Un bianco nazionale che nasce sui terrazzamenti strappati alla roccia della Costiera Amalfitana.
Di Cantine Astroni e di come evolve il loro grande Piedirosso
di Luciano Pignataro
Quanto vive il Piedirosso? Dopo venti anni di
degustazione prove, protocolli in acciaio, in legno piccolo e grande, cemento e
compagnia cantando, si può ragionevolmente affermare che dal punto di vista del
consumatore questo vino può essere stappato subito per godere i suoi generosi
respiri floreali oppure lasciarlo maturare mediamente tra due ai tre anni, in
ogni caso non più di cinque. Si tratta di una regola generale e come ogni regola, soprattutto nel vino, può
avere le sue eccezioni, ma per arrivare a queste conclusioni dobbiamo anzitutto
dire cosa è il Piedirosso.
Grappolo di piedirosso |
Ma il colpo finale a sorpresa sono state le due
bottiglie prodotte quando l'azienda si chiamava ancora Varchetta datate 2003 e
1999.
Questo il cognome di una delle famiglie di
vinificatori che sin dall'800 circondavano Napoli in una sorta di tangenziale
del vino che partiva dai Campi Flegrei con i Martusciello e proseguiva con
Varchetta a Napoli, De Falco a San Sebastiano al Vesuvio, Russo a Terzigno,
Scala a Portici. Un'altra era geologica che termina grosso modo
con la crisi del metanolo del 1986 che costringe tutti ad un ripensamento
globale in Italia e che trasforma alcuni vinificatori in produttori. La storia di Varchetta è proprio questa, con le
nuove generazioni, prima Gerardo Vernazzaro e poi Vincenzo Varchetta a studiare
Enologia e a fare esperienze in giro. Ecco perchè è affascinante bere queste vecchie
bottiglie, figli di un'epoca di transizione, che all'epoca costavano circa
quattro mila lire diventate poi quattro-cinque euro.
Quando passa tanto tempo si finisce a parlare
delle annate più che delle bottiglie. Due annate particolari perchè la 2003,
ricorderete, è stata la prima annata tropicale che abbiamo vissuto in Italia
con un caldo estenuante e lungo e temperature pazzesche. Annata che però per le
varietà tardive alla lunga sono state molto generose. In questo caso il
Piedirosso ha sicuramente retto bene alla prova del tempo presentandosi
scarnificato ma con una buona acidità che lo teneva in piedi e una nota fumè,
di gomma bruciata, che aveva completamente offuscato i sentori di frutta e di
geranio tipici del vitigno.
Si tratta della prima annata che ha visto l'ingresso in azienda di Gerardo Vernazzaro e da allora veramente si sono fatti grandi passi in avanti nella conoscenza del comportamento di questo vitigno apparentemente allegro e gioioso ma in realtà difficile e complicato per chi lo lavora.
Dunque, per rispondere alla domanda iniziale, quanto viva il Piedirosso? Molto a lungo, almeno vent'anni. Ma è meglio berlo non oltre il quinto anno dalla vendemmia.
Nasce Enosearcher, il più grande aggregatore di offerte di vino in Italia!!!
A volte i progetti migliori vedono la luce nei momenti più
difficili: è nato Enosearcher, il primo portale italiano che aggrega le offerte di vini in vendita
online e propone all’utente una scelta accurata e su misura.
L’idea ha preso vita e sostanza durante il lungo lockdown che ha duramente colpito tutta la
popolazione italiana e mondiale in questo complesso 2020, dal sogno al piano, dalla visione
al progetto: supportare il paese nella vendita di una delle sue maggiori eccellenze.
A
realizzarlo è stata la software house di Busto Arsizio SDV, software development vault s.r.l.,
azienda che dal 1999 si occupa di sviluppo web in modo attivo comprendendo le esigenze
dei clienti e del mercato anche prima del tempo, come dimostrano i loro primi progetti
pubblicati nel 2000 e tuttora on line.
Stavolta SDV ha voluto sviluppare un software che fosse in grado di ricercare in rete tutti i
dati e le informazioni necessarie per identificare le migliori offerte on line del settore vinicolo
e proporle all’utente in modo ordinato in base a una serie di parametri stabiliti al momento
dello screening.
