Il senso del Carso secondo Matej Skerlij

Sales è un piccolo paesino del Carso, qua i ritmi sono lenti, rurali, e ci passi in auto solo se abiti in queste zone oppure, come me, se hai un indirizzo preciso dove andare scritto su Google Maps.


Agriturismo Skerlj, località Sales 44 (TS) era la mia destinazione quel giorno, il giorno in cui ho incontrato Matej Skerlj, uno dei grandi vignaioli del Carso anche se lui non se lo vuole sentire dire. Matej lo trovo che sta ultimando alcuni lavori in cantina costruita all’interno del podere agricolo che ha ereditato dal nonno e che pian piano ha trasformato in agriturismo ed azienda vinicola che si estende oggi su circa 4 ettari di vigneto, dove troviamo malvasia istriana, vitovska e terrano, suddiviso in 12 parcelle, in parte di proprietà e in parte in affitto, sparse tutte intorno a Sales. 


Alcune vigne sono molto vecchie - racconta Matej - risalgono al dopoguerra, e le ho prese in gestione da anziani del posto che le stavano abbandonando e come si può vedere il filare in questo caso è molto largo perché ovviamente una volta in mezzo ci piantavano piante orticole e più ne mettevi meglio era perché avevi meno da zappare. Qua nel Carso questa attività, che veniva fatta a mano, è molto dura perché come saprai abbiamo nel suolo abbiamo poca terra e tanto strato di roccia molto dura”. 

La terra del Carso

Girando tra i filari mi accorgo anche che le viti sono tutte piegate verso un lato. Mi giro per chiedere ma Matej già mi ha letto nel pensiero: ”Nel Carso conviviamo con roccia e Bora e i vignaioli spesso girano le piante in favore del vento in modo da preservarle il più possibile dalla sua forza che a volte è prorompente….”.

Vecchie vigne

L’approccio agricolo di Matej è assolutamente quello di una volta. “
Per fare un vigneto – racconta Matej – togliamo tutta la (poca) terra che sta sopra, rompiamo con grandi macchine la roccia sottostante che poi rigiriamo perché a noi ci interessa la parte fina di questa massa e infine facciamo un letto di roccia battuta, letame, poi copriamo con 40 cm di terra, il giusto per piantare poi le barbatelle. Tutto ciò aiuta nei periodi siccitosi perché la pietra trattiene umidità. Se non facessimo così l’acqua andrebbe via per il classico fenomeno carsico. L’unica novità, rispetto a ciò che facevano i nostri vecchi, è la forma di allevamento, prediligo l’alberello, e il sesto di impianto che oggi è molto più denso per produrre di meno e meglio. Come trattamenti, invece, facciamo solo gli interventi necessari usando solo minime quantità di rame e zolfo”. 


Dopo un bel giro tra le vigne, alcune nascoste all’interno di suggestivi boschi, torniamo verso l’agriturismo che la famiglia Skerlj ha aperto negli anni ‘90 dopo aver gestito per decenni la tradizionale osmiza
Matej imbottiglia vino dal 2004, prima si produceva solo sfuso, in grandi quantità, perché c’era molta richiesta soprattutto da clienti locali. Col calo dei consumi avvenuto a metà anni 2000, c'è stata la svolta ovvero la decisione di imbottigliare e di puntare sull’alta qualità del vino che, seppure sempre naturale, da quel momento in poi si fa macerare ed invecchiare per puntare al massimo della territorialità e, ovviamente, ad un mercato molto diverso dal passato. 


Oggi tutta la vendemmia viene fatta tutta a mano e l’uva, una volta pigio-diraspata, fermenta in tini di legno aperti per circa tre settimane senza controllo di temperatura e l’uso di lieviti selezionati. Il vino, comprensivo delle sue fecce fini, viene messo poi in botte per un anno, poi dopo un travaso, viene rimesso altri dodici mesi in legno e viene infine imbottigliato, solitamente nel mese di Agosto (luna calante) dopo aver assemblato tutte le varie botti al fine di omogeneizzare la massa. 

