Al Palio delle frittelle c'è un solo vincitore - Garantito IGP

Vorrei preliminarmente rassicurare tutti quelli che, e immagino saranno parecchi, troveranno da ridire su questo articolo, trovandolo parziale e partigiano. Perché, sì: hanno ragione.


Ma per me parlare delle frittelle di San Giuseppe che si fanno a Siena è come parlare delle madeleine proustiane: un tuffo irresistibile nel gusto e nel profumo del passato. Di quelli che, trascorsa l’Epifania, ti fanno contare i giorni nell’attesa che a fine mese le bancarelle cittadine riaprano per le solite, sole sei settimane all’anno. Poi, altri dieci mesi e mezzo di astinenza.


Il loro arrivo – fatte le debite proporzioni - mi ricorda quella stessa, sottile eccitazione che, e i senesi sanno di cosa parlo, immediatamente precede e poi coincide con la “terra in piazza”:  il segno finalmente tangibile che si sta per correre il Palio.
Ecco: il tempo delle frittelle di San Giuseppe è l’ennesima e compiaciuta riscoperta di un imprinting incancellabile. Non solo per me, sia chiaro, ma per chiunque abbia la fortuna di assaggiarle almeno una volta.


Esse non sono però, come la gente ignara potrebbe pensare, delle comuni frittelle di riso. No: le spappolose, aromatizzate con i più bassi sentori e perfino liquori, unte, appiccicose, stucchevoli frittelle di riso cosparse di zucchero a velo le fanno altrove. Quelle sono una specie di dessert da mangiare freddo, col piattino e il cucchiaino altrimenti ci si sbrodola.
Insomma, un altro mondo. Le nostre sono invece dorate e croccanti fuori, cremose e candide dentro. Non colano, non si sbriciolano, non cadono, non si disfano. Anzi, una volta estratte dalla grande padella dove vengono fritte rimangono strettamente legate tra loro, così gli avidi polpastrelli devono brancolare nel cartoccio per afferrarle. E, per mangiarle, nella foga spesso le si prende a brani, con lo zucchero semolato che resta attaccato alle dita per farsi leccare e dopo scricchiola sotto i denti, mentre l’inconfondibile profumo di riso cotto e di scorza di agrumi sale verso le narici, sospinto dal calore della frittella appena estratta dall’olio bollente. Hanno un gusto gentile ma penetrante, una dolcezza prolungata ma non stucchevole, che induce a infiniti bocconi.


Non mi perdo in ricette, che non sono il mio settore (ma chi volesse cimentarsi può trovare istruzioni qui). Dico solo che si fanno con latte, riso, acqua, scorza di limone o arancia e zucchero. E che, salvo preparazioni domestiche, in città le cucinano in diretta e le vendono solo tre baracchini: uno in Piazza del Campo (ai tempi belli, ahimè, erano di più), uno nella zona dell’Acqua Calda, periferia nord-ovest della città, e un’altra in via Massetana Romana, periferia sud. Si tratta di tre gestori diversi, ma producono frittelle comunque e puramente tradizionali, tra le quali non trovo grandi differenze. Tranne il fatto che a comprare le prime ci devi andare a piedi, godendoti però l’incomparabile scenario della Torre del Mangia e il Palazzo Pubblico, mentre a comprare le altre ci vai in macchina e parcheggiando davanti, ma tra i palazzoni grigi di cemento.


Sottolineo quest’aspetto architettonico e ambientale per una ragione precisa: la frittella di san Giuseppe senese va infatti mangiata calda, anzi caldissima, lì per lì, all’aperto, per strada, tirata fuori a mano dal cartoccio, col freddo che morde ed esalta per contrasto le sensazioni. Sporcandosi le dita di zucchero e ustionandosi la lingua. Cosa inevitabile, perché il profumo e l’acquolina in bocca non consentono alternative.


Esperienza tanto notevole da essere consigliabile non solo a chi è di passaggio a Siena: vale il viaggio!

