Lo Zabà di Alberto Marchetti è la nostra nuova droga culinaria!


di Stefano Tesi

Mea culpa ma, fino a qualche giorno fa, nulla sapevo del gelataio torinese Alberto Marchetti e tantomeno di certe sue golose produzioni “collaterali”. Poi, durante un pranzo tra amici, l’ospite ha fatto planare in tavola dei barattolini d’un giallo inequivocabile e ha detto: volete risentire i sapori della nonna? 


Snap, snap, snap: i tappi saltano, il cucchiaino entra a fatica nel buco e di colpo mi si rimaterializzano davanti agli occhi non solo i ritratti in chiaroscuro delle amate ave, ma le chicche delle vecchie zie, le merende preparate dalle fantesche, sottane lunghe, crinoline, crocchie, teche piene di ninnoli, mobili scricchiolanti, profumi di spigo e di naftalina, cassetti chiusi da secoli e sportelli cigolanti da cui uscivano liquorini e cordiali d’antan. 
Soprattutto, però, si è materializzato lui: l’inconfondibile, desueto, arcaico zabaione. Il più antico re delle creme, l’esca maliziosa per bambini golosi ed amanti focosi. 


Il profumo è quello classico, te lo rammenti tra mille, intensissimo, con l’uovo, lo zucchero e quella coda d’alcol che subito sapeva (e sa) un po’ d’inebriante e un po’ di proibito. E con esso le domande a cui cercavi di trovare risposte in segreto, ma alla fine facendo sempre prevalere la gola sulla mente: si dirà zabaione o zabaglione, come si trovava in certi ricettari impilati in cucina? O perfino zabajone, con quell’allungo così sabaudo che evocava, almeno a me, l’iconografia di Umberto I? In bocca, che dire? E’ buonissimo, cremoso, lungo, denso al punto giusto, dolce al punto giusto, alcoolico al punto giusto. Insomma una goduria. Stucchevolezza: zero. 


Apprendo che è fatto con uova fresche di galline allevate a terra e col classico marsala, come da tradizione torinese. Ma anche se fosse di preparazione eretica cambierebbe poco, tanto è buono. Scopro che ne esiste una versione più birichina, amaricante, al vermouth bianco chinato. Lo assaggio: fulminato subito anche quello. Solo dopo che i barattoli sono stati ben svuotai da tutti i commensali il perfido amico, uno che la sa lunga, suggerisce di resistere alla tentazione di farlo fuori all’istante e di mettere il vasetto in frigo per servirlo poi, freddo, come dessert, visto che la componente alcolica gli impedirà di congelarsi. 


Così ora per sperimentarlo dovrò aspettare che mi arrivi quello acquistato on line, perché l’intraprendente Alberto ha pure un bell’e-shop dove propone anche tante altre sue specialità. Occhio, però: non mi assumo responsabilità sulla bilancia altrui. Ho già parecchi problemi a tenere sotto controllo la mia. 

www.albertomarchetti.it

InvecchiatIGP: Aganum - Falanghina Campi Flegrei DOC "Vigna del Pino" 2003


di Luciano Pignataro

A dirla tutta, di questa incredibile etichetta abbiamo già parlato, precisamente nel 2014, quando ci sembrò un miracolo il fatto che si potesse bere una Falanghina integra a undici anni dalla vendemmia. Beh, cosa dovremmo dire adesso che ne abbiamo stappata un altra sulla soglia dei vent’anni durante una mirabolante cena da Mimmo De Gregorio allo Stuzzichino di sant’Agata sui due Golfi?  Il miracolo di questo vino, prodotto in poco più di mille bottiglie da uve coltivate nel Comune di Napoli, precisamente ai bordi degli Astroni, uno dei cento vulcani spenti dei Campi Flegrei è nelle mani di Raffaele Moccia, paziente e laborioso viticoltore. 
All’epoca in azienda c’era Maurizio De Simone, un enologo che ha sempre amato la verità nel bicchiere prestandosi volentieri ai piccoli vigneron. E all’epoca Raffaele aveva avviato il lavoro delle vigne paterne nel 1990. Fra i due fu subito amore e i risultati si sono visti nel tempo, anche quando poi Maurizio volò in altri in lidi.
Nel vigneto, passato nel corso degli anni dagli iniziali te a quasi dieci ettari, ormai ben visibile sulla collina cinta dal muro aragonese e borbonico che circonda la foresta degli Astroni, piedirosso, falanghina e altre uve a bacca rossa e bianca.