Botte in marmo

Dal 2018 in cantina c’è anche la presenza di una botte chiusa di pietra di Marmo di Aurisina, che Matej usa per la vinificazione di una parte della sua Vitovska riprendendo ciò che un tempo era stato già sperimentato da Kante e ripreso successivamente da Zidarich. Dopo un lungo aver assaggiato da botte i Vitovska, Malvasia e Terrano, sia 2018 che 2019, con Matej degustiamo seduti in taverna le ultime annate in commercio a cui si aggiungerà una sorpresa. 


Skerlj – Vitovska 2017: questo vitigno non concede mai moltissimo ai profumi che si mantengono sempre abbastanza compatti ma al contempo di millimetrica precisione. Non puoi infatti non capire che questo vino sa di ginestra, susina, melone bianco, aghi di pino e roccia bagnata dal mare. Al gusto è nervoso, vibrante, espone senza vergognarsene la sua tessitura minerale imponente e la sua chiusura sapida, marina. Vino ancora giovanissimo ma che fa capire come da queste parti la vitovska sia un grande vanto territoriale.


Skerlj – Malvasia 2017
: lo ammetto, non sono un grande fan di questo vitigno, più di una volta ho degustato malvasia di Candia o malvasia puntinata in purezza che ho fatto fatica a deglutire. Ebbene, la malvasia istriana, per me, è un’altra cosa. Il suo carattere esuberante di questo vitigno, nel Carso, è infatti mediato da un territorio dove roccia, vento e mare non lasciano troppi spazi di manovra anche a vini aromatici come questo prodotto da Matej che è un concentrato di agrumi, ferro e sale con lievi accenni di albicocca disidratata e ginestra. Al sorso offre lo stesso stampo, è una carica calibrata di frutta gialla e sale e decisa freschezza. Bottiglia finita in un amen. 


Skerlj – Terrano 2017
: questo vitigno, appartenente alla famiglia dei Refoschi, è considerato da molti una delle espressioni più tradizionali e storiche del Carso tanto che, in passato, si dava come medicina a chi aveva bisogno di ferro. Questo fa capire come questo vino, grazie al DNA territoriale, sia segnato da una matrice minerale di grande impatto tanto che il suo sipario olfattivo si apre su note ematiche e terrose a cui seguono sensazioni di chiodi di garofano, china e muschio. All’assaggio il Terrano di Matej è vibrante di freschezza e sapidità quasi salmastra. Il tannino, come in tutti i Terrano, è garbato, quasi accennato, è questo permette a questo vino di essere un ottimo jolly a tavola. 

BONUS TRACK 

Skerlj – Vitovksa 2006: difficile far capire, a parole, tutto ciò che ho provato mettendo il naso nel bicchiere che esplodeva di aromi di bosso, terra rossa, agrumi canditi, tarassaco, sambuco, zenzero, refoli di erbe aromatiche. In scia morbide sensazioni di cera d’api si fondono a viva mineralità salmastra. Il sorso, di equilibrio smisurato, riunisce avvolgenza e nitore, ricchezza e leggerezza di beva. Si congeda senza fretta, richiamando all’appello, uno a uno, tutti gli aromi percepiti dal naso. Un piccolo grande capolavoro firmato da Matej e dal suo territorio. Grazie! 

Vitovska 2006 nel calice

Laherte Frères - Champagne Brut Blanc de Blancs “Nature”

Quinta generazione al lavoro nella maison fondata nel 1889 Michael Laerte dedica particolare attenzione a questo blanc de blanc ottenuto da un assemblaggio di Chardonnay, alcune da vigne molto vecchie. 


Nessun 
dosaggio, grande freschezza ma anche buon corpo, mineralità e note di pompelmo per una beva dissetante ed efficace. Una volta tanto gli enofighetti non hanno torto, va!

Luigi Tecce e il mito del suo Poliphemo 2006 in Magnum

di Luciano Pignataro

La Cabala nel vino. Se ne parla in genere quando si fa riferimento alle annate, le coppie pari e quelle dispari, oppure la stessa annata di diversi decenni: quante volte vi sarà capitato di sentirlo? La 2014 ricorda proprio la 2004, oppure l'alternanza delle annate piovose e siccitose. C'è in questo ciò che resta di magico nella matematica dei numeri che da sempre hanno avuto un significato esoterico per l'uomo: nonostante vengano usati per dare ordine alla realtà sino a decidere spudoratamente del nostro tempo, spesso e volentieri sono la porta dell'irrealtà. 