Viticoltori De Conciliis - Bacioilcielo 2017

di Luciano Pignataro

Possibile baciare il cielo con l’Aglianico? Ma soprattutto possibile farlo subito, magari in una bicchierata tra amici che ha il gusto di ridere e innaffiare il cielo. 


Ecco a cosa serve Bacioilcielo 2017, fresco e piacevole, succoso e fraterno.

Frecciarossa - Pinot Nero dell’Oltrepò Pavese DOC Giorgio Odero 2011

di Carlo Macchi

La battuta è stata “Nasce nell’OltreVosne Pavese?” perché una complessità aromatica  ed una setosità tannica di così alto profilo ti fanno pensare alla Borgogna: invece lo fanno in Oltrepò. 


Dovrebbero nominare questo vino Ambasciatore dell’Oltrepò nel mondo, così si capirebbe cosa può nascere in zona.

Oltrepò Pavese: e pur si muove!

di Carlo Macchi

Tranquilli, la riunione annuale di Winesurf che si è svolta in Oltrepò Pavese non è stata così piena di assaggi da farmi credere di vedere un mare dove invece è tutto un susseguirsi di colline.
Il mare a cui mi riferisco non è d’acqua ma di vino e viene prodotto appunto sulle belle colline di questo territorio. Tanto per darvi un ‘idea In Oltrepò ci sono ben 3300 ettari di pinot nero ( Borgogna a parte, praticamente quello di mezza Europa messo assieme) e se ci mettiamo tutte le altre uve, a partire dalla croatina e dalla barbera per arrivare a riesling e moscato gli ettari salgono a più di 11.000. Un vero mare di vigneti che si trasforma ogni anno in una marea di vino.


Qui nascono i problemi, relativi a come controllare questa marea. Per anni semplicemente non è stata controllata e quindi la stragrande maggioranza del vino prodotto era venduto sfuso o se si imbottigliava, spuntava (e purtroppo spunta anche adesso) prezzi bassissimi.

Ma ogni mare che si rispetti, specie quello verde dei vigneti dell’Oltrepò, per essere “solcato” ha bisogno di indicazioni, di esempi: per questo sono fondamentali i fari e oramai in Oltrepò ce ne sono diversi, alcuni anche da molto tempo anche se ben pochi lo sanno.
Un faro che esiste da quasi un secolo è Frecciarossa, cantina “Con un grande avvenire dietro le spalle” mutuando il titolo della famosa autobiografia di Vittorio Gassman. Infatti quando Valeria Radici, titolare dell’azienda, ci ha mostrato i passaggi storici di questa cantina (esportava negli Stati Uniti negli anni Trenta del secolo scorso!) siamo rimasti stupiti del coraggio e della lungimiranza. Poi siamo rimasti stupiti dei vini, che riescono a declinare il riesling, la croatina e soprattutto il pinot nero con affinata maestria.


Il pinot nero dell’Oltrepò Pavese merita un discorso a parte perché è veramente “croce e delizia” di questo territorio. Si parte da vini di basso profilo, anche con importanti residui zuccherini, magari lo si vinifica frizzante, vendendolo a prezzi da realizzo. Così chi vuole fare le cose seriamente, sia spumantizzandolo in validi metodo classico, sia vinificandolo per ottenere le vellutate profondità del vitigno si ritrova a dover scalare montagne di diffidenza: dal mare di vino alle montagne da superare il passo non è breve né facile, però quando assaggi il Giorgio Odero 2011 di Frecciarossa, pinot nero di ampia caratura borgognona, capisci quanto possono dare queste terre al blasone del vitigno.

