Luigi Tecce e il mito del suo Poliphemo 2006 in Magnum

di Luciano Pignataro

La Cabala nel vino. Se ne parla in genere quando si fa riferimento alle annate, le coppie pari e quelle dispari, oppure la stessa annata di diversi decenni: quante volte vi sarà capitato di sentirlo? La 2014 ricorda proprio la 2004, oppure l'alternanza delle annate piovose e siccitose. C'è in questo ciò che resta di magico nella matematica dei numeri che da sempre hanno avuto un significato esoterico per l'uomo: nonostante vengano usati per dare ordine alla realtà sino a decidere spudoratamente del nostro tempo, spesso e volentieri sono la porta dell'irrealtà. 

Come spiegare allora che mi ritrovo a parlare di Poliphemo 2006 dieci anni dopo? Non c'era premeditazione, ho deciso che era il vino del mio turno dopo aver attinto ad una delle 100 magnum, la numero 28 per la precisione messa generosamente a disposizione da Luigi Iavarone, giovanissimo patron del Trifolaio, una splendida trattoria in quel di Summonte dove vivono e lavorano due signori del Fiano di Avellino, Guido Marsella e Ciro Picariello. 

Luigi Iavarone

Qui abbiamo fatto un pranzo di altri tempi e fra i tanti vini provati e mangiati, avevo proprio deciso di parlare del Taurasi di Tecce, un vino che accompagnammo con entusiasmo sia dalla sua nascita, precisamente un debutto a Rocca san Felice nel marzo 2013, dieci anni fa, poco lontani dalla Mefite, un sfogo di gas letale da cui bisogna stare ben lontani per evitare di fare la fine degli animali che l'anno attraversata improvvidamente trovando morte certa e istantanea. Uno sbocco degli inferi, sicuramente. E, sempre dieci anni fa ne parlammo, proprio della 2006, in questa rubrica che allora oltre me e Carlo vedeva Ziliani come terzo partecipante. Ne è passato di vino nelle botti! 

Prevedemmo mirabilie in quegli articoli 

Ed ecco dunque, dopo dieci anni che torniamo a parlarne. Come tutti i montanari, gli irpini sono sostanzialmente anarcoidi indisciplinati e bastian contrari ma se dovessi individuare due figure che davvero si sono distinte in questa rinascita dell'enologia in queste colline difficili e silenti, non avrei dubbi: Antoine Gaita per il Fiano e Luigi Tecce per il Taurasi. Personalità complesse ma semplici al tempo stessi, che hanno avuto un rapporto con il vino da loro prodotto maniacale, pignolo, ossessivo. Due personalità vere, non costruite, abbastanza rompicoglioni per discettare di tutto a prescindere ma altrettanto colte ed educate da saper accettare il confronto e saper ascoltare. 

Luigi Tecce

L'ultima vendemmia di Antoine è del 2013, mentre per fortuna Luigi Tecce continua a regalarci annate straordinarie. Il suo non è il vino più buono, non è il migliore, ma è quello che ha più carattere. In una parola, si ricorda. Presuppone concentrazione prima di essere affrontato, ogni annata ha una storia a sé stante e la sua capacità di capire il frutto prima ancora del vino è affidata alla sua sensibilità. La sensibilità di chi sa cucinare molto bene e conosce la materia, i prodotti, perché io credo che per fare un grande vino bisogna avere un grande palato, la memoria di cose buone, non solo bevute a anche mangiate. 

Tecce e le sue vigne. Foto: Portovinoitaliano.it

L'edizione 2006 nasce dal suo rapporto stretto con Vinicio Capossela, e, per chi ancora non lo sapesse, il nome Poliphemo è proprio ispirato ad una sua composizione. I due anarchici del vino e della musica ne hanno fatto di zingarate in giro per l'Italia partendo dal Formicoso, un altopiano che ammaglia l'Irpinia alla Daunia in cui lo spirito diventa libero. Di questa 2006, con l'etichetta disegnata dall'artista, si è deciso dunque di fare cento Magnum. 

Ora, fatte queste premesse, cosa volete che vi possa raccontar del vino? 


Partiamo da due elementi che lo caratterizzano:
la strepitosa freschezza, dieci anni per un Aglianico sono un batter di ciglia, non parliamo poi delle vigne a Trinità di Paternopoli coltivate a raggiera che regalano appena una trentina di quintali ad ettaro di resa. Si, avete capito bene, il vino è ancora giovane, a cominciare dal colore rosso rubino.  Il secondo elemento è la mutevolezza del bicchiere, tipica dei grandi vini. 


In uno degli articoli su questa annata ho, felicemente, paragonato questo vino a Cassius Clay, una massa muscolare enorme e tuttavia agile, capace per tutto il tempo di saltellare attorno all'avversario e ogni tanto colpirlo. Ciliegia purissima, carruba, fumè, china, arancia, cuoio fresco. E potremmo continuare ancora per molto con i mirtilli, il fogliame d'autunno, il caffè, il sentore di tostatura, etc etc. 
Un naso che resta ogni volta spiazzata da un nuovo sentore ma dominato, ancora, dalla frutta croccante che immediatamente si ritrova al primo sorso. L'esplosione è immediata, prima l'acidità che ben predispone, disseta, poi la sensazione di calore, poi le note di frutta. Una beva complessa che monta sino a distendersi improvvisamente in un finale lunghissimo, decisamente amaro, preciso, che ripulisce il palato e lo predispone ad una nuova beva. Un vino che non conosce limiti nell'abbinamento ma che adesso, dopo dieci anni, ha finalmente almeno i tannini addomesticati anche se non domi e ancora ficcanti. 

Ritroviamo così, dopo dieci anni, il nostro entusiasmo per queste vigne al confine tra Paternopoli e Castelfranci, sul cocuzzolo dell'areale docg del Taurasi.

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