Maurizio De Simone ebbe l’idea di fare un blend fra una massa lavorata in legno e una in acciaio e nacque appunto Vigna del Pino, a pendant con Vigna delle Volpi da uve Piedirosso. Nel corso degli anni il bianco è cresciuto fino a spiazzare i più sapienti degustatori per la sua incredibile performance. Ricordiamo che parliamo infatti della 2003, una delle annate più calde che la storia ricordi, la prima vendemmia da global warming anche se all’epoca non c’era tutta questa consapevolezza della gravità, ma anche delle opportunità, del problema.

Raffaele Moccia

Una delle ultime bottiglie esistenti arriva così alla nostra tavola e una volta stappata regala nel bicchiere il sole di Napoli addolcito dalla brezza marina del Golfo. Si, perché il sentore di cedro, agrumato maturo, macchia mediterranea, il rimando di idrocarburo profondo e ampio, regala un profilo olfattivo ricco, rilassante, estremamente piacevole. Soprattutto quando passa il tempo per quel po’ di ossigenazione necessaria che rende ancora più tonica e vibrante la bevuta.
Una esperienza incredibile, qualche mese ai vent’anni per una Falanghina a cui nessuno dava un anno di vita quando fu vendemmiata. L’ennesima prova che per bere bene serve soprattutto tanta cultura condita da altrettanta pazienza.

Tenuta San Leonardo - Vigneti delle Dolomiti "San Leonardo" 2017


di Luciano Pignataro

La purezza della frutta delle Dolomiti in questa edizione non facile, gestita alla grande tra vinificazione in cemento e maturazioni in barrique di diversi passaggi. 


Frutta rossa croccante, freschezza, corpo. Già pronto adesso, ma ben disposto ad invecchiare.

Lo stile classico del Siepi di Castello di Fonterutoli alla prova del tempo!


di Luciano Pignataro

La presentazione dell’annata 2020, in commercio da settembre dopo il passaggio alla Place de Bordeaux, è stata l’occasione per fare il punto della situazione di uno dei più famosi vini italiani che hanno fatto la storia negli anni ’90 e che adesso possono considerarsi un vero classico.

Credit: Angolo del Gusto

Il vino prende il nome dalla omonima vigna di circa sei ettari del comune di Castellina in Chianti da una intuizione di Lapo Mazzei che realizzò il blend fra Sangiovese e Merlot nel 1992, giusto trent’anni fa. Siamo fra i 220 e i 310 metri sul mare, un fitto bosco circonda e protegge questa vigna esposta a sud-est, secondo i tipici canoni dell’epoca, i suoli sono scheletrici, calcarei, poveri di sostanza organica e con poca capacità di ritenzione idrica. Insieme all’alberese è presente anche una buona percentuale di argilla. 
Ancora qualche notizia sugli impianti: il Sangiovese è stato piantato nel 1997 e nel 2011 da selezioni massali dei migliori cloni dell’azienda con una densità di 5800 piante per le viti anni ’90 e 6600 per quel del decennio successivo. 

Con Lapo e Filippo Mazzei

Il Merlot è invece presente sin dal 1986, anche in questo caso da selezioni massali dell’azienda. Il vigneto fa parte della proprietà del Castello di Fonterutoli che i Marchesi Mazzei posseggono dal 1435. L’iniziativa di abbinare un’uva internazionale con una autoctona è stata abbastanza comune all’inizio degli anni ’90 da Nord a Sud ed era all’epoca dettata da due motivazioni fondamentalmente: la prima è che sui vari Merlot, Cabernet, Chardonnay c’erano già migliaia di studi che avevano reso comprensibile il comportamento di questi vitigni in campo come in cantina mentre degli autoctoni italiani si sapeva ancora molto poco. Il secondo motivo, più commerciale era quello di dare leggibilità alle uve del Belpaese attraverso il passaporto di quelle estere dando al tempo stesso un tocco di originalità territoriale. Il bilancio di questa tendenza non è stato mai tirato anche perché i comportamenti sono diversi, le percentuali e i protocolli usati variano da cantina in cantina. In generale, possiamo affermare che quando l’unione dei due o più vitigni è espressione di buona agricoltura e buona pratica di cantina, questi vini sono diventati grandi classici. Cito il Montevetrano in Campania e il Gravello di Librandi in Calabria o, per restare Toscana, il 50&50 (nomen omen).