Non ha grande blasone invece “il demone-angelo Bonarda”, vino che rappresenta tutto il peggio di quello che l’immaginario collettivo del vino di qualità immedesima con l’Oltrepò (frizzante, con zucchero residuo e da bere giovanissimo) ma nello stesso tempo incarna , quando ben fatto, un vino angelico, dove le sensazioni di frutta arrivano a ondate e la bocca è corteggiata in maniera elegante da bollicine fini e da una freschezza che il residuo zuccherino riesce a rendere armonica. Per esempio nella Moranda di Travaglino, cantina che pur puntando moltissimo sul pinot nero non tralascia i i vini base del territorio.
Un territorio che, anche e soprattutto attorno al Distretto del vino di Qualità dell’Oltrepò Pavese (che ringraziamo!), sta cercando di crescere. E un modo per crescere è “La Mossa perfetta”, cioè un marchio che raccoglie una serie di piccoli produttori sul concetto di “Bonarda angelica” e cerca di fare massa per presentare quella che dovrebbe essere la vera immagine di questo vino.


Ne abbiamo degustate diverse è siamo convinti che un vino del genere non possa rimanere nel dimenticatoio, perché unisce piacevolezza a grande adattabilità gastronomica, senza considerare il prezzo incredibilmente interessante.
Se il pinot nero dell’Oltrepò può dare grandi soddisfazioni vinificato in rosso forse è nel metodo classico che può riuscire veramente a sfondare sul mercato. Oramai tutte le cantine di livello hanno bollicine da proporre e molte di tale livello che non sfigurano (anzi!) in confronti con il meglio della produzione nazionale: sto pensando al Notte d’Agosto di Alessio Brandolini, un metodo classico rosé da pinot nero in purezza di grande finezza e complessità, perfettamente a suo agio dall’antipasto al secondo.


A proposito di bollicine, quelle prodotte da Cristian Calatroni ci sono sembrate avere un grande futuro. Probabilmente perché rappresentano una ricerca certosina che parte dai vigneti, privilegiando quote attorno ai 500 metri e terreni particolarmente adatti. Cristian in realtà, come altri produttori di qualità, non va a cercare di piantare dove non c’era vigna ma semplicemente sfrutta vecchi vigneti esistenti. L’azienda è piccola ma ha le idee chiarissime: le sue bollicine tra qualche anno saranno contese tra gli appassionati, ricordatevelo.

Cristian Calatroni

L’azienda della famiglia Calatroni e tante altre piccole cantine, molte riunite attorno al grande faro del Distretto del vino di Qualità, dimostrano che l’Oltrepò Pavese ha al suo interno tutto quello che serve per affermarsi come territorio di alta qualità riconosciuta e finalmente far calmare le pericolose maree al suo interno.

Andrea Occhipinti - Alea Viva Rosso 2016

di Roberto Giuliani

Alea come Aleatico: 15 giorni sulle bucce e fermentazione con lieviti indigeni in piccole botti di cemento. 


Nessun additivo o coadiuvante enologico, poca solforosa. Naso che richiama il bosco, humus, rosa, ciliegia, fragola macerata. Bocca fresca, asciutta, fruttata ma anche pepata. Puro godimento.


www.occhipintiandrea.it

Veggy Garden Bistrot ovvero come mangiare felici mangiando vegano

Premetto subito che né io né i miei familiari con cui ho pranzato domenica scorsa al Veggy Garden Bistrot di via Tuscolana a Roma, siamo vegani. Eppure sia mia moglie che i miei due adorati nipoti hanno apprezzato la cucina di questo accogliente locale in zona Numidio Quadrato.


Doveva esserci anche mia figlia, ma è rimasta vittima di questa maledetta influenza che ti prende allo stomaco, con febbre alta e dolori alle ossa.
Il locale ha aperto nel 2015, una trentina di posti in un ambiente essenziale come ci si aspetta da un bistrot, ma abbellito da festoni colorati a forma di fiore (non a caso si chiama Garden).


Mi sembra giusto sottolineare che non è solo vegan, ma propone piatti quasi totalmente a km zero, che oggi più che mai è una scelta condivisibile.
Una delle caratteristiche del Veggy è di essere aperto a colazione, pranzo e cena, e di offrire menu diversificati durante la settimana, dal martedì al venerdì il pranzo è a buffet (10 euro), mentre la sera, il sabato e la domenica è disponibile il menu completo.
Un menu che ci ha incuriosito non poco, se avessi una capienza superiore avrei provato molte cose, ma sono stato costretto a fare una cernita fra antipasti, primi e secondi.
Nel complesso mi sono sembrati piatti ben preparati e gustosi, le porzioni più che soddisfacenti, i condimenti equilibrati, tutte pietanze rigorosamente a base di alimenti vegetali, ma incredibilmente gustose e aromaticamente persistenti.