Come spiegare allora che mi ritrovo a parlare di Poliphemo 2006 dieci anni dopo? Non c'era premeditazione, ho deciso che era il vino del mio turno dopo aver attinto ad una delle 100 magnum, la numero 28 per la precisione messa generosamente a disposizione da Luigi Iavarone, giovanissimo patron del Trifolaio, una splendida trattoria in quel di Summonte dove vivono e lavorano due signori del Fiano di Avellino, Guido Marsella e Ciro Picariello. 

Luigi Iavarone

Qui abbiamo fatto un pranzo di altri tempi e fra i tanti vini provati e mangiati, avevo proprio deciso di parlare del Taurasi di Tecce, un vino che accompagnammo con entusiasmo sia dalla sua nascita, precisamente un debutto a Rocca san Felice nel marzo 2013, dieci anni fa, poco lontani dalla Mefite, un sfogo di gas letale da cui bisogna stare ben lontani per evitare di fare la fine degli animali che l'anno attraversata improvvidamente trovando morte certa e istantanea. Uno sbocco degli inferi, sicuramente. E, sempre dieci anni fa ne parlammo, proprio della 2006, in questa rubrica che allora oltre me e Carlo vedeva Ziliani come terzo partecipante. Ne è passato di vino nelle botti! 

Prevedemmo mirabilie in quegli articoli 

Ed ecco dunque, dopo dieci anni che torniamo a parlarne. Come tutti i montanari, gli irpini sono sostanzialmente anarcoidi indisciplinati e bastian contrari ma se dovessi individuare due figure che davvero si sono distinte in questa rinascita dell'enologia in queste colline difficili e silenti, non avrei dubbi: Antoine Gaita per il Fiano e Luigi Tecce per il Taurasi. Personalità complesse ma semplici al tempo stessi, che hanno avuto un rapporto con il vino da loro prodotto maniacale, pignolo, ossessivo. Due personalità vere, non costruite, abbastanza rompicoglioni per discettare di tutto a prescindere ma altrettanto colte ed educate da saper accettare il confronto e saper ascoltare. 

Luigi Tecce

L'ultima vendemmia di Antoine è del 2013, mentre per fortuna Luigi Tecce continua a regalarci annate straordinarie. Il suo non è il vino più buono, non è il migliore, ma è quello che ha più carattere. In una parola, si ricorda. Presuppone concentrazione prima di essere affrontato, ogni annata ha una storia a sé stante e la sua capacità di capire il frutto prima ancora del vino è affidata alla sua sensibilità. La sensibilità di chi sa cucinare molto bene e conosce la materia, i prodotti, perché io credo che per fare un grande vino bisogna avere un grande palato, la memoria di cose buone, non solo bevute a anche mangiate. 

Tecce e le sue vigne. Foto: Portovinoitaliano.it

L'edizione 2006 nasce dal suo rapporto stretto con Vinicio Capossela, e, per chi ancora non lo sapesse, il nome Poliphemo è proprio ispirato ad una sua composizione. I due anarchici del vino e della musica ne hanno fatto di zingarate in giro per l'Italia partendo dal Formicoso, un altopiano che ammaglia l'Irpinia alla Daunia in cui lo spirito diventa libero. Di questa 2006, con l'etichetta disegnata dall'artista, si è deciso dunque di fare cento Magnum. 

Ora, fatte queste premesse, cosa volete che vi possa raccontar del vino? 


Partiamo da due elementi che lo caratterizzano:
la strepitosa freschezza, dieci anni per un Aglianico sono un batter di ciglia, non parliamo poi delle vigne a Trinità di Paternopoli coltivate a raggiera che regalano appena una trentina di quintali ad ettaro di resa. Si, avete capito bene, il vino è ancora giovane, a cominciare dal colore rosso rubino.  Il secondo elemento è la mutevolezza del bicchiere, tipica dei grandi vini. 