Castello di Fonterutoli

Il protocollo di fermentazione del Siepi è sempre stato lo stesso: al momento il global warming non ha modificato le condizioni pedoclimatiche del vigneto che regala uva perfetta: la fermentazioni in tini troncoconici da 100 ettolitri parte grazie ai lieviti autoctoni. Ovviamente le due uve sono lavorate separatamente, il Sangiovese affina in tonneaux mentre il Merlot in barrique.


La presentazione del 2020 è stata fatta da Nonna Chic a Firenze, le diverse annate sono state accompagnate dai piatti del cuoco stellato Vito Molliva che proprio qui sta per iniziare la nuova avventura. L’azienda, che celebra la chiusura del 2021 con più 45%, era rappresentata, oltre che dai fratelli Filippo e Antonio dall’ultima generazione, la trentaquattresima per la precisione, Giovanni e Lapo, già da tempo al lavoro rispettivamente come responsabili dell’export e direttore commerciale. 

Siepi 2020 

Abbiamo ormai gli anni per sentire dal produttore che l’ultima vendemmia è la migliore, ma nel caso della 2020 non possiamo che essere d’accordo. Ci ha colpito la completezza del vino, dal naso ricco di frutta con freschi rimanda balsamici, al palato vengono mantenute le promesse olfattive. Pieno, di corpo, in assoluto equilibrio, complesso. E anche se ha davanti a se una lunga vita come tutte le versioni precedenti, possiamo dire che stapparlo subito non è un delitto. Siamo convinti che farà strike di premi e riconoscimenti. Le notti fredde di aprile hanno un po’ ridotto la produzione, che alla fine si attesta sulle 29mila bottiglie per un prezzo che sul web oscilla fra i 103 e i 112 euro. 

Siepi 2019 

In precedenza eravamo convinti di aver toccato il massimo proprio con l’annata 2019, attualmente in commercio, definita dalla stessa azienda come classica grazie ad un inverno/primavera sufficientemente piovosi e una estate calda e regolare senza picchi eccessivi. Una annata buona un po’ in tutta Italia. Anche questo Siepi, rosso rubino vivo come il precedente, co ha particolarmente colpiti per essere completo, pronto, elegante, fresco, con una chiusura precisa, pulita e appagante. Una grande bottiglia che può essere stappata anche subito. In produzione 35mila pezzi. 

Siepi 2018

Anche questa annata esprime un vino dalla perfetta corrispondenza fra naso e bocca. Un Siepi maturo, di corpo, di ottima e fine beva, decisamente veloce al palato con un rimbalzo nel finale lungo, pulito. Sentori di frutta rossa croccante e fresca al naso e in bocca, note balsamiche, rimandi di tabacco e macchia mediterranea. Sulle 38mila bottiglie. 

Siepi 2017 

Annata complicata, con una delle primavere più piovose degli ultimi 30 anni, estate con punte di caldo ma anche con improvvisi temporale. Non è stato facile portare la frutta in cantina ma alla fine, grazie alla manualità della gestione del vigneto Siepi, il risultato è arrivato. Rispetto agli altri è più sottile, il naso resta incollato sul frutto rosso, al palato rivela una grande eleganza e finezza che lo rendono piacevole e amabile. Bellissima chiusura. 29.500 bottiglie.

Siepi 2016 

Impossibile, a sei anni dalla vendemmia, parlare del tempo per un vino come il Siepi che nella versione 2016 ha ancora un colore rosso rubino vivo come quelli che l’hanno preceduto. Annata a macchia di leopardo, così è stata definita ma che i Toscana è andata sostanzialmente bene sia Montalcino che nella zona del Chianti Classico. Il vino si presenta agile, freschissimo, elegante, ricco di frutta e di note balsamiche al naso, piacevole la chiusura. Ancora giovane ma pronto per lo stappo. 25mila bottiglie.