Tra gli antipasti abbiamo scelto le verdure pastellate (i nipoti non hanno resistito a chiedere anche le patate fritte), polpettine di verdure miste con curcuma e altre spezie, bruschette “arcobaleno”, ovvero di quattro colori diversi (determinati dalle salse di verdure utilizzate). Tutto molto buono, tanto che non è rimasto nulla di nulla sulla tavola.
La curiosità mi ha spinto inizialmente a provare come primo il Riso del Bosco Magico (integrale con funghi, radicchio e noci), ma purtroppo era terminato (siamo arrivati alle 13.40), pertanto ho ripiegato, si fa per dire, su fettuccine all’amatriciana, consapevole con non poteva esserci il condimento previsto dalla ricetta classica (che fra l’altro vuole i bucatini). Con sorpresa le ho trovate eccellenti, erano preparate con un sugo molto saporito e al posto del guanciale c’era il tofu croccante.


Altro primo perfettamente riuscito il Cuscus di verdure, ceci e olive nere. Lo so, penserete “ma tutte queste verdure non stancano”? Lo credevo anch’io, ma le preparazioni e gli accostamenti sono sempre diversi, a tutto vantaggio di una cucina che non stanca mai.
Fra i secondi quello più particolare e, a mio avviso, non per tutti i palati è il Tofu al Curry di verdure e cocco, una preparazione equilibrata ma dal sapore quasi balsamico dovuto proprio alla presenza del frutto tropicale.


Gli ho preferito gli Straccetti di Lupino saltati alle verdure e balsamico, davvero convincente, una miscellanea stimolante che non stanca neanche dopo numerosi assaggi.
Fra i dolci c’era una vasta scelta e, essendo in 5, abbiamo provato diverse cose, come la Crostata di visciole (impasto friabile al punto giusto e marmellata saporita e poco dolce), la Torta di ricotta vegana al cioccolato e polvere di caffè (questa davvero superba), Tortino al cioccolato, pere e zenzero (abbinamento azzeccatissimo) e Torta Sacher (gli ingredienti sono più o meno gli stessi ma la preparazione è un po’ diversa, anche se altrettanto riuscita).


Modesta ma adeguata la scelta dei vini, per lo più vegan free e zero solfiti.
La Passerina Enoé 2018 di Ciù Ciù si è comportata molto bene con tutti i piatti di verdure, tanto da non esserne rimasta neanche una goccia (bevuta solo io e mia moglie!).
Si poteva chiudere senza il caffè? Certamente no, ma non potevamo non provare almeno un caffè di cicoria, che con sorpresa abbiamo trovato molto simile all’originale, davvero piacevole e con il vantaggio di essere privo di caffeina.


Conto onestissimo, sotto i 30 euro a persona vino escluso (l’acqua è compresa). Vale la pena tornarci, anche per provare i numerosi burger, magari con una buona birra…

Veggy Garden Bistrot
Via Tuscolana 924, Roma (fermata Metro Numidio Quadrato)
Tel. 06 76904531
Chiuso il lunedì

La Visciola - Cesanese del Piglio Priore "Vignali" 2009


Il Vignali, assieme al Ju Quartu e al Mozzatta è uno dei primi Cru di cesanese gestiti in biodinamica da Piero Macciocca e sua moglie. La bottiglia l’ho presa nel 2009 con la promessa di aprirla dopo 10. 


Risultato? Questo vino, posso dirlo pur non essendo un esperto della zona, rappresenta quanto più vicino possa esserci con la Borgogna per sensazioni olfattive e gustative. Un vino elegantissimo e vivo che esprime tutte le potenzialità del territorio e del lavoro di Piero. Strepitoso!