In uno degli articoli su questa annata ho, felicemente, paragonato questo vino a Cassius Clay, una massa muscolare enorme e tuttavia agile, capace per tutto il tempo di saltellare attorno all'avversario e ogni tanto colpirlo. Ciliegia purissima, carruba, fumè, china, arancia, cuoio fresco. E potremmo continuare ancora per molto con i mirtilli, il fogliame d'autunno, il caffè, il sentore di tostatura, etc etc. 
Un naso che resta ogni volta spiazzata da un nuovo sentore ma dominato, ancora, dalla frutta croccante che immediatamente si ritrova al primo sorso. L'esplosione è immediata, prima l'acidità che ben predispone, disseta, poi la sensazione di calore, poi le note di frutta. Una beva complessa che monta sino a distendersi improvvisamente in un finale lunghissimo, decisamente amaro, preciso, che ripulisce il palato e lo predispone ad una nuova beva. Un vino che non conosce limiti nell'abbinamento ma che adesso, dopo dieci anni, ha finalmente almeno i tannini addomesticati anche se non domi e ancora ficcanti. 

Ritroviamo così, dopo dieci anni, il nostro entusiasmo per queste vigne al confine tra Paternopoli e Castelfranci, sul cocuzzolo dell'areale docg del Taurasi.

Edi Keber: storia di un vignaiolo di confine

Nell’ottocento lo chiamavano Coglio in italiano, Brda in Sloveno e Cuei in friulano. 


Il Collio, come tutti lo conosciamo oggi, è un fazzoletto di terra dove si coltivano circa 1.500 ettari di vigneto e Zegla, una manciata di declivi che salgono verso la Slovenia, è la “tana” di uno dei produttori più rappresentativi della zona ovvero Edi Keber, oggi coadiuvato dai figli Veronika e Kristian che, anche se non ufficialmente, ha ereditato il testimone del papà.

Edi Keber - Foto: ilmangiaweb.it

Vignaioli di confine li chiamano quelli come i Keber e, facendomi raccontare da Kristian la storia della loro famiglia, capisci come questa parola, CONFINE, nel loro territorio rappresenti una mera linea mobile tanto che il Collio, storicamente, ha cambiato i suoi limiti geografici per tre volte in circa settantacinque anni. Come ama raccontare spesso lo  Edi Keber, questi "cambiamenti" sono stati effettuati anche più volte durante la stessa notte così come accadde nel 1947 quando, dopo il trattato di Parigi, i contadini della zona, per ragioni culturali e non politiche, spostarono "furtivamente" i picchetti con i quali i militari delimitarono la separazione tra Italia e Jugoslavia (linea Morgan). 

Veronica e Kristian Keber

Per capire meglio il concetto di vignaioli di confine Kristian ha voluto farmi un esempio assolutamente calzante: ”In questo momento – racconta Keber - ci troviamo a Zegla, frazione di Cormons, Italia, mentre laggiù, a Medana, a circa tre chilometri da qua, sulle colline del Brda sloveno, ho l’altra mia azienda dove gestisco i vigneti ereditati dal nonno. Per comprendere meglio il paradosso, se fossimo ad esempio in Francia, io avrei due aziende, su due Stati diversi, che fanno riferimento allo stesso Cru, Zegla, visto che il comune censuario di questi vigneti, localizzati in Italia, fa ancora riferimento a Medana quando era sotto l’Austria…...”. 


Questa terra, unica, che solo guerre e politica hanno potuto dividere, ha un altro fattore comune che rende speciale il terroir del Brda sloveno e del Collio Friulano: la matrice del suolo. Qua, infatti troviamo la ponca (opoka in sloveno) che altro non è che un impasto di marna (argilla calcarea) e arenaria (sabbia calcificata) stratificatesi nel corso dei millenni. Un terreno, pertanto, ricco di sali e microelementi, dal quale la vite riesce a estrarre sostanze che conferiscono ai vini una intensa mineralità di fondo. 

La ponca

Piove, con Kristian non riusciamo a girare tra i vari terrazzamenti dove sono coltivati, attualmente, circa 12 ettari di vigneto, con piante anche di 80 anni, divisi tra ribolla gialla, malvasia istriana, friulano accanto a pochissime piante di merlot. 


Sulla conduzione agricola della sua azienda Kristian ha pochi dubbi: ”Oggi tutto è gestito secondo i principi biologici e biodinamici ma, col tempo, vorrei gestire tutto secondo il principi della permacoltura e dell'agricoltura del non fare di Masanobu Fukuoka creando un vigneto sinergico i cui principi si basano su quattro pilastri ovvero nessuna lavorazione della terra, nessun concime chimico o compost, nessun uso di diserbanti nè erpici e impiego di prodotti chimici”. L’idea di fondo è far diventare la sua azienda vinicola una vera e propria fattoria agricola, come ai tempi del nonno, dove la vite convive con gli alberi da frutto, gli ortaggi e gli animali formando una sorta di micromondo rurale dove ogni elemento è funzionale all’altro. 


Ci ripariamo dalla pioggia in cantina dove la vinificazione è molto semplice è tradizionale “L’uva – racconta Kristian – viene raccolta viene pressata a grappolo intero per preservare le ossidazioni in pigiatura, di seguito il mosto viene decantato e posto nelle vasche di cemento dove avviene la fermentazione con lieviti non selezionati. In tali contenitori il vino si affina ulteriormente almeno 5 mesi mentre la parte restante evolve in contenitori di rovere da 4 ettolitri tanto per fornirgli un carattere più marcato”.  


Contrariamente a molto altri colleghi dei Keber la cui gamma di vini aziendale prevede tantissime referenze, l’azienda oggi produce un solo, grande, vino ovvero il Collio Bianco, blend di ribolla gialla, malvasia istriana e friuliano, che la famiglia considera una perfetta sintesi del territorio, un vero e proprio Grand Cru del Collio che ha avuto una genesi abbastanza travagliata.


Molto travagliata – sottolinea Kristian – e tutto è iniziato a metà anni ‘80 quando mio papà Edi era a cena con alcuni ospiti uno dei quali, dovendo partire il giorno dopo, richiese un souvenir del Collio. In casa c’erano tanti grandi vini ma nessuno di questi rappresentava al 100% la nostra Terra. Da quel momento in poi mio padre decise che era il momento giusto per portare avanti un progetto che già aveva in mente. Da quattro vini (2 bianchi e due rossi) che si producevano fino al ‘95, l’anno dopo decise di dare un primo taglio dando vita solo a due bianchi, un Tocai in purezza e Collio bianco dove vi era un uvaggio di tocai, ribolla gialla, malvasia con piccole percentuali di pinot grigio e pinot bianco. Poi, nel 2008, la svolta decisiva: Edi Keber produce un unico vino, il Collio Bianco, essenzialmente da uve friulano, con la classica K in etichetta” 


L’unica eccezione a tutto questo riguarda una piccolissima produzione di merlot in purezza, circa tremila bottiglie, che viene prodotto solo bella grandi annate. In commercio attualmente si trova la Riserva 2016.  


Il tempo che mi rimane dopo questa lunga chiaccherata con Kristian non è tantissimo, abbiamo solo il tempi di degustare due vini: 


Edi Keber – Collio 2018
(friulano, malvasia istriana e ribolla gialla): quando un blend come questo sa di territorio c’è poco da fare, emoziona e rizza i peli sulle braccia grazie ad un perfetto mix dove le spezie orientali donate dalla malvasia istriana si fondono con la struttura del friulano e il dinamismo e la personalità della ribolla gialla. Al gusto il vino esalta il palato per la sprizzante sapidità e per un finale dove la polpa della frutta bianca avvolge il cavo orale mantenendosi persistente per molti minuti. Un vino assolutamente giovanissimo che potrà dare soddisfazioni per almeno due lustri. 


Kristian Keber – Brda 2017
(Ribolla Gialla 50%, Friulano 40%, Malvasia Istriana 10%): a Medana, a due passi da Zegla e dalla casa paterna, Kristian gestisce la sua azienda e questo vino può essere definito, anche dal colore giallo intenso, come una sorta di orange wine visto che la  macerazione avviene a uva intera-raspo per 5 mesi durante la fermentazione alcolica spontanea in vasche di cemento. Un affinamento di due anni in grandi botti di rovere ed un altro anno di bottiglia e il vino è pronto per essere degustato e la 2017 è l’ultima annata in commercio. Non pensate a questo vino come uno dei tanti macerati “pesanti” che si trovano in giro, Kristian è un grande talento e un perfetto equilibrista in quanto il vino risulta assolutamente leggiadro esplodendo in note di erbe aromatiche, agrumi e sale. Sorso intenso, dove volume e senso della misura sono dannatamente proporzionati così come il finale di bocca che regala armonie tattile di grande personalità. Bravo Kristian!

Anteprime Toscane rinviate a Maggio 2021

È stata rinviata a maggio 2021 la settimana delle Anteprime di Toscana. L’appuntamento più noto e stimolante con le eccellenze del vino toscano, che tradizionalmente ha luogo nel mese di febbraio, slitta a primavera a causa dell’emergenza sanitaria. 


A dare la notizia è stata la vicepresidente e assessore all’agricoltura Stefania Saccardi, d’intesa coi Consorzi di tutela dei Vini Toscani DOCG/DOC/IGT, riuniti nell’associazione AVITO. “Era impensabile annullare nel 2021 le Anteprime di Toscana, che da sempre rappresentano il momento clou in cui il sistema vitivinicolo toscano, vera spina dorsale dell’intero comparto agricolo regionale, si presenta ai mercati e ai media internazionali con le nuove annate - ha precisato la vicepresidente Saccardi - soprattutto in un momento come questo, in cui la promozione può costituire una leva formidabile, se non per aumentare, almeno per mantenere posizioni sui mercati internazionali”. In particolare, le nuove date fissate per l’evento vanno dal 14 al 21 maggio 2021 e vedranno il susseguirsi delle presentazioni dei vini e dei Consorzi delle principali denominazioni di origine della regione. 

“Non tutto il male viene per nuocere - ha ribadito il presidente di AVITO, Francesco Mazzei - i mesi primaverili sono infatti il periodo ideale, non solo per degustare vini più pronti, ma anche per far vivere e visitare gli splendidi territori del vino nel loro massimo splendore a tutti gli ospiti che auspichiamo di poter accogliere, numerosi, in Toscana”. La kermesse, organizzata dalla Regione Toscana, Camera di Commercio di Firenze e dai Consorzi, vede la partecipazione di molti giornalisti nazionali ed internazionali e coinvolge in modo itinerante un po’ tutti i territori della Toscana. “Con un’annata che in vigna è stata eccezionale, siamo certi che i nostri viticoltori sapranno esprimere vini altrettanto eccellenti - continua l’assessore - e questa sarà la risposta più convincente del mondo del vino toscano a qualche maldestro tentativo di frode a cui le nostre griffe sono ogni tanto soggette, e che proprio grazie alla serrata collaborazione dei Consorzi e degli Organismi di controllo, riusciamo a stanare”. 

Fonte: Regione Toscana - Ufficio stampa


Ormanni - Chianti 2018


di Carlo Macchi

Ormanni è una delle mie cantine del cuore ma questa volta ha sorpreso anche me. Chianti (non Chianti Classico!) 2018: mix di fresca bontà con frutta rossa a fiotti e corpo adeguato dotato di tannini importanti ma rotondi. 


Piacevolissimo e pensate che costa molto meno di 10 euro… siete già in auto?

La Romagna mangereccia è di casa presso La Baita di Faenza


di Carlo Macchi

L’ingresso è a dir poco minimalista e se non fosse per gli adesivi delle varie guide che riempiono la più semplice porta del mondo nessuno potrebbe pensare che dentro vi sia un luogo che vale il viaggio, anche dalla mia Toscana. 


Ma andiamo con calma: apri la porta e un grande banco frigo, pieno di salumi e formaggi (roba seria!) attira inevitabilmente lo sguardo che, dopo un attimo di “assuefazione”, può anche spaziare sul bendiddio che si trova negli scaffali di questo che sembra, anzi è, anche un fornitissimo negozio di specialità alimentari. Ma siamo appena all’inizio del nostro viaggio tra stanze, stanzine, stanzone, stanzette, qualcuna rigorosamente arredata da un numero incredibile di bottiglie di vino. 


La saletta centrale è praticamente una fornitissima enoteca dove puoi sederti a mangiare allungando le mani su una serie infinita di ottime bottiglie, le altre sono spazi neanche tanto spartani e ben congegnati, dove l’apparecchiatura con tovaglietta di carta serve solo a sottolineare il credo di Palmiro Gangini, meraviglioso sindaco romagnolo impersonificato da Paolo Cevoli: “Fatti, non pugnette!” 


Siamo in Romagna, a Faenza
e La Baita di fatti ne mette in tavola a bizzeffe. Il negozio di specialità alimentari c’è sempre stato ma diversi anni fa il compianto Roberto Olmeti prese la palla al balzo ampliandolo e trasformandolo in un locale tra i più centrati che io conosca. Oggi dirige le danze la signora Rosanna assieme al figlio Fabio e la proposta parte da un’infinita serie di salumi e formaggi per arrivare ai piatti caldi, che mi piace definire dei “concreti svolazzi di piacere”. Infatti i piatti serviti alla Baita partono dalla concreta tradizione, anche quella del quinto (e quasi sesto) quarto per essere proposti con leggiadria (ma per fortuna non con leggerezza). 
Ti ritrovi così a mangiare, come antipasto, una frittata di porri e pancetta di mora romagnola e come primi delle Tagliatelle ai 24 rossi con rognoncini di vitello e limone oppure una lasagna bianca con cicoria e ragù di pancia di pecora. 


Tra i secondi non può mancare il Cotechino con salsa verde e purè ma la mia scelta è andata sulle polpette di trippa e cicorino selvatico, mentre l’altro commensale si è sbafato la guancia brasata al sangiovese con castagne di Marradi e tartufo nero. 


Attenzione, alla Baita si può andare (la stragrande maggioranza lo fa) a mangiare anche un solo piatto oppure a farsi fare un panino, ma se avete un po’ di tempo (non molto, il servizio è celere) vi conviene gustare almeno due piatti e non fatevi impaurire dagli ingredienti; la mano è leggera e la digestione tranquilla. Naturalmente è curatissimo l’asporto, che in tempi come questi è basilare. 


Ma veniamo ai vini, che sono una delle attrazioni di questo locale: Ronnie Asioli cura la selezione, con proposte che coprono l’universo mondo e hanno tutte la caratteristica di essere proposte con ricarichi da enoteca con prezzi bassi. 


Basso sarà anche il prezzo finale: con un piatto e un calice di vino puoi arrivare a 15-18 euro, mentre facendo un pranzo completo (per esempio il nostro: tre persone, tre piatti a testa, due bottiglie!) ti piazzi attorno ai 45 euro. 
Insomma, invece di andare a cercare una baita in montagna per mangiare bene, fate un salto a Faenza e troverete la Baita dei vostri sogni.


Osteria ristorante la Baita, Via Naviglio 25/C , Faenza (RA) 

Tel. 054621584 


SanVitis: bere bene con i vini del Lazio!

E’ passato più di un anno da quanto scrissi per la prima volta di SanVitis. Ero appena tornato dal Vinitaly 2019 e rimasi abbastanza sorpreso, piacevolmente, di questa piccola azienda del Lazio che, passo dopo passo, grazie anche ad una buona campagna di comunicazione, stava emergendo nel panoramica vitivinicolo della mia Regione. 
Il progetto, nato nel 2015 dalla passione per il vino di tre amici, ovvero Sergio Tolomei, Massimo Orlandi e Riccardo Bani, tutti provenienti da settori completamente diversi, ha come fine ultimo quello di valorizzare il più possibile un territorio, quello compreso tra i Castelli Romani ed Olevano Romano, da sempre rappresentativo di una cultura e di una potenzialità vitivinicola che, se combinate ed espresse al meglio, possono contribuire alla produzione di eccellenze che tutto il mondo potrebbe invidiarci. 

Sergio, Riccardo e Massimo

Arrivare a perseguire questo obiettivo non è affatto semplice, anzi, ma SanVitis ci sta provando grazie ad un costante lavoro di selezione di soli vitigni autoctoni come, ad esempio, il bellone, la passerina ed il cesanese che vengono coltivati e vinificati attraverso pratiche assolutamente naturali e rispettose del territorio di origine.


Se è vero che nell’areale dei Castelli Romani, tra Ariccia ed Albano, l’azienda coltiva circa cinque ettari di vitigni a bacca bianca come malvasia di Candia e trebbiano giallo, è anche vero, ed è giusto sottolinearlo, che è ad Olevano Romano il cuore produttivo della SanVitis che in questa zona gestisce gli altri sette ettari di vitigni in produzione.  
In Contrada La Torre, infatti, su terreni rossi di matrice vulcanica si coltivano bellone, passerina, petit verdot, cabernet sauvignon e, soprattutto, si gestisce un ettaro di cesanese grazie ad un vecchia vigna di 50 anni tramandata da generazioni. 


La cantina, da sempre, è il regno di Daniele Proietti, enologo, che attraverso fermentazioni spontanee e l’abolizione di prodotti di sintesi ha il compito di ricercare la massima naturalità dei vini fornendo loro gli stessi caratteri dell’uva di partenza e, quindi, dell’annata di riferimento. 


Negli ultimi tempi, essendo quello di SanVitis un progetto assolutamente giovane e dinamico, ci sono stati degli aggiustamenti nella gamma dei vini prodotti ovvero sono nate due nuove etichette, la Passerina in purezza e il Flaminio Rosso mentre il Trebbiano, che prima aveva una propria etichetta, ora confluisce tutto nel Flaminio Bianco al fine di aumentare la complessità di questo blend di sole uve autoctone del centro Italia. Altre novità riguardano anche il Bellone le cui uve, dall’annata 2019, provengono solamente dall’areale di Olevano Romano e non più dai Castelli Romani. 


Di seguito le mie note tecniche relative alle annate attualmente in commercio dei vini di SanVitis: 

Passerina 2019 (100% passerina): da uve provenienti esclusivamente dall’areale di Olevano Romano, questa prima annata di passerina in purezza ha nelle pennellate aromatiche di agrumi, pesca bianca e mineralità gessosa l’impronta del suo territorio e nella bocca agile e succosa il talento di questo vitigno troppo spesso sottovalutato. Ne esce un vino sagace, fresco, saporito e dal fascino peculiare. Nota tecnica: malolattica svolta naturalmente. 8 mesi di affinamento in vasche d’acciaio. 


Bellone 2019
(100% bellone): da vitigno antichissimo che già Plinio in epoca romana citava come uva pantastica, nasce un vino di grande luminosità dove la percezione, assolutamente verticale, di frutta bianca croccante, pompelmo rosa, biancospino ed erba medica segnano un vino dal gusto freschissimo, dissetante, di grande beva e vitalità. Nota tecnica: malolattica svolta naturalmente. 8 mesi di affinamento in vasche d’acciaio. 


Flaminio Bianco 2019
(trebbiano giallo, passerina, malvasia di Candia non aromatica): questo blend svela subito una bella gamma di profumi che vanno dalla camomilla romana alla susina e nespola, al mughetto e al lime. Al gusto è misurato, in perfetta sintonia con l’olfatto, e si fa apprezzare nel finale per una intrigante scia sapida, quasi ferrosa, che lascia nel palato una traccia indelebile del territorio di elezione di queste uve: i Castelli Romani e i suoi suoli vulcanici. Nota tecnica: malolattica svolta naturalmente. Affinamento sulle fecce fini per tre mesi e ulteriori tre mesi in vasche di acciaio. 


Cesanese 2017
(100% cesanese): questo Cesanese di Olevano Romano DOC, proveniente da piante di almeno 50 anni di età piantate su argille rosse vulcaniche, si caratterizza per la forte mineralità rossa che dipana l’impianta olfattivo che, col tempo, svela toni di prugne secche, ciliege sotto spirito, rosa appassita, rabarbaro, spezie rosse orientali. Al palato sfodera personalità sapida ed una ottima struttura dove i tannini sono ben fusi all’interno. Persistente ed elegante il finale. Ad oggi uno dei migliori rossi del territorio! Nota tecnica: affinamento di 12 mesi in botte da 2000 litri di rovere di Slavonia e altri tre mesi in acciaio. Va in bottiglia due primavere successive la vendemmia. Segue ulteriore affinamento in bottiglia per sei mesi. 


Flaminio Rosso 2018
(cesanase 60%, cabernet sauvignon 20%, petit verdot 20%): quest blend, vero e proprio matrimonio d’amore tra tradizione ed modernità, apre su decise note di grafite ed amarena, che virano poi verso la mora, la viola appassita, il lentisco e i chiodi di garofano. Palato che convince per coerenza ed equilibrio, propone una morbida struttura tannica con ottimale concorso sapido. Chiusura intensa, vivace, su note di frutta rossa succosa e decisa mineralità. Nota tecnica: affinamento di 12 mesi, di cui i primi 6 in acciaio, il resto in botte grande. Le vinificazioni vengono condotte
in modo separato per poi assemblare il tutto. Segue un ulteriore affinamento in bottiglia per sei mesi.