Conclusioni 

Il Siepi è uno di quei vini da cui non si può prescindere quando parliamo di vino italiano. Non solo per la costanza e la sua affidabilità nel tempo, ma anche per essere una compiuta espressione di un vigneto. Gioca le sue carte dunque sulla terra più che sul vitigno in quanto tale, una tendenza, anzi, un ritorno, sempre più marcato. Dopo anni in cui si è inseguito il vitigno autoctono come segno distintivo di territorialità, si torna a considerare la terra su cui vengono piantate le viti il vero, e non replicabile, elemento distintivo. Insomma, la perfetta applicazione del materialismo dialettico che alla tesi contrappone l’antitesi per arrivare alla sintesi. Senza scomodare Hegel e i suoi epigoni, un segno di maturità in un mondo del vino ancora incredibilmente, e inutilmente, ideologico.



InvecchiatIGP: Sergio Mottura - Latour a Civitella 2005


di Carlo Macchi

Le caratteristiche dei vini di Sergio Mottura si possono capire da lontano, diciamo almeno 30/40 metri. Questa è infatti, più o meno, la distanza della cantina storica dall’arco austero, granitico, che non permette ad auto inutilmente larghe di accedere alla piazza dove si trova non solo l’azienda ma anche il loro agriturismo. 


Infatti i vini di Mottura non sono certo larghi. Sono fini, eleganti, in qualche caso austeri, sicuramente granitici nell’affrontare il tempo e potrei andare avanti con molte altre belle caratteristiche. Lo abbiamo scoperto nell’ incontro in cui Giuseppe Mottura, figlio di Sergio, ci ha fatto fare un viaggio all’indietro nei suoi vini e nella loro idea di vino, culminato con un Latour a Civitella del 2005. 


La loro idea di vino coincide praticamente con un vitigno, il grechetto, che nei terreni attorno a Civitella d’Agliano ha trovato forse la sua massima espressione. 
Tutti conoscono la storia del nome del vino bianco più importante della cantina (del lazio e non solo…) e quindi non starò a ripeterla, ma uno spunto va preso perché la vinificazione del La tour a Civitella è sempre stata la stessa: fermentazione in acciaio fino ad una certa gradazione alcolica e poi messo in barrique (di Latour naturalmente) per la parte terminale. Un cambiamento però c’è stato e cioè la diminuzione del tempo di permanenza in legno. Con il 2020 siamo a circa 12 mesi ma questo 2005 ne ha fatti sicuramente molti di più.


Capisco che voi adesso vorreste sapere qualcosa sul vino, ma servirà ancora qualche attimo di pazienza per inquadrare meglio una degustazione che ha messo in campo quasi tutte le annate importanti (non ho detto migliori, sarebbe stato troppo facile) degli ultimi 15/20 anni. Quello che ne è uscito è un preciso filo conduttore (di cui parleremo diffusamente per il Club Winesurf tra qualche giorno) che dal 2020 del Latour a Civitella, attraversando gli altri bianchi aziendali (cioè l’Orvieto Tragugnano e il Poggio della Costa) ci porta fino a questo 2005 che, tra l’altro è sicuramente il bianco italiano dotato di tappo stelvin più vecchio che io abbia bevuto. Ultima annotazione prima di entrare nel bicchiere su una meravigliosa frase di Giuseppe “L’uva si ricorda sempre dell’annata e se ne ricorda meglio dopo anni”.


E la 2005 è stata un’annata che a me e a Giuseppe è sempre piaciuta molto. Punta più sull’equilibrio che sulla potenza, è certamente una vendemmia considerata allora inferiore a molte. Una “piccola differenza” sulla valutazione della vendemmia: Giuseppe parlava dei bianchi mentre io, come penso la stragrande maggioranza di chi ci legge pensa, anche senza volerlo, alle vendemmie dal punto di vista dei vini rossi. Una pecca a cui dovremmo metter mano. 

