Ondivago, il nostro Lazio: discontinuo, incerto sul da farsi, contraddittorio, in alcuni casi intelligente, in altri incapace di sfruttare le opportunità, talvolta dilettantesco, magari presuntuoso. Però in movimento, nonostante la fatica di un cammino sempre troppo lento rispetto alla velocità a cui potrebbe e dovrebbe andare. Ma segnali positivi ce ne sono, nonostante l’andamento “ballerino” delle ultime annate, che non sempre sono state foriere di grandi soddisfazioni. È interessante notare come molti passaggi generazionali siano ormai un dato di fatto, anche volendo riferirsi non soltanto a specifiche gestioni aziendali, quanto ad aggiornamenti sui diversi territori, dove spesso convivono numi tutelari della viticoltura locale e baldi giovanotti (anche al femminile!) che hanno ben saputo rimodellare il verbo dei loro predecessori, proponendo vini aggiornati ai tempi, puliti, nitidi, oltre che decisamente rispettosi dei diversi ambiti pedoclimatici.
Ovvio che i produttori senz’anima siano ancora molti, tesi a scimmiottare il vino altrui, a cercare scorciatoie, a lavorare con lieviti selezionati marcanti e con legni che omologano. Però è pur vero che, analizzando più dettagliatamente le diverse realtà, almeno parzialmente ci si può sentire sollevati. Al di là dell’ambito reatino, dove i saliscendi qualitativi sono ancora all’ordine del giorno, i Castelli Romani (quante meraviglie si potrebbero cavare, da quel suolo impareggiabile…) riescono sempre a dire la loro, e in alcuni casi a porsi addirittura con autorità ai vertici regionali; per non dire della Ciociaria e del cesanese, probabilmente il fiore all’occhiello del Lazio per costanza, profondità d’intenti e lungimiranza, e senza voler nulla togliere ai meriti del nord della regione, dove quella indiretta sinergia fra timbri generazionali diversi, poc’anzi elogiata, si tocca decisamente con mano. L’alto Viterbese, di questo si parla, è un po’ un laboratorio a cielo aperto, per quanto concerne l’enologia laziale: sia per il recupero dei migliori vitigni autoctoni, sia per l’approccio collaudato alle varietà internazionali. Ancora, l’Agro Pontino, che dalle paludi della bonifica fascista, risalenti a un centinaio d’anni fa, è divenuto oggi una quinta teatrale fatta di entusiasmo, sperimentazione, orgoglio, coerenza e ottimistica testardaggine. Oltretutto è interessante notare come ci sia fermento anche nel cercare strade nuove: chi spumantizza, chi lascia appassire le uve, chi vinifica in bianco quelle rosse, chi vendemmia di notte, chi fa criomacerazione, chi fa maturare sulle fecce fini, chi non filtra, chi fa troppo e chi troppo poco.
Qualche fisiologico ricambio in guida, anche quest’anno: ma l’impianto consolidato è quello, i paletti sono ben fissati nel terreno, e la filosofia sposata da molti vignaioli si sta dimostrando quella giusta. Ne seguiremo gli sviluppi: con testa, narici e papille già tese all’edizione 2019.
VINO SLOW
Cesanese di Olevano Romano Sup. Silene 2015, Damiano Ciolli
Brut Kius 2014, Marco Carpineti
Latour a Civitella 2015, Sergio Mottura
VINO QUOTIDIANO
Olivella 2013, Casale della Ioria
Frascati Sup. 2016, Casale Marchese
Frascati 496 2016, De Sanctis
Propizio 2016, Donato Giangirolami
Cesanese del Piglio Velobra 2015, Giovanni Terenzi
Cesanese di Olevano Romano 2015, Proietti
Orvieto Miadimia 2016, Tenuta La Pazzaglia
Procanico 2016, Trappolini
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