Se si continua così avranno ragione tutti quelli che sostengono che la Rete non è una fonte attendibile di informazioni.
Se si continua così, ovvero a far scrivere di vino chi non ne sa nulla, la cultura nel nostro Paese farà sempre più ridere.
Ieri su Repubblica.it, all'interno del blog Pane Nostrum, è stato scritto questo in merito all'Aglianico. Trovare gli errori è abbastanza facile e divertente.
Dicono che sia il Barolo del sud, ugualmente elegante, rapinoso e allergico all’istituto della pronta beva. Una creatura enologica per nulla semplice, roba per esperte mani contadine, nasi sapienti e palati esperti. Perché l’Aglianico è come un purosangue, che non sai mai fin dove spingerti a domare. Può disegnare un arco armonico fra testa e collo, chiudendo il profilo come un cavallo ammaestrato, e un attimo dopo impennarsi, ribelle per noia o cattivo polso del cavaliere.
Non a caso, la sua terra è terra vulcanica. Non proprio l’antro della fattucchiera Amelia e del fido Gennarino di disneyana memoria, ma comunque le zolle scalpitanti e minerali che abitano le alture dell’Irpinia. Dove l’Aglianico dà il meglio di sè, con tanto di ventennale Docg dedicata, l’unica a bacca rossa della Campania: si chiama Taurasi, come il nome di uno dei diciassette comuni avellinesi autorizzati alla produzione, fortunatissimi al di là del numero scaramantico, se solo per questo rosso profondo è stata coniata la definizione che lo assimila al re dei vini (o vino da re).
Non a caso, la sua terra è terra vulcanica. Non proprio l’antro della fattucchiera Amelia e del fido Gennarino di disneyana memoria, ma comunque le zolle scalpitanti e minerali che abitano le alture dell’Irpinia. Dove l’Aglianico dà il meglio di sè, con tanto di ventennale Docg dedicata, l’unica a bacca rossa della Campania: si chiama Taurasi, come il nome di uno dei diciassette comuni avellinesi autorizzati alla produzione, fortunatissimi al di là del numero scaramantico, se solo per questo rosso profondo è stata coniata la definizione che lo assimila al re dei vini (o vino da re).
Non solo una questione di terra, ma anche di aria e acqua: detesta caldo e siccità, la vite che resiste (quasi) impavida a oidio e peronospora, le pesti della vigna, permettendo di ridurre al minimo – o addirittura azzerare – gli interventi chimici. Spigolosa eppure malleabile, se è vero che scollinando tra Beneventano (Aglianico del Vulture Superiore Docg), Basilicata (Aglianico del Taburno Docg) e Molise, e spingendosi poi giù fino alla Puglia – dove domina la doc Castel del Monte – sa adattarsi quanto basta a metter radici e rendersi preziosa nelle produzioni vinicole della zona.
Una robustezza genetica millenaria: l’uva approdata in Meridione grazie ai Greci con il nome di Ellenikon (la doppia elle venne mutata in “gl” dalla fonetica spagnola, durante la dominazione aragonese del XV secolo), infatti, ha attraversato la storia della viticoltura, risplendendo fin dai tempi dei Romani, che l’avevano adottata per realizzare il mitico Falerno, esempio di doc ante litteram, capace di associare solidamente per la prima volta vino e territorio (le falde del monte Massico).
La pratica di enologi e vignaioli non consente margini d’errore: l’Aglianico pretende dosi generose di sapienza, pazienza e sensibilità, perché l’assemblaggio di tannini esplosivi e acidità ben presente fuoriescano dalla bottiglia con la soavità maestosa di un genio della lampada. Solo a queste condizioni, nel calice si mostra vellutato e intenso, profumato di prugna e marasca, eppure così fine che i degustatori lo avvicinano senza bestemmiare il dio dei vini ai grandi di Borgogna.
Per anni, inseguendo i miti di muscolarità e giovanilismo, molti vignaioli hanno costretto i vini a disvelarsi prima di essere pronti, come ragazzini spinti controvoglia sulla passerella. Proprio come il fratello langarolo, invece, l’Aglianico incarna l’elogio della lentezza, a partire dalla maturazione: pur senza chiamarsi Nebbiolo (l’uva-madre del Barolo) ha bisogno di rabbrividire per concedersi alla forbice dei raccoglitori. Organizzate una gita sulla dorsale campana nelle prossime settimane e andate a visitare le aziende che aderiscono a ”Cantine aperte in vendemmia” (Movimento Turismo del Vino): tra un’insalata col pane cafone e un bicchiere di buon vecchio Aglianico, l’autunno sarà davvero magico.
Una robustezza genetica millenaria: l’uva approdata in Meridione grazie ai Greci con il nome di Ellenikon (la doppia elle venne mutata in “gl” dalla fonetica spagnola, durante la dominazione aragonese del XV secolo), infatti, ha attraversato la storia della viticoltura, risplendendo fin dai tempi dei Romani, che l’avevano adottata per realizzare il mitico Falerno, esempio di doc ante litteram, capace di associare solidamente per la prima volta vino e territorio (le falde del monte Massico).
La pratica di enologi e vignaioli non consente margini d’errore: l’Aglianico pretende dosi generose di sapienza, pazienza e sensibilità, perché l’assemblaggio di tannini esplosivi e acidità ben presente fuoriescano dalla bottiglia con la soavità maestosa di un genio della lampada. Solo a queste condizioni, nel calice si mostra vellutato e intenso, profumato di prugna e marasca, eppure così fine che i degustatori lo avvicinano senza bestemmiare il dio dei vini ai grandi di Borgogna.
Per anni, inseguendo i miti di muscolarità e giovanilismo, molti vignaioli hanno costretto i vini a disvelarsi prima di essere pronti, come ragazzini spinti controvoglia sulla passerella. Proprio come il fratello langarolo, invece, l’Aglianico incarna l’elogio della lentezza, a partire dalla maturazione: pur senza chiamarsi Nebbiolo (l’uva-madre del Barolo) ha bisogno di rabbrividire per concedersi alla forbice dei raccoglitori. Organizzate una gita sulla dorsale campana nelle prossime settimane e andate a visitare le aziende che aderiscono a ”Cantine aperte in vendemmia” (Movimento Turismo del Vino): tra un’insalata col pane cafone e un bicchiere di buon vecchio Aglianico, l’autunno sarà davvero magico.
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