Sergio Mottura

Ma alla fine questo 2005 è nel bicchiere: il colore è giovanile, un paglierino intenso e brillante. Per Il naso occorre usare una parola non di moda: minerale. Infatti la pietra focaia è ben presente sin da subito, accanto a fiori di campo e ad erbe officinali. Naso austero e quasi ritroso, ma che in pochi minuti ti conquista. Però è la bocca ad essere incredibile: intanto l’eleganza e la “rettitudine gustativa” dei vini di Mottura qui si esalta. Il vino ha croccante freschezza (frase rubata a Giuseppe), finezza e una struttura che lo porta ad una lunghezza gustativa incredibile, senza cedere di un millimetro. L’uva del 2005 si è ricordata benissimo delle sue caratteristiche e adesso le esalta, dopo 17 anni, periodo importante anche per la stragrande maggioranza dei vini rossi, italiani e non. 


Questo non è stato solo un assaggio di un grande vino, è stato un insegnamento per me e per tutti quelli che stentano a credere alla possibilità di fare grandi bianchi da invecchiamento in ogni parte d’Italia.

Mosconi - Veneto IGT Passito Bianco 2006


di Carlo Macchi

Nel mondo dei passiti, ormai ridotto a un piccolo pollaio, un vino del genere è un vero gallo nel pollaio. Da garganega 100% è buono al 200%.


Concentrazione e complessità di frutto incredibile al naso, con una suadente ma maschia e infinita dolcezza in bocca. Un vino quasi inarrivabile, chapeau!

Da Carlo ad Orvieto è un indirizzo sicuro per chi vuole mangiare bene in Umbria!


di Carlo Macchi

La via centrale di Orvieto e purtroppo simile a quella di tanti altri centri che vivono di turismo e di vino: ristoranti, trattorie, enoteche, vendita di prodotti tipici, bar si dividono gli spazi principali. 

Abbastanza spesso i prodotti tipici che vengono venduti, non solo a Orvieto ma “dalle Alpi alle Piramidi e dal Manzanarre al Reno” non sempre sono tipici e soprattutto non sono di alta qualità. Questo ragionamento, per traslato, arriva alla ristorazione e quindi bisogna selezionare con attenzione i luoghi con “cucina tipica” dove ci fermiamo. 


Da Carlo non è proprio nel corso di Orvieto ma in una stradina laterale che “filtra” molto la clientela e ti porta in una piazzetta abbastanza ombreggiata che sembra fatta apposta per mettere dei tavolini all’aperto e mangiare in tranquillità. Naturalmente ci sono anche gli spazi interni, due piccole ma accoglienti salette con dei simpatici e colorati quadri alle pareti. L’apparecchiatura è corretta e dignitosa, consona ad un locale dove non si spendono certo cifre astronomiche ma che ci tiene a mantenere lo standard ad un buon livello. 
Lo standard e tutto il resto lo garantisce Carlo, proprietario e deus ex machina del locale, un giovane che unisce la simpatia al mestiere, con quel tocco di “sana irriverenza” che crea subito un buon feeling. 


Il buon feeling viene immediatamente rafforzato da degli antipasti semplici ma sostanziosi, come la bruschetta con la purea di fave e finocchietto o quella classica col pomodoro. Fin dall’inizio si capisce che il locale e di cucina tipica umbra, ma il livello qualitativo è sicuramente alto. La conferma sono gli umbricelli (una specie di pici più corti e di forma irregolare) con il tartufo nero e soprattutto il piatto che fa da cartina tornasole della qualità in ogni locale del mondo: le polpette. 

Umbricelli

Da Carlo si mangiano con una densa e saporita salsa di pomodoro ma soprattutto la carne e gli altri componenti non sono il risultato di un “assemblaggio” di rimanenze da frigo, bensì un’esaltazione della carne fresca e di un equilibrato uso di spezie non invadenti. Anche i fagioli cannellini con il tartufo nero sono buoni aldilà dell’ottimo tartufo e finiamo prima dei dolci perché le porzioni sono indubbiamente abbondanti. 

Polpette 

I vini sono quelli locali, quindi soprattutto Orvieto DOC, anche perché la moglie di Carlo è una valente produttrice. Il prezzo, comprensivo di tre portate e del contorno (escluso il vino) non supererà i 35/40 euro, quindi più che corretto, specie per la qualità mostrata nei piatti e nella scelta delle materie prime. 


Alla fine non mi sono potuto esimere da fare una foto con Carlo, sotto la scritta da Carlo: un trittico "carlesco" che non offusca minimamente quello meraviglioso della facciata della Cattedrale di Orvieto, distante poche centinaia di metri da questa ottima trattoria.

Bere e mangiare bene a Roma? Facile, da Quartino a Piazza Vittorio!


L’Esquilino è uno dei rioni del centro storico di Roma, a pochi passi dalla Stazione Termini, è ormai da anni il cuore multietnico della Capitale, un melting pot di culture e tradizioni che rende questo quartiere, dal punto di vista enogastronomico, un luogo dove sperimentare le migliori cucine etniche della città. 

Cuore pulsante dell’Esquilino è sicuramente piazza Vittorio Emanuele II, costruita nel 1870 e dedicata al primo re d'Italia, al centro della quale l’architetto Carlo Tenerari creò un giardino, ornato con viali di ghiaia, piante di vario genere – come magnolie, palme, cedri del Libano, platani – e un laghetto con al centro un’opera statuaria di Mario Rutelli, proveniente dalla Fontana delle Naidi di Piazza della Repubblica. Difronte al laghetto, un importante rudere romano, i Trofei di Mario, lasciati proprio lì dove erano collocati originariamente. 

Lo Staff di Quartino con al centro Marco Wu. Credit: Radio Food

Piazza Vittorio, e le vie adiacenti, è anche il luogo dove da anni la comunità cinese di Roma ha instaurato il suo quartier generale economico grazie alla creazione, a partire dagli anni ’80, di tanti negozi, ristoranti ed attività commerciali che negli ultimi tempi hanno innalzato, fortunatamente, l’asticella della qualità cercando di valorizzare l’offerta enogastronomica del quartiere che oggi, più che mai, ha bisogno di essere rilanciato. Ad aiutare l’Esquilino a centrare questo obiettivo sfidante, ci stanno pensando Marco e Giacomo Wu che da circa un anno hanno aperto sotto i portici di Piazza Vittorio un bellissimo locale chiamato Quartino, una enoteca di circa 80 metri quadri che punta su una selezione di grandi etichette italiane e francesi a cui si affianca una cucina moderna con interessanti risvolti fusion. 

I portici di Piazza Vittorio - Credit: Romeing

A gestire e soddisfare i fabbisogni edonistici di una variegata ed attenta clientela, come detto, ci sono i I fratelli Wu, impegnati da tempo con i genitori (giunti in Italia nel lontano 1976) nell’esportazione di grandi vini in Cina e nella distribuzione all’ingrosso di prodotti per i ristoranti cinesi in Italia. Marco e Giacomo, spinti dalla loro passione per l’enogastronomia, hanno colto al balzo l’opportunità per proporre una realtà che potesse conquistare gli appassionati grazie ad un’offerta di vini con pochi eguali: “La nostra cantina, situata al piano sottostante, può vantare quasi 2.000 etichette: vini italiani ed esteri, francesi in particolare (Borgogna, Bordeaux e Champagne), bottiglie di Maison rinomate, ma anche di piccole realtà produttive. C’è spazio anche per i vini biologici nella nostra cantina in costante evoluzione, grazie ad un lavoro di ricerca frutto della preziosa collaborazione della sommelier Jacqueline Margaret Capuzzi” sottolinea Marco. 


La filosofia di Quartino è semplice ma efficace: rendere accessibile ogni prodotto a tutti, anche quelli di fascia alta, soprattutto grazie alla mescita di bottiglie come il Conterno Monfortino, il Sassicaia, il Tignanello e il Brunello di Montalcino Poggio di Sotto, e di champagne come il Louis Roederer, il Pol Roger, il Moet Hennessy, il Dom Perignon e il Krug che variano ogni due settimane. Un locale “democratico” con vini per tutte le tasche con la possibilità di avere gli stessi costi sia che si consumino in enoteca siano che siano da asporto. 


Nel menu, che cambia spesso, trovano spazio non solo proposte semplici come le bruschette, ma piatti come la tartare di filetto di manzo aromatizzata con il cognac, fondo a base di acciughe e prezzemolo e capperi di Pantelleria, le fettuccine al ragù d’anatra con sbriciolata di noci e mirtillo e i tonnarelli con guanