di Roberto Giuliani
La storia di Podere Le Ripi è indubbiamente particolare, basti pensare che fino al 1998 quel luogo che domina sul fiume Orcia era composto da 60 ettari di foreste, vigneti e ulivi, ci abitava un pastore, punto.
Un giorno, un fotografo naturalista, che già dal 1984 si era fortemente appassionato del territorio montalcinese, decide che non gli basta più fare il fotografo, vuole fare vino! E lo vuole fare proprio a Podere Le Ripi, a modo suo, secondo la sua visione. Sto parlando di Francesco Illy, che con il suo occhio esperto si è reso conto di avere trovato un territorio incontaminato, con ulivi secolari e fiori e frutti dimenticati, un trionfo di vita di cui la natura si era riappropriata con vigore.
E in un luogo del genere ci volveva rispetto, bisognava garantirne la purezza, il fascino, così da subito si è operato in biologico e biodinamico, tutto è stato fatto tenendo ben presente il minor impatto ambientale possibile; la cantina è stata concepita dopo un attento studio rivolto al passato e costruita con mattoni di argilla e malta di calce, senza uso di cemento, seguendo la sezione aurea e rifacendosi a opere come Stonhenge nello Wiltshire in Inghilterra, il Partenone di Atene e il Palazzo del Segretariato delle Nazioni Unite a New York. Ci ha pensato il figlio Ernesto a progettarla, sette anni di lavoro finito nel 2015, che ha comportato l’utilizzo di 750mila mattoni d’argilla e la sola malta di calce per fissarli, tutti rigorosamente a mano. Solo le fondamenta sono di cemento, imposto dalla legge, ma tutte i fili in ferro sono stati opportunamente isolati, per evitare qualsiasi rischio di campo magnetico. All’interno un’area circolare con una pendenza studiata nei minimi dettagli, in modo da favorire il processo produttivo dall’alto verso il basso. La fermentazione in alto, l’affinamento in basso, per fare in modo che i travasi avvenissero per gravità.
I vigneti sono frutto di sperimentazioni continue, fino all’incredibile Bonsai, il più fitto del mondo con i suoi 62500 ceppi per ettaro, praticamente piante affiancate in continua competizione (solo 40 cm. una dall’altra); lo scopo non era certo quello di ottenere il guinness dei primati, ma spingere le piante a radicarsi in profondità in tempi brevi, invece di dover aspettare decenni, con un’incidenza di mortalità che non ha superato l’8%.
Il parco vigneti occupa 34 a Castelnuovo dell’Abate, dove risiede la cantina, ma ripartito fra il versante sud-est (che è quello storico) e il versante ovest. Il sangiovese si prende oltre 30 ettari, la restante parte è ripartita fra syrah (1 ettaro), trebbiano e malvasia (3 ettari).
Oggi l’azienda è affidata a un team di giovani, molti dei quali lavorano a Podere Le Ripi già da anni: Sebastian Nasello (capo enologo e amministratore delegato), Alessandro Riccò (agronomo), Giulia Barcucci e Chiara Uliano (ospitalità e accoglienza), Felicia Carrara (contabilità), Martina Di Paola (rapporti con i clienti), Matteo Mitch Melfi (esperto di vigna, in particolare del Bonsai), Gabriele Grazi (sales manager), più un’altra decina di ragazzi tutti assolutamente indispensabili.
La Riserva Lupi e Sirene 2016 nasce dal vigneto omonimo, che ha raggiunto i 25 anni di età, allevato ad alberello con una densità di 11000 piante per ettaro, su suolo composto da marna bruna, leggermente alcalina con scheletro granitico. La raccolta è stata effettuata a fine settembre, la fermentazione è spontanea con lieviti indigeni (non potrebbe essere altrimenti!), con la macerazione arriva a 50 giorni in tini di legno aperti. Nella fase iniziale l’80% della fermentazione è accompagnata da rimontaggi aperti, mentre negli ultimi giorni si passa al cappello sommerso.
Il vino matura 36 mesi in botti grandi di rovere e 1 anno in cemento, infine affina in bottiglia per 16 mesi. Dalla 2016 sono state ottenute 15.290 bottiglie di questo cavallo di razza che mi ha fortemente impressionato durante una degustazione in azienda effettuata nel novembre scorso, al punto di convincermi ad acquistarne un esemplare.
Una Riserva davvero superba, figlia di un’annata fra le migliori degli ultimi vent’anni, dal colore rubino luminoso con riflessi granati, di giusta trasparenza; bouquet subito generoso e intenso, dall’impatto boschivo, di macchia mediterranea, che si fonde a una ciliegia di cui sembra già percepibile la succosità, accompagnata da effluvi di timo, arancia rossa, venature ematiche e ferrose, richiami al corbezzolo e alla susina rossa, a tratti anche terroso.
Al gusto ha già un equilibrio invidiabile, un tannino setoso e perfettamente integrato, quella succosità immaginata all’olfatto emerge con prepotenza affiancata da spezie finissime, con delicati accenti pepati e di liquirizia, in un incedere lungo e complesso. Inutile dire che avrà lunga vita, ma quella in mio possesso non credo che arriverà a domani…