infatti tappa a Perugia e vedrà protagoniste alcune delle più rappresentative cantine della regione.

Un banco d'assaggio quindi, durante il quale oltre a conoscere i produttori presenti ed assaggiare il loro vini sarà possibile - in via eccezionale e per il solo giorno dell'evento - acquistare le bottiglie ad un prezzo vicino al sorgente, il prezzo cioè normalmente riservato agli operatori.

Tra le cantine presenti Paolo Bea, Milziade Antano, Antonelli da Montefalco, Collecapretta dallo spoletini, Palazzone da Orvieto, Roccafiore da Todi, Lungarotti da Torgiano e la Cantina La Spina dalla zona dei Colli Perugini. Ospite gastronomico il Frantoio Trampetti, da Trevi.

Tutti i dettagli della manifestazione, il programma ed i produttori presenti sulla pagina di Vinix dedicata all'evento.

Michele Satta e il suo "Cavaliere" 1997

L'azienda nasce nel 1984, quando Michele Satta, laureatosi a pieni voti all’Università di Pisa, decise di lasciare la precedente attività di garzone di fattoria per iniziare una carriera di vignaiolo indipendente a Castagneto Carducci.
L’inizio è abbastanza duro, il vecchio fattore per cui lavorava gli lascia in affitto i suoi vigneti dove la resa si attesta attorno ai venti chili d’uva per pianta, ma la convinzione di essere in un ambiente di altissima vocazione enologica e l'incontro con l'enologo Attilio Pagli, tuttora collaboratore ed amico, lo spingono ad andare avanti e a costituire, nel 1988, il primo nucleo dell'azienda con l'acquisto del miglior terreno disponibile e la costruzione di una moderna e funzionale cantina.
Tutte queste trasformazioni nella vita lavorativa di Satta avvengono in un periodo fondamentale per Bolgheri e Castagneto Carducci perché, nel frattempo, esplode il fenomeno Sassicaia, nasce l’Ornellaia e nel territorio della Costa degli Etruschi c’è tutto un fiore di piccole e grandi aziende che nascono o si evolvono piantando merlot, cabernet sauvignon e cabernet franc.
Tutti seguono la filosofia internazionale tranne lui, Michele Satta che, almeno inizialmente, punta dritto verso quell’amore territoriale che prende il nome di Sangiovese, una vera sfida per quel giovane vignaiolo che preferisce scornarsi con questo vitigno “umorale” invece che andare sul sicuro vinificando l’integerrimo Cabernet Sauvignon, sempre uguale a se stesso e spesso poco emozionante.
Da questa passione nasce il “Cavaliere”, selezione di Sangiovese nelle vigne aziendali, raccolto e scelto in piena maturazione. Diraspato, viene fatto fermentare in tini aperti di legno di quercia di piccole dimensioni, e la macerazione è effettuata con la sommersione soffice del cappello a mano, con il sistema della follatura per oltre venti giorni. Alla svinatura il vino viene messo nelle barriques dove sosta per dodici mesi. Senza essere filtrato, viene imbottigliato per riposare in vetro fino all' anno seguente.
Qualche giorno fa, durante il sempre più convincente corso sul Sangiovese tenuto da Armando Castagno, abbiamo avuto la possibilità di degustare l’annata 1997, un vino che sa di mare, mediterraneo con iniziale note salmastre, di acciuga, poi esce il tabacco, la resina, il chinotto, il fumè, il pomodoro secco ed, infine, la frutta nera. Una splendida evoluzione del Sangiovese della Costa degli Etruschi che si rileva anche in bocca dove il Cavaliere si esprime tridimensionalmente sul nostro palato con una coerenza, una armonia ed una persistenza che solo il grande Sangiovese toscana può offrire.

Quel vignaiolo di Oliviero Toscani....

Olivero Toscani da sempre ama provocare, tutti conosciamo le sue foto, scomode, scandalose, a tratti inquietanti e che pongono una serie di interrogativi sulle tragedie sociali del nostro tempo.
Non solo fotografia però. Toscani ama anche l’olio, i maculati cavalli Appaloosa e il vino, ultima passione che gli ha fatto costituire nel 2000 una bellissima azienda di 100 ettari, la OT Agricola, nel cuore della Toscana, sulle colline toscane tra Montescudaio e Bolgheri.
Il novello vigneron (e badate bene che ho usato la parola francese) in questa sua avventura si avvale della collaborazione di importanti esperti del settore come l’agronomo Federico Curtaz, l’enologo Attilio Pagli e nientepopodimeno che…..Angelo Gaja.
Il suo vino si chiama semplicemente OT (dalle iniziali del suo nome) e, a dispetto di ogni territorialità, è un blend di uve Syrah, Cabernet Franc e Petit Verdot. ''Il mio e' un vino genuino, non sarà il classico rosso da osteria toscana, ma sara' elegante e con pochissimo legno'', ha detto Toscani. "E' un vino che a me piace, perchè riesco a fare solo le cose che mi piacciono. Era anni che sognavo di fare il vino ma non ne avevo mai avuto il tempo''. ''Per adesso - spiega ancora - sono 13 mila bottiglie, la prossima annata saranno 20 mila, sto anche costruendo la cantina poi vedremo cosa succede''.
Fin qua tutto bene ma le contraddizioni di Toscani cominciano ad emergere se leggiamo le sue interviste sul mondo enologico e, soprattutto se ci concentriamo nella lettura di ciò che pensa del vino italiano. In una intervista rilasciata a Vie del Gusto il nostro agricoltore VIP confessa di amare profondamente il Pinot Nero della Borgogna, giudicato provocante ed ambigue come un travestito, mentre bolla i vini italiani, anche i migliori, come prodotti da osteria. Troppo lontani i cugini francesi, a noi italiani siamo lontani 400 vendemmie dalla Francia.
Ora, caro Toscani, sono tre le cose che mi vengono in mente: visto che vuole fare vino, perché non si è comprato una tenuta a Gevrey-Chambertin anziché comprala a Casale Marittimo?
Visto che i francesi sono i migliori, perché non ti sei avvalso della collaborazione di Kees Van Leeuwen anziché di Gaja?
La madre di tutte le domande è però questa: se tutti i vini italiani sanno di osteria, perché OT dovrebbe essere diverso visto che lei stesso afferma che non sarà il classico vino da osteria toscana?
O stiamo tutti nella stessa barca oppure la sua tesi sul panorama vinicolo italiano è un po’ contraddittoria.
Aspetteremo comunque di degustare il suo vino che lei stesso definisce come un quadro di Goya e che, leggendo qua e là su Internet, dopo vari rinvii sta presentando in tutta Italia.
Ah, un appunto: Goya non è francese!

Foto: www.viedelgusto.it

Oggi l'Amarone ed il Recioto diventano Docg

L’Amarone e il Recioto tagliano il traguardo della Docg. Il primo marzo per i due vini simbolo del Veneto diventa ufficiale la denominazione di origine controllata e garantita che contraddistingue il gotha dell’enologia. Un traguardo atteso da oltre 15 anni per un riconoscimento “doveroso” come spiega al VELINO il presidente del Consorzio della Valpolicella Luca Sartori. “Finalmente dopo una lunga tribolazione ci siamo.
L’Amarone – sottolinea Sartori – sarebbe dovuto essere uno dei primi vini e non uno degli ultimi a meritare la Docg”. Con la nuova denominazione cambierà anche il disciplinare: si prevedono modifiche riguardo all’imbottigliamento, che avverrà nelle zone di produzione, la chiusura temporanea dell'albo dei vigneti, la possibilità di intervenire di anno in anno rispetto alle uve rivendicabili e alle uve da mettere a riposo e la valorizzazione dei vitigni della zona di Verona.
Ma non c’è solo la Docg. La Valpolicella ha un altro motivo per festeggiare: è stata infatti premiata come regione vinicola del 2009 dalla prestigiosa rivista americana Wine Enthusiast. “È stato un premio al lavoro di squadra fatto negli ultimi decenni – continua Sartori -. Da zona che produceva bene ma a cui non veniva riconosciuto un livello qualitativo di eccellenza la Valpolicella è stata riconosciuta a livello internazionale battendo perfino lo champagne”. Un ritorno di immagine che non può che far piacere a un vino, come l’Amarone, con una forte vocazione all’export con oltre il 70 per cento della produzione diretto in altri paesi.
Docg a parte, il Consorzio della Valpolicella che conta 152 imbottigliatori di cui 3 cantine sociali e circa 1800 aziende agricole, si troverà ora ad affrontare le novità introdotte con la riforma Ocm vino. Secondo Sartori si tratta di “una grande opportunità”. Perché se è vero che ai Consorzi non spetterà più il controllo del prodotto, trasferito a soggetti terzi, “avranno più poteri su altri aspetti come promozione, valorizzazione e vigilanza post certificazione. Noi – spiega Sartori – abbiamo già cambiato pelle e avendo una denominazione sana e forte crediamo che questa riforma sia positiva perché dà ai consorzi la gestione dell’offerta che permetterà un controllo completo sulla filiera”.
Tra le attività di promozione già sono in programma eventi in Nord Europa e area scandinava “mercato molto interessante per i nostri vini, ma dove c’è anche tanta contraffazione” e il progetto triennale “Vini dell’Alsazia” che partirà alla fine 2010 oltre che eventi a Roma e Milano. Infine un bilancio sul 2009. “Dopo un inizio di anno che faceva temere il peggio – sottolinea Sartori – la decisione di alleggerire le scorte e abbassare le uve destinate ad appassimento ha frenato il calo dei prezzi che sono tornati a livelli normali. Anzi dagli 8.5 mln di bottiglie del 2008 di Amarone abbiamo superato i 9 mln facendo segnare un +7 per cento mentre la Valpolicella ha mantenuto le quotazioni. Il 2010 è iniziato in modo meno nero. È presto per fare previsioni ma siamo cautamente ottimisti”.

Fonte: Il velino

Ma il vino italiano è davvero caro?

Interessante articolo de "Il sole 24 ore" che pone interrogativi interessanti sul prezzo del vino italiano sullo scaffale.
Una bottiglia che esce da una cantina italiana finisce sugli scaffali all’estero con prezzi anche 10 volte superiori rispetto a quello d’origine. Forse troppo per convincere i consumatori stranieri che, comunque, l’acquisto vale la spesa. Lo segnala un’analisi di winenews.it, ripresa dalle Agenzie, che sottolinea come questa forbice, causata anche da spese e tasse, finisca per creare ulteriori difficoltà nella lotta contro la concorrenza spieata del produttori del Nuovo Mondo.
L
’aumento esponenziale del prezzo avviene in tutti i principali mercati, da quelli storici come gli Stati Uniti a quelli emergenti, come la Cina, l'Estremo Oriente e il Brasile, un mercato sempre più importante. In quest’ultimo caso, per esempio, si passa da 8 euro franco cantina a 45 euro allo scaffale di Rio de Janeiro. Oltre alle normali spese di commercializzazione e ai ricarichi dei locali, l’incremento è causato da una tassa ad valorem del 27% per i vini tranquilli, da una tassa per l'importazione, fino ad accise ad valorem che variano a seconda delle zone di destinazione.
Una bottiglia che parte da Roma a 5 euro arriva invece a Pechino a 25-30 euro,
a causa tasse di importazione del 40-60% sul valore dichiarato della fattura, il trasporto, e i ricarichi di distributori e commercianti.
Peggio ancora in India, dove una bottiglia passa dai 5 eur
o della cantina ai 55 dello scaffale per via di una serie sterminata, e obbligata, di passaggi: 50% di dazio doganale, 200% di accise, 9% per scarico e sdoganamento, 29% di carico in deposito, 12,5% per l'importatore, 12% del grossista e 15% di ricarico del dettagliante.
Anche negli Stati Uniti, segnala infine l’analisi, il ricarico è notevole, a causa soprattutto del meccanismo di importazione/distribuzione. Qui, un vino che esce da una cantina italiana al prezzo di 8 euro arriva a costare 2/3 volte tanto, se i passaggi sono solo produttore/distributore e distributore/enoteca. Ma se si interpone anche un importatore terzo, il prezzo subisce un ulteriore ricarico arrivando a circa 3/4 volte la quotazione di partenza.

Voi che ne pensate?

I Botri di Ghiaccioforte: metti un Grand Cru a Scansano

Mi ricordo, quando ancora ignoravo del tutto il mondo del vino, che spesso al ristorante la moda del momento imponeva di prendere come bianco il Greco di Tufo mentre, per i rossi, si privilegiava il Morellino di Scansano, un vino che faceva “status” perché non banale, toscano e dal costo relativamente contenuto. Mi ricordo quei vini e, spesso, il loro gusto me lo ritrovo ancora oggi, a distanza di anni, immutabile e commerciale come deve essere.
Qualcosa è cambiato però quando per la prima volta mi sono avvicinato all’azienda agricola I Botri di Ghiaccioforte, un gioiellino incastonato nel comune di Scansano, località Aquilaia, che per primo nella zona si è convertito al biologico puro, senza se e senza ma.
Su una delle più belle colline maremmane lavorano due persone, Giancarlo Lanza e sua moglie Giulia Andreozzi che, nel 1989, acquistano il vigneto e ne fanno un complesso agrario chiamato “I Botri”. Giancarlo è un enologo, Giulia una sommelier. Ambedue sono dotati di notevole sapienza enologica. A questa, uniscono passione e puntiglio, due necessarie virtù, atte a fare del vino “nettare e sollievo degli uomini”. Giulia e Giancarlo si mettono all’opera. Ammodernano l’azienda originaria, innovano i sistemi di produzione del vino mantenendone inalterati la tipicità, il gusto: in altre parole, le peculiarità del prodotto locale (Morellino di Scansano e Bianco di Pitigliano).
La vigna “I Botri” si estende per circa sette ettari, su due poggi in località I Botri (da qui, la sua denominazione). Il posto si trova di fronte all’abitato Etrusco del Ghiaccio Forte sulla via Aquilaia, a una dozzina di Km da Scansano (prov. Di Grosseto). Dista circa 20 Km in linea d’aria dal Tirreno e domina la valle del fiume Albenga, ariosa, ricca di ondulazioni, come sono in genere le vallate toscane.
Del terreno, quattro ettari vengono coltivati a bacca rossa: il Sangiovese è presente con due cloni di Morellino per il 90% e con il Prugnolo gentile per il restante 10%; l’Alicante, che è un clone di Grenache, il Ciliegiolo. Sono i vitigni da cui si ottiene il Morellino di Scansano D.O.C. Due ettari invece sono coltivati a bacca bianca: Il Procanico, clone del Trebbiano toscano, la Malvasia, il Fermentino: un insieme di vitigni da cui nasce il Bianco di Pitigliano D.O.C. Sistemi di combinazione e cloni diventano oggetto di studio da parte dell’istituto di viticoltura di un’università toscana.
Qualche giorno fa ho potuto assaggiare, a distanza di due giorni, sia il Bianco di Pitigliano 2008 che il Morellino Riserva, nei millesimo 2004 e 2005.
Il bianco, a dispetto delle annate precedente assaggiate lo scorso anno, mi è piaciuto moltissimo, pura spremuta di territorio con quella affascinante nota minerale che ci pervade il naso e che ci catapulta nel sottosuolo di Aquilaia considerato, da chi se ne intende, luogo avente terroir da Grand Cru alla stregua dei cugini francesi. Bocca di grande acidità che ben supporta i 14%. Ottima bevibilità. Prezzo? Ve lo dico dopo!
Il Morellino di Scansano Riserva 2004, così come ripetuto all’inizio, è un vino inconsueto, a tratti austero e chiuso, che all’olfatto richiama anzitutto quanto visto per il bianco: tanta mineralità, con una nota inconsueta di piombo, ghisa, cemento, fieno, poi esce la frutta rossa selvatica e le sensazioni di fiori appassiti. Bocca di grande equilibrio, atipica per un Morellino commerciale, se volete eleganza e profondita venite avanti, non ve ne pentirete.
Il Morellino di Scansano Riserva 2005, rispetto al precedente millesimo, è più diretto, presenta tratti di grandissima verticalità olfattiva che disegnano una struttura ed un equilibrio di ottima fattura. Una bottiglia finita in un attimo. Un vino va soprattutto bevuto, ricordate? I
prezzi? 8 euro, e dico 8 euro. Vini davvero sorprendenti che hanno un unico difetto secondo me: vista la pochissima solforosa presente (circa 50 g/l) vanno conservati in maniera ottimale altrimenti si rischia una rapida ossidazione.
Prosit!

Andiamo tutti in bianco con i Superwhites friulani

Ottimamente organizzata da Slow Food, questa domenica si è replicato l’evento Superwithes, gran galà del vino bianco friulano che ogni anno a Roma fornisce un importante spaccato del livello qualitativo medio di questo gruppo di vignaioli col Tocai, cioè….Friulano, nel cuore.

Pr
ima di entrare nel particolare, vorrei sottolineare due cose. La prima: trovo scorretto inserire nel sito internet il nome di Josko Gravner tra i papabili partecipanti quando si sa benissimo che non sarebbe mai venuto. Trovo tutto questo una piccola trappola per i tanti appassionati che, pur di parlare col loro produttore mito, si fanno inutili chilometri con la speranza nel cuore.

Seconda cosa: ho fatto numerosi assaggi di molti produttore e devo dire che il livello qualitativo medio l’ho trovato molto alto ma…molto uguale. I vini erano tutti impeccabilmente e tecnicamente perfetti, di grande mineralità, sapidità, territorialità se vogliamo, col loro finale d
elicatamente amarognolo e di buona persistenza. Ok, direbbe qualcuno, ma allora di che ti lamenti? La mia unica recriminazione riguarda proprio questo, ripeto, tutti sono algidamente ineccepibili, tutti usano la stessa ricetta con vinificazioni in acciaio o cemento con, al massimo, un lievissimo passaggio in legno (20% del totale). Sauvignon, Friulano, Pinot Bianco, Pinot Grigio, Chardonnay sono le principali uve utilizzate da questi vignaioli che, ed è questa la mia critica, producono vini che hanno le movenze di bellissime e sensuali modelle che, scavando scavando, trovi un po’ senza anima e che alla fine potresti lasciare per un…bianco più naturale.

I migliori assaggi sono stati:


Lis Neris – Picol 2001
: se c’è un grande pregio dei grandi vini bianchi, non s
olo friulani, è quello di evolvere magnificamente nel tempo, come questo sauvignon in purezza che mantiene l’intensa aromaticità dei suoi “primi anni”. Il vegetale si rispecchia nella foglia di pomodoro, il terroir nella roccia bianca di fiume, il fruttato è vortice di frutta bianca ancora croccante. Al palato è una lama di acidità e sapidità, lungo e infinito il finale. Da bere oggi con gaudio e per i prossimi venti anni. Miglior vino in assoluto della giornata.

Zuani – Zuani Vigne 2008
: l’azienda è di proprietà di Patrizia Felluga che, oltre a questo vino, ha presentato anche un interessante “Zuani Zuani”, vino da vendemmia tardiva invecchiato in barrique francesi ed americane che, per il mio gusto, rappresen
ta una scelta troppo internazionale. Tornando al Zuani Vigne 2008, blend di Friulano, Chardonnay, Sauvignon, Pinot Grigio, con viti di oltre 20 anni di media, ho trovato il vino di ottima aromonia gusto-olfattiva, profondamente minerale, equilibrato e di notevole ricchezza fruttata nel persistente finale. Da risentire tra qualche anno per una valutazione qualitativa complessiva.

Adriano Gigante – Storico 2008:
100% Friulano, è un vino che ho voluto segnalare perché proviene da un vigneto del 1940, per cui siamo di fronte ad un Tocai molto saggio, più ampio e complesso rispetto ad altri vini simili. Mi viene in mente di aver nel bicchiere un bambino (visto l’ultima annata) con il cervello di un adulto. Bella la tipica nota
ammandorlata finale che fornisce un leggero amarognolo senza essere troppo invasiva.

Fermiamo questo scempio: il vino fatto con le ossa di tigre

In Cina il vino contenente ossa sbriciolate di tigre è più di una normale bevanda alcolica, è una panacea usata per curare una gran quantità di malattie, su tutte artrite e reumatismi. I produttori hanno sempre sostenuto che per farlo vengono usate ossa di animali morti e hanno persino vantato di essere in possesso di un'autorizzazione speciale. La realtà è ben diversa.

Ai visitatori dello zoo di Guilin, in Cina, si presenta uno spettacolo angosciante. Tra le 1.500 tigri in cattività (circa la metà di quante ne vivano allo stato brado) ve ne sono molte ferite, emaciate, malate e in ogni caso prossime alla morte. Le guide del parco zoologico cercano di rassicurare i visitatori "cosa volete che facciamo? Sono malate e, per legge, è vietato ucciderle". In realtà stanno aspettando che muoiano e fanno di tutto per rendere il processo il più rapido possibile. Sono stipate in gabbie strette, non viene dato loro da mangiare, in modo che si attacchino l'una all'altra in una lotta, spietata, per la sopravvivenza. Ciò che i visitatori non sanno è che una tigre vale molto più da morta che da viva, 30 chili circa di ossa sono quotati fino a 225mila dollari (165mila euro) e, una volta deceduti, gli animali vengono portati in un centro dove i resti verranno lavorati per ottenere, tra gli altri prodotti, un vino ritenuto pregiato il cui costo di vendita medio è di oltre 200 dollari.

Il proprietario del parco, Mr. Zhou, è anche il proprietario dell’azienda in cui viene prodotto il vino. Ogni anno ne vengono immesse sul mercato 200mila bottiglie con una formula commerciale degna delle più raffinate aziende vinicole: una bottiglia invecchiata tre anni costa 68 euro, 105 euro quelle invecchiate sei anni, 210 euro per una di nove anni e c'è anche il prodotto di punta, quello più raro, il cui costo si avvicina ai 680 euro a bottiglia. La redazione del Daily Mail ha contattato l'ufficio vendite di Mr. Zhou scoprendo che chiunque, dietro pagamento di una licenza il cui costo può superare i 500mila euro annui, può diventare distributore del pregiato vino.

Nella farmacopea cinese gli organi di tigre hanno diversi scopi, gli occhi sono usati per curare l'epilessia, la bile per sedare le convulsioni, le vibrisse (i "baffi") sono usate per combattere il mal di denti e, cosa ormai risaputa, dal pene si ricava un tonico che dovrebbe donare vigore alla carica erotica. Tutti aspetti che hanno indotto l'uomo ad accanirsi contro questo animale, ormai vicino all'estinzione.

La medicina tradizionale è ancora fortemente radicata in Cina, soprattutto a causa del costo più contenuto rispetto a quello della medicina "occidentale".

Dopo una prima denuncia dell'EIA (Environmental Investigation Agency), avvenuta nel 2008, è apparso evidente che le autorità di Pechino chiudano entrambi gli occhi davanti a questi orribili commerci, sui quali i produttori cinesi fanno grande pressione affinché vengano definitivamente liberalizzati.

Poco più di una settimana fa, il 14 febbraio precisamente, in Cina è iniziato l’anno della Tigre... Altro caso tipico in cui la tradizione presta i propri panni al business perché queste atrocità vengono commesse in onore del denaro, non di certo per tenere in vita la medicina cinese.

Fonte: TGCOM

E mentre gli altri erano in Fortezza per Benvenuto Brunello 2005...

...con qualche produttore e qualche amico appassionato ci siamo ritrovati al ristorante “Il Pozzo” di Colle Sant’Angelo per valutare senza problemi alcuni Brunello 2005 e, soprattutto, valutare qualche vecchia annata che, magari, era stata o meno sopravvalutata in tempi non recenti.
Accanto a succulenti piatti di pappardelle al cinghiale e bistecche alla fiorentina ecco, di seguito, qualche nota interessante e qualche consiglio per i futuri acquisti:
Brunello di Montalcino San Lorenzo 2005: è ormai dal 2003 che seguo l’evoluzione di questo giovane produttore toscano e, anno dopo anno, il suo vino mi piace sempre più, sta acquistando personalità e complessità. L’ultima annata è di grande finezza, leggiadria, è un’esplosione di fiori, piccoli frutti rossi e spezie scure. Bocca equilibrata, armonica, di buona persistenza. Non ho idea di quanto potrà evolvere ma già da ora è bevibilissimo.
Brunello di Montalcino Il Poggione 1999
: grandissimo vino, profondo, scuro con le sue note di tabacco, prugna della California, cardamomo, humus, grafite a cui si aggiunge, splendida, una intensa nota affumicata, di camino, che rende il vino compagno ideale in queste serate uggiose. Gusto di grande impatto, in bocca il vibrante tannino ci annuncia che questo Brunello avrà ancora tempo davanti. Ottima chiusura su note di frutta nera.
Brunello di Montalcino Stella di Campalto 2005
: un Brunello che non troverete in Fortezza visto che l’azienda, per così dire, non è in buoni rapporti col Consorzio. Vino da agricoltura biologica, al naso si presenta di grande freschezza, netti i sentori balsamici poi arriva il frutto croccante, tutt’altro che maturo, e una leggere sensazioni di spezie orientali e minerali. In bocca è rotondo, setoso, tutto è perfettamente fuso in una grande armonia di fondo. L’unico neo di questo vino? Forse il prezzo non proprio alla portata di tutti.
Brunello di Montalcino Cerbaiona 1998
: naso particolarissimo, non riesco a sentire precisamente degli aromi, dopo dodici anni tutto sembra perfettamente fuso in un unica grande caleidoscopica essenza composta da frutta nera, fiori, spezie. In bocca è spettacolare la sua carica giovanile, sembra un vino appena uscito, tannino graffiante e fervida acidità rendono tutto splendidamente vivo e di grande equilibrio. Alla cieca farebbe dei seri danni…
Rosso di Montalcino Soldera 1980
: chicca regalata dal sempre generoso Fabio Cagnetti. Poche parole: ci troviamo di fronte ad un vecchio playboy, la sua bellezza ormai sfiorita non riesce a celare totalmente il suo glorioso passato fatto di suadenti olfazioni e palati finemente sedotti nonostante un’annata tutt’altro che esaltante a Montalcino. Oggi possiamo percepire solo l’eco di quello che fu un tempo ma, nonostante tutto, continuiamo a rimanere incantati di questo vecchio signore, esterrefatti e anche un filo gelosi delle sue vecchie e nuove conquiste. Grazie Gianfranco.

Dieci anni di Sassicaia. Il mito Toscano in una splendida verticale

Uno delle più interessanti verticali che sono state organizzate al Roma Vino Exellence 2010 è stata sicuramente la verticale di Sassicaia tenutasi alla presenza di Sebastiano Rosa (figlio del Marchese Incisa della Rocchetta). Non sto qua a scrivere di nuovo cosa ha significato in Italia la nascita di questo grandissimo vino, prima di entrare nel dettaglio delle varie annate posso solo sottolineare, anticipando un po’ le conclusioni che il Sassicaia è anzitutto un vino di territorio, come pochi, infatti, ha letto e riesce a leggere il terroir di Bolgheri che si distingue enormemente dal resto della Toscana. Il Sassicaia è anche un vino che, nel bene e nel male, riesce come nessuno a leggere perfettamente le annate, non è mai uguale a se stesso e questo, come sappiamo, è la prerogativa dei grandi vini.
Infine, il Sassicaia è un vino che esprime sempre e comunque eleganza, anche nelle annate difficili, pur con i suoi mille difetti, c’è sempre quella finezza di fondo che lo rende riconoscibile tra mille.
Tra le annate proposte in verticale vi era grande curiosità per la 2007, in anteprima assoluta per il pubblico presente, un’annata che lo stesso Rosa ha dichiarato essere molto simile alla ’97. Difficile dire cosa c’era dentro il bicchiere e, soprattutto, come questo vino evolverà visto che davvero mi son trovato di fronte ad un neonato che esprimeva la sua eleganza più in bocca che al naso. Mi domando sempre se è ha senso valutare dei vini di questa portata quando sono ancora in fase di affinamento e quando, se tutto va bene, inizieranno a dir qualcosa dopo almeno cinque anni.
2006: il vino si caratterizza per la sua freschezza ed eleganza nonostante abbia molta “ciccia” e una bella trama tattile. Grandi speranze per il futuro
2005: l’annata non è stata il massimo, abbastanza piovosa anche se le uve sono state portate in cantina prima che si generasse il danno. Vino meno carnoso del 2006 ma più floreale, leggiadro, fine con una leggera nota di peperone verde di contorno. Bocca non prepotente, tutto è abbastanza vellutato e lieve, tannino molto bordolese. Grande bevibilità.
2004: prima bella annata dopo i “danni” causati dalla 2003 e dalla 2002. Siamo di fronte ad un grandissimo vino che, superata la timidezza iniziale, si apre mostrando un mondo meraviglioso fatto di solida ed immensa eleganza e, soprattutto, di notevole profondità. Ci perderesti le ore col naso nel bicchiere. Equilibrio gustativo notevole. Il Sassicaia che oggi vorrei.
2003: banale scrivere annata calda,anche se il clima marino di Bolgheri ha mitigato le alte temperature. Siamo di fronte ad un Sassicaia potente, esagerato, anche il tannino va ancora mitigato. La finezza c’è, la si trova, ma siamo davvero al limite. Spero che il tempo lo faccia evolvere al meglio.
2002: al perché far uscire il Sassicaia in questa annata sfigata, Ian d’Agata ha risposto così:”Stiamo criticando una scelta che spesso e volentieri è ben accettata quando parliamo di grandi Chateau Bordolesi. Perché nessuno critica Chateau Margaux quando esce in annate terribili?". Fatta questa premessa posso solo dire che, nonostante tutti i difetti, il Sassicaia 2002 è un vino leggero dove tutto è appena accennato ma, in fondo, resta comunque piacevole. Certo che a quel prezzo…
2001: annata di grandi vini in Toscana e il Sassicaia di certo non tradisce le attese con un frutto maturo ben definito a cui si accompagnano aromi mediterranei e una leggera terrosità di fondo. In bocca il vino è di grande personalità e struttura, ha tannini finissimi, estremamente bordolesi e una grande persistenza. Si ritorna al mio Sassicaia.
2000: il Sassicaia sembra un po’ soffrire le annate calde anche se non siamo ai livelli della 2003. Più verticale rispetto al 2001, si caratterizza per aromi di frutta matura, caffè e humus. Struttura imponente e di grande intensità. Buona la persistenza finale.
1999: il Sassicaia che non ti aspetti perché, nonostante un’annata sottotono, il vino, pur mancando di profondità, rimane molto fine, elegante, sapido, una sorta di cattedrale dove si parte dalla base molto larga e si arriva stretti stretti verso l’alto. Io lo aspetterei ancora.
1998: un vino di assoluto equilibrio, eleganza, con un bagaglio aromatico dove si riconoscono le note di cola, humus, frutti di rovo e scorza di agrume. Ottima coerenza tra gusto ed olfatto. Un vino di grande beva e forse il più pronto della serata.

Vorrei che il Frascati Doc non fosse solo il vino di Roma....

I problemi del Frascati, storica DOC laziale, sono noti già da molto tempo a tutti gli operatori del settore e qualche mese fa avevo scritto su Percorsi di Vino un post dove si dava evidenza a tutta la crisi del settore agricolo dei Castelli Romani.

Nel frattempo le cose non sono migliorate, anzi, ho letto che Stefano Di Tommaso, sindaco di
Frascati ha scritto ad Alemanno per individuare insieme le azioni per un rilancio dell’intera filiera. In particolare il primo cittadino della città laziale nella sua lettera ha sottolineato ad Alemanno le difficoltà in cui versa un comparto fondamentale per un vasto territorio, che interessa centinaia di aziende e un indotto già penalizzato negli anni scorsi dalla scarsa remuneratività del prezzo delle uve, che quest’anno potrebbe ulteriormente scendere con conseguenze disastrose per gli operatori, il tutto nonostante l’alta qualità del vino Frascati che, secondi Di Tommaso, dovrebbe essere avere il seguente slogan: Frascati, il vino di Roma!

Questo grido di dolore pare abbia avuto
effetto visto che, giorni fa, ho letto che si sta dando il via ad una iniziativa a tutela del Frascati Doc che vede coinvolti i Comuni di Roma, Frascati e il Consorzio di tutela denominazione Frascati, progetto che prevedrà degustazioni, una campagna promozionale e l'organizzazione di un corso di formazione professionale per addetti del settore e semplici appassionati.
Abbastanza eloquenti le parole di Mauro De Angelis, presidente del Consorzio di tutela denominazione Frascati Doc:” L'attenzione del sindaco Alemanno, dell'assessore Bordoni e del sindaco Di Tommaso è molto positiva ed è molto importante che si sia colto il giusto valore, sia dal punto di visto economico che storico, a un marchio la cui qualità è riconosciuta in tutto il mondo".
Quindi, da quello che leggo e che sento le cose sono due: o i politici locali sono degli eno-ignoranti e non hanno mai bevuto il Frascati Doc, oppure, e la cosa sarebbe peggiore, sono del tutto consapevoli ma fanno finta di nulla e così facendo, alla fine, non fanno di certo gli interessi del consumatore finale.

Il
motivo di queste mie affermazioni è molto semplice ed oggettivo: nel Lazio ci sono pochissime aziende che producono un Frascati decente che, con la sua qualità, possa essere paragonato ad altri vini bianchi italiani (verdicchio, fiano, etc.).
I vini sono talmente mediocri che anche le guide, con tutti i loro limiti, li ignorano.
Nella zona dei Castelli Romani manca da anni un leader, un vignaiolo che con la sua qualità produttiva possa trainare anche gli altri. Un esempio? Vedi Walter Massa col Timorasso.
I vini della Doc Frascati sono, mediamente, di poca qualità anche perché agli stessi produttori non gliene frega nulla di raggiungere certi obiettivi. Dico questo perché i dati in mio possesso parlando di una resa per ettaro media di oltre i cento quintali. CENTO QUINTALI!!!!!
Ma, allora, di che stiamo parlando? Come si fa a dire che il Frascati è un vino riconosciuto a livello internazionale per la sua qualità? E’ assimilabile ad un Borgogna? Come si fa a dire che il Frascati è di alta qualità quando in Italia ci sono almeno dieci denominazioni (e mi sono tenuto stretto) che gli fanno le scarpe?

Signori politici, prima di sparare cavolate, bevete e confrontate e poi, se siete in grado ancora, datemi il responso…