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L’utente, quindi, è chiamato ad effettuare una ricerca su Enosearcher: per ogni query il sistema, e perciò il portale, mostra tutte le offerte presenti in rete e le aggrega sotto la stessa bottiglia, a dimostrazione di una usabilità semplice e alla portata di tutti. Il servizio offerto da Enosearcher è completamente gratuito e privo di pubblicità, la sua struttura rende l’utilizzo agevole e intuitiva e, soprattutto, il portale è assolutamente unico nel panorama italiano. La software house SDV è riuscita nell’intento di realizzare un prodotto facilmente fruibile partendo da un’idea complessa: per la raccolta, il raggruppamento e l’analisi dei dati sono serviti tempo e alte capacità tecniche che si possono dimostrare parlando di 144.997 pagine web analizzate, 127 differenti shop online e 157.175 differenti offerte estratte. La tecnologia di estrazione, di esposizione e di raggruppamento dei vini è proprietaria di SDV.
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Oggi Enosearcher propone vini di quasi tutte le denominazioni di origine italiane più, per quanto riguarda l'estero, offerte sullo Champagne con l'intento, per il futuro, di inserire altre tipologie di vino in modo da accontentare i palati di tutti i wine lovers.
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Non solo Enosearcher è il più grande aggregatore di offerte di vino in Italia, ma è in fase di realizzazione la traduzione in inglese per rendere il sito visibile e usabile anche in tutta Europa.
Che aspettate e a fare un giro sul sito?
Per maggiori informazioni:
SDV, software development vault s.r.l.
Via Gavinana 19, 21052 - Busto Arsizio (VA)
https://www.softwaredevelopmentvault.com/
info@softwaredevelopmentvault.com
+39 0331 1587905
Bruno Clair - Marsannay Les Vaudenelles 2013
di Carlo Macchi
Bruno Clair, "marchio" borgognone che tutti conoscono. Vaudenelles è uno dei vini d’ingresso al loro quasi sterminato numero di etichette .
Dal 1930 al 2017. La verticale storica del Carmignano DOCG "Villa di Capezzana" è una pezzo di storia italiana!
di Carlo Macchi
Sembrava di un’altra epoca e lo era. Del resto tra il 1930 e il 1969, il
1974 o il 1977 ci son come minimo quasi quarant’anni e il vino il quel
bicchiere, almeno dal colore, sembrava fuori posto. Come se io entrassi in una
discoteca piena di ventenni.
E poi il 1977 (“solo” 47 anni
di differenza) non era certo il vino più giovane. A sua volta per lui erano
bambini il 1995, il 1998, per non parlare del 2006, 2010, 2016, 2017. Forse il
1977 si poteva “intendere” con i quasi coetanei 1981 o 1988 ma da una
degustazione che spazia per 90 anni della nostra storia non puoi aspettarti che
i vini parlino la stessa lingua e si capiscano (o si facciano capire) al volo.
Così quando da quei 12
bicchieri di Villa di Capezzana più che profumi hanno cominciato ad uscire voci
mi sono messo ad ascoltarle rapito.
1930: “Scusate giovane, ma quel 1969 che è scritto lì, a cosa si riferisce?
1969: “A cosa vuole che si riferisca, all’anno in cui sono nato! A proposito,
se quel
1930 è il suo anno di nascita lei è parecchio vecchio!”
2017: “Perché sarai giovane te! Nel 1969 la mi’ nonna era per strada a Parigi
e gridava a squarciagola - C'est ne qu'un début, continuons le combat- tanto
per farti capire.”
1930: ”Le barricate a Parigi? Me lo immaginavo! Quelli del Fronte Popolare
sono sempre stati pronti a creare problemi. In Italia con il Duce queste cose
non possono succedere!”
1988: “Il Duce? Sveglia nonno! Il fascismo è morto e sepolto da più di 40
anni e oggi l’Italia è una Repubblica.”
1930: “Una Repubblica? Davvero?”
1974: “Ma dove avete vissuto fino a ora? La guerra e il fascismo sono finiti da
quasi vent’anni e e ormai siamo un paese industrializzato.”
2010: “Industrializzato e internazionalizzato pure troppo, la crisi economica
mondiale dell’anno scorso c’ha messo in braghe di tela.”
1981: “Ma di che crisi stai parlando? Anche se l’inflazione è quasi al 20% con
Spadolini Presidente del Consiglio e soprattutto con Pertini Presidente della
Repubblica non siamo messi male.
2006: “ Pertini? Quello del mondiale del 1982? Ma chi se lo ricorda più! E
poi dopo il culo che abbiamo fatto a tutti quest’anno in Germania…Po popo
popopo po
1930: “Cosa? Abbiamo sconfitto la Germania? Lo sapevo! Quella Repubblica di
Weimar faceva acqua da tutte le parti”
2016: “Nonno, ma di cosa parli! A parte che tra vini parlare d’acqua non è
educato, ma basta andare 10 minuti su internet per capire cosa è successo in
questi anni.”
1930: “Al tempo giovane! intanto mi dia del Voi e poi dove dovrei andare a
vedere? Dov’è questo Internè, in Francia?”
Non il papa ma il pontefice,
termine di derivazione latina e che vuol praticamente dire “facitore di ponti”.
In questo caso i ponti da creare sono storico-enologici e servono per capire e
far capire come sia cambiato e perché il modo di fare il vino negli ultimi 90
anni, a Capezzana, a Carmignano e non solo. Quindi questa degustazione,
organizzata in maniera ineccepibile dalla famiglia Contini Bonacossi, oltre ad
avermi fatto degustare vini indimenticabili (del 1930 dirò alla fine… ve lo
dovete meritare!) mi ha anche conferito l’onere e l’onore di cercare di
presentare a volo d’uccello i grandi cambiamenti enoici avvenuti in questi 90
anni.
Partiamo da oggi, con Villa di
Capezzana che potremmo definire muscolari se non fossimo, appunto, a Capezzana,
dove storicamente Sangiovese e Cabernet Sauvignon convivono 2017, 2016, 2010,
2006 hanno lo stesso uvaggio (80% sangiovese, 20% cabernet sauvignon) ma
soprattutto li accomuna un periodo di “riscaldamento globale” che li porta
tutti a parametri analitici praticamente identici, con gradazioni alcoliche sui
14.5°, Ph prossimi a 3.50 e acidità totali vicinissime a 5.50.
Se sono così simili cosa li
differenzia allora? Prima di tutto la mano dell’uomo e poi l’andamento vendemmiale
che in alcuni casi non ha avuto bisogno di “frenate”, mentre in altre, vedi
2017, ha visto interventi mirati (non solo vendemmie anticipate ma gestione
della chioma, diradamenti etc.) per evitare di fare vini troppo rotondi e poco
freschi. Tutti infatti hanno estratto secco prossimo a 33 g/l (il 1930 ha 24
g/l…) con delle corpulente batterie di tannini, sempre più rotondi e armonici
mentre si viene avanti con gli anni. Per esempio, la 2006 l’ho definita
“dinamica con tannini importanti ma distesi e quasi pungenti” mentre la 2017 è “corposa,
con grande concentrazione di tannini dolci e rotondi.”
Per fortuna Capezzana ha
sempre avuto il suo stile, che per definizione è l’opposto della moda, e questi
due vini, un 1995 molto dinamico e un 1998 setoso ma deciso al palato, ne sono
la dimostrazione mostrando (anche analiticamente) una freschezza notevole. Si
incomincia a capire che lo stile Capezzana è basato sull’equilibrio e
sull’eleganza, uniche armi che possono garantire una vita lunghissima al vino.
Dal punto di vista dei profumi si notano ancora bei sentori di frutta ma
affiancati da china, cuoio, liquirizia e qualche bella punta di cassis. Li ho
definiti vini “educati” se confrontati a tanti che in quegli anni colpivano
solo per rozza potenza. Non per niente Capezzana era difficilmente premiata
dalle guide vini di allora, proprio perché i modelli erano altri. Questo non ha
fatto mai spostare il tiro alla famiglia Contini Bonaccossi, dove allora il
Conte Ugo era ancora il patriarca incontrastato.
Bastano pochi anni indietro per
domandarsi, come nella canzone di Raf (chi se la ricorda?), cosa è restato di
quegli anni ‘80. Lo capiamo dal 1988 e dal 1981, figli della prima vera
internazionalizzazione del vino italiano e toscano in particolare. In quegli
anni il mondo si rese conto che anche da noi si facevano grandi vini, anche se
spesso grazie a annate toccate dalla grazia di dio, come la 1988 che, dal punto
di vista agronomico e enologico, è sicuramente molto più vicina non solo alla
1981 ma alla 1977 e alla 1974 che non alle vendemmie degli anni ’90, dove si parlava
di concetti allora inesistenti, come diradamenti in vigna e controlli di
temperatura in cantina. La 1988, anche se la bottiglia non era al top, ha
mostrato appunto quella perfezione che solo poche annate possono avere. In
bocca, mi ripeto, rasentava la perfezione con seta al posto dei tannini e tutte
le cose al loro posto. Un sogno di vino (scusate il gioco di parole) che si è
potuto mantenere così grazie appunto allo Stile Capezzana che, anche senza le
moderne tecnologie, prediligeva vini dove il sangiovese, il cabernet sauvignon
e il canaiolo (che è stato tolto a partire dal 1998) portavano allora a vini
magari un po’ ruvidi nei primi anni ma sempre equilibrati. Con il 1988 si
cominciano a sentire aromi che non solo vanno su note speziate (menta,
liquirizia) ma puntato a sentori terrosi, fungo e tartufo soprattutto. Il 1981
mette subito in campo un’acidità importante e netta (una delle gambe del vino,
si diceva un tempo) che, con una gradazione sotto ai 13°lo rende freschissimo,
ma sempre armonico e sapido. Il naso è cangiante e addirittura dal tartufo
iniziale punta verso nota di frutta matura e floreali, con sambuco e lavanda in
primo piano. Un vino di una vendemmia non certo eccezionale ma che ha trovato
in una certa “leggerezza iniziale” la strada per maturare alla perfezione.
Arriviamo agli anni ’70, che
ci portano in quella che potremmo definire la “preistoria” dell’attuale vino
toscano. Annate più fredde, rese più alte, maturazioni più lunghe (quando la
maturazione c’era) portavano a vini sicuramente (usando un parametro odierno)
più diluiti, dove l’acidità marcava il vino e il tannino non aveva certo la
rotondità di un vino moderno. Una viticoltura che sembra lontana anni luce (non
era finita da molto la mezzadria!) anche se stiamo parlando di nemmeno 50 anni
fa. 1977 e 1974 sono figli di questo periodo ma ne escono alla grande.
Invece ne esce alla
grandissima il 1969, che accomuno ai due precedenti come periodo e che è stato
il vino che mi ha più sorpreso, addirittura più del 1930. E’ stata la prima
annata della DOC Carmignano e porta altissimo il blasone della denominazione
grazie a una incredibile potenza e freschezza al palato, a una profondità
gustativa immensa e una dinamicità scorbutica ma comunque armonica che mi hanno
lasciato di stucco. Un vino da cui imparare e sicuramente a Capezzana l’hanno
fatto.
Finisco con tre
ringraziamenti: alla famiglia Contini Bonaccossi per essere da anni un esempio
di come produrre grandi vini, a Franco Bernabei (enologo della cantina e caro
amico) per avere analizzato tutti i vini così da averci fornito informazioni
importantissime per capirli e infine ai vini che ho degustato, dodici lezioni
su cosa di bello può riservarti la vita e la vite.
Castello La Leccia, tutto il bello del Chianti Classico!
Ci sono posti incantanti nel Chianti Classico, uno
di questi è sicuramente il Castello La Leccia, un gioiello di rara eleganza e
storicità (la costruzione risale al 1077) situato a Castellina in Chianti
(Località La Leccia).
Da un punto di vista prettamente vitivinicolo,
all’interno dei vigneti aziendali, tutti esposti a sud e sud-ovest e gestiti
secondo i principi dell’agricoltura biologica (certificazione 2013), si
coltivano per ora solo ed esclusivamente uve a bacca rossa come sangiovese,
malvasia nera e syrah la cui difesa fitosanitaria è ridotta al minimo
attraverso il solo uso di rame e zolfo. Il giusto apporto di sostanze organiche
al terreno è assicurato in modo naturale: tra i filari crescono orzo, trifoglio
e senape, ed il compost è ricavato dalle vinacce e dai raspi.
Castello La Leccia produce quattro etichette: il
“Vivaio del Cavaliere” (Toscana IGT), il Chianti Classico DOCG, il Chianti
Classico Riserva “Giuliano” DOCG e il “Bruciagna”, il Chianti Classico Gran
Selezione DOCG.
Durante la visita in cantina, supportati dal
bravissimo direttore Guido Orzalesi, abbiamo degustato le seguenti annate:
Castello La Leccia – Vivaio del Cavaliere 2018 (75 % Sangiovese, 3 %
Syrah, 22% Malvasia Nera): si dice sempre che il vino di entrata di una azienda
vinicola sia un passaporto importante per capire la sua filosofia qualitativa.
Le premesse, in questo caso, sono più che ottime visto che questo blend,
vinificato in acciaio e affinato successivamente in cemento, è assolutamente
centrato in succosità, complessità fruttata e progressione gustativa. Costa
meno di 9 euro (!!!!) e potrebbe diventare benissimo il vino quotidiano di
molte famiglie italiane.
Castello La Leccia – Chianti Classico Gran
Selezione “Bruciagna” 2015 (100% sangiovese): per la questo vino vengono scelte
esclusivamente le uve provenienti dal vigneto Bruciagna situato a 380 metri
s.l.m, su un suolo in prevalenza argilloso-sabbioso. Ovviamente è il vino di punta
dell’azienda ed indubbiamente ha una marcia in più rispetto ai precedenti
grazie ad una complessità assolutamente intrigante incentrata su note
aromatiche di ribes nero, mora di rovo, poi in successione note balsamiche,
ferrose ed ematiche. Impatto gustativo dirompente, che gioca su una vena
acido-sapida, contrassegnato da un tannino perfettamente fuso nella struttura
importante del vino. Persistenza sublimi su sensazioni di ferro e spezie nere.
Il vino viene vinificato in acciaio ed affina in legno per circa 30 mesi prima
di passare in bottiglia dove rimane per ulteriori 9 mesi. Questo vino è stato
imbottigliato a marzo 2019.
Abbiamo degustato in anteprima anche il Chianti
Classico Riserva 2016 (sorprendente), il Chianti Classico 2018 (già da oggi buonissimo)
e la Gran Selezione 2019 (in fase embrionale ma promettente).
Una chiosa assolutamente importante: il Castello
La Leccia, grazie al lavoro di Guido Orzalesi, sta cambiando notevolmente
stile, i vini si stanno alleggerendo moltissimo e, al contempo, stanno
diventando sempre più territoriali e sanguigni. Segnatevi sul taccuino questa
azienda, ne riparleremo!
Monterotondo: Malvasia "Sassogrosso" 2019
di Roberto Giuliani
Era un
bianco piacevole e profumato, nel 2019 è successo un imprevisto, le uve sono
rimaste senza ghiaccio secco in cantina.
Argiano: Brunello di Montacino Vigna del Suolo 2015
Un
anno fa ho avuto modo di tornare a visitare una delle aziende
storiche di Montalcino, Argiano, stimolato dal racconto dell’amico
giornalista Dario Pettinelli sulle novità che stavano modificandone
in modo sostanziale la filosofia e l’approccio sia in vigna che in
cantina, ma non solo (se vi è sfuggito potete trovare
l’articolo qui).
Una vera rivoluzione, che ha trovato la spinta nel suo nuovo
proprietario, il gruppo brasiliano Leblon Investment Fund Ltd, con a
capo Andrè Santos Esteves, finanziere tra i più ricchi al mondo.
Evidenziare la condizione di benessere economico di Esteves è
necessario per capire come, per quanto Argiano sia una delle più
importanti aziende di Montalcino, con 420 anni di storia sulle
spalle, il nuovo proprietario non intendesse certo trarne ulteriore
ricchezza. L’imprenditore si è prima di tutto innamorato del
luogo, dell’arte che lo circonda, del fascino di quelle terre e di
quelle vigne, e ha subito capito che l’azienda ilcinese poteva
diventare un simbolo di prestigio, dare lustro all’immagine sua e
del gruppo. Ma era necessario fare qualcosa di radicalmente nuovo,
decidendo di ristrutturare i diversi ambienti seguendo le linee già
definite secoli addietro dall’architetto Pecci, che aveva puntato a
ottenere una perfetta simmetria di ogni edificio, locale, strada,
nell’ottica “bifronte”. Infatti il nome dell’azienda deriva
da Ara
Jani,
il tempio dedicato a Giano, il Dio bifronte, le cui due facce
contrapposte rappresentano il legame con il passato e lo sguardo
verso il futuro. Il risultato di questo lavoro è un “quartiere”
moderno ed elegante, funzionale, ma allo stesso tempo antico e ricco
di storia.
Il Vigna del Suolo 2015 è di fatto il
primo cru di Argiano, questa è la prima annata prodotta, ha subito
una fermentazione spontanea per due settimane in vasche di acciaio a
temperatura controllata, mentre la malolattica si è svolta in
cemento. La maturazione ha avuto un percorso di circa 30 mesi in
botti da 15 Hl della Garbellotto, scelte appositamente per questo
vino. Ad aprile è stato imbottigliato ed è rimasto ad affinare per
10 mesi.
La
2015 ha avuto un andamento decisamente buono, con un inverno
mediamente freddo e asciutto, primavera con temperature moderate e
giusto contributo di piogge, che sono andate aumentando a giugno,
mese che ha fatto da apripista a un periodo estivo decisamente caldo;
le riserve idriche accumulate in precedenza e la profondità delle
radici delle viti hanno consentito di evitare stress. Con il mese di
settembre si è tornati a un clima più temperato. Le uve portate sui
carrelli per la cernita si sono mostrate ottime.
La trama
olfattiva è di notevole impatto, inizia con un bouquet floreale di
rosa, viola, una punta di lavanda, poi subentrano le erbe aromatiche,
la ciliegia, una nota piuttosto evidente di arancia, poi incenso,
leggera cannella e liquirizia, tutto in grande equilibrio.
Al gusto è
ancora più evidente la classe di questo vino, che pur mostrando
tannini orgogliosi e una materia non indifferente, è sorretto da una
freschezza decisa e da una sapidità sottile ma costante, c’è
armonia nei diversi elementi; anche l’alcol, pur nella sua
prestanza, si integra perfettamente con un tessuto avvolgente e
succoso, dove la nota agrumata torna netta anche nel lungo finale.
Un
grande Brunello con un lungo futuro davanti, la nuova Argiano è
arrivata!
Radovic – Vitovska “Marmor” 2018
Peter Radovic, giovanissimo vignaiolo, produce questa splendida Vitovska, macerata in contenitori di pietra locale, che sa di mare e sogni e tanta voglia di gridare al mondo la sua territorialità.
Il mio Rossese di Dolceacqua: focus sull'annata 2019
Non mettevo piede a
Dolceaqua e dintorni da almeno 5 anni, tanto, troppo tempo anche se non ho mai
smesso di bere Rossese. Ritornare in questi luoghi a me cari e sospesi tra
cielo e mare mi riempie di entusiasmo soprattutto perché un full immersion di
tre giorni tra vigne e cantine, coccolato dai principali vignaioli della
denominazione, mi ha permesso di capire
come questo vino sia passato in poco
tempo, grazie al rilancio del grande Armando Castagno, dall’essere un vino di
nicchia fino a diventare oggi una grande realtà del panorama enologico italiano
grazie soprattutto al grande lavoro sulle Menzione Geografiche Aggiuntive (MGA)
o nomeranze, così come si dice in Liguria, posto in essere da Alessandro Giacobbe e Filippo Rondelli, proprietario
dell’azienda Terre Bianche, col contributo indispensabile di tutti i produttori
del territorio.
Già,
loro, i vignaioli del Rossese di Dolceacqua, un gruppo coeso e determinato le
cui vigne si trovano sostanzialmente lungo due valli, la Val Nervia e la Val
Verbone (ci troviamo in provincia di Imperia) che tagliano perpendicolarmente
per 20 Km il versante di ponente della Liguria, a due passi con la Francia,
creando un asse nord\sud, che racchiude quattordici comuni, che parte dalle
Alpi Liguri fino ad arrivare al mare.
Facile pensare, e da qua la sacrosanta
esigenza delle MGA (leggasi introduzione dei Cru), che all’interno della
denominazione vi siano tanti terroir differenti (qualcuno ne ha ho contati fino
a cinque) dovuti sostanzialmente alla minore o maggiore vicinanza delle vigne
al mare, alla loro esposizione, all’influenza dei venti e, soprattutto alla
diversa matrice geologica del terreno che si divide in tre categorie:
- Flysch di Ventimiglia, chiamato localmente
“sgruttu”, che fa riferimento a marne e arenarie scistose di origine marina;
-
Conglomerati di Monte Villa, ovvero ciottoli arrotondati più o meno cementati
di matrice sabbio-marnosa;
- Argille
di Ortovero, dette anche Marne Blu, caratterizzate da depositi sabbio-argillosi
del pliocene ricche di conchiglie e depositi fossili.
Tornare tra i produttori di Rossese di Dolceacqua mi ha portato
anche a fare una valutazione dell’ultima annata in commercio, la 2019, che
posso può essere ben descritta nelle parole di Filippo Rondelli: “al momento
della vendemmia le uve erano sane, il raccolto poco abbondante e quindi la
pianta si è trovata in una situazione di equilibrio che le ha permesso di
portare a maturazione l’uva senza stress e quindi di produrre uva con ph molto
bassi, acidità elevate e ottimo stato sanitario, ingredienti che sulla carta ti
permettono di avere già un’idea su quello che saranno i vini, che in effetti
hanno un buon grado di struttura, complessità e finezza. Direi che tutti a
Dolceacqua siamo soddisfatti, soprattutto venendo da un’annata come la 2018 che
a mio modo di vedere non ha dato picchi qualitativi altissimi, conferendo ai
vini una fisionomia ‘piccola’ ed elegante, sì, ma a volte anche un po’ diafana
e magra”.
Durante la cena di fine tour, organizzata presso il Ristorante
Trattoria Terme di Pigna, regno di capra e fagioli, ho degustato i seguenti
vini:
Ka Mancine – Rossese di Dolceacqua “Galeae” 2019: la vigna da cui
proviene questo vino è uno dei due Cru di Maurizio Anfosso e dalla quale,
spesso, si ottengono vini più pronti e rotondi. Ne è la prova questo Rossese di
Dolceacqua che anche in questo millesimo non si smentisce regalando un rosso di
grande succosità che regala una esplosione olfattiva di frutta rossa e
sensazioni balsamiche. Al palato si rivela corposo e saporito, compatto e
perfettamente equilibrato; il finale è lungo, appagante, ricco di richiami
aromatici. Nota: il Beragna 2019, Cru aziendale ad esposizione nord che
notoriamente fornisce sensazioni più cupe e marine del Galeae, è ancora in fase
embrionale ed ha bisogno ancora di tempo per esprimere tutto il suo terroir di
riferimento.
Maccario-Dringenberg - Rossese di Dolceaqua 2019: proveniente da
sei appezzamenti nel Comune di San Biagio alla Cima, è l’unico Rossese di
Giovanna Maccario non proveniente da singolo Cru. Didatticamente ineccepibile
per iniziare ad approcciarsi con questo vitigno, questo vino da sempre si
caratterizza per corpo leggiadro e sinuoso a cui segue un naso avvolgente e
ricco di erbe riferibili alla macchia mediterranea come lentisco, timo, mirto a
cui associo sempre un pizzico di pepe bianco. In bocca questo Rossese accarezza
il palato con freschezza e disinvoltura e si fa ricordare grazie ad un finale
di poderosa sapidità. P.s.: Giovanna sta imbottigliando ora tutti i suoi Cru
2019, ne vedremo delle belle….
Terre Bianche – Rossese di Dolceacqua 2019: Filippo Rondelli è il
“secchione” tra tutti i produttori di Rossese e la sua eleganza quasi british
l’ho sempre ritrovata nei suoi vini. Ne è una prova, l’ennesima, questo Rossese
2019 che ha un imprinting olfattivo di grande classe: fragoline, violetta,
agrumi, selce, interludi di erbe aromatiche essiccate. Al sorso incanta per
l’intensità sapida e la freschezza tattile. Non è un mostro di complessità come
il suo fratellone maggiore Bricco Arcagna ma si lascia bere che è una
meraviglia. Da provare, come ho fatto anche io, sul coniglio porchettato.
Sublime abbinamento.
Vignaioli Nino ed Erica Perrino - Rossese di Dolceacqua 2019: zio
e nipote rappresentano passato, presente e futuro della denominazione, e questo
Rossese di Dolceacqua è la dimostrazione che l’amore per il territorio e il suo
vino non ha età e annulla ogni tipo di differenza generazionale. Questo vino,
vinificato naturalmente anche con la presenza di raspi, è una chiara
rappresentanza del millesimo: è generoso, vivo, compatto nella espressione
fruttata e floreale del naso mentre al gusto è di pari spessore e ricchezza:
pieno, saporito, armonioso e di buona persistenza sapida. Rossese di Dolceacqua
assolutamente didascalico e tenace come le vigne, anche centenarie, da cui
proviene!
E Prie - Rossese di Dolceacqua 2019: Lorenzo, poco più che
ventenne, è il figlio di Alessandro Anfosso (Tenuta Anfosso) e da lui e suo
nonno ha rubato alla grande tutti i segreti del mestiere. Questo Rossese nasce
da terreni coltivati in due Cru specifici, in Fulavin e ai Pini entrambi a
Soldano, e fin da subito si fa apprezzare per il suo carattere e la sua sua
precisione stilistica. Al naso incanta per ricchezza aromatica giocata su
tocchi di marasca, mora di gelso, violetta a cui seguono leggeri ma variegati
toni di pepe e spezie orientali. Al sorso è piacevole, ricco ma al tempo stesso
ben bilanciato da una corroborante dotazione acido-sapida. Il tempo non potrà
che migliorarlo. Il sorpasso al papà è già in vista, vero Lorenzo?!
Maixei - Rossese di Dolceacqua 2019: vino della storica
cooperativa agricola del ponente ligure il cui nome dialettale maixei fa
riferimento ai muretti a secco che sostengono le fasce di terra destinate alla
coltivazione del rossese. Il vino è assolutamente gradevole e soddisfacente
nella sua semplicità, ha sentori nitidi di ribes rosso, mora ed erba medica. Al
palato è succoso, rustico, privo di orpelli e proprio per questo assolutamente
franco nella sua dimensione territoriale e, perché no, sociale.
BONUS TRACK
Tenuta Anfosso – Rossese di Dolceacqua “Novanta” 2016: lo so non è
un 2019, l’azienda ad oggi ha in commercio ancora la 2018 ma questo vino ho voluto recensirlo per la
sua storia in quanto è il Rossese che Alessandro ha voluto produrre per il
novanta anni di suo papà Luciano, un faro sia nella vita che nel lavoro. Era
tutto pronto, tutto già imbottigliato, ma il destino a volte fa scherzi
meschini e papà Luciano se ne è andato qualche giorno prima del suo compleanno
per cui non ha mai visto e degustato questo vino che sa di amore e passione,
sogni e incazzature ma, soprattutto, sa di famiglia e principi morali ben
solidi. Grazie Alessandro per averlo condiviso con tutti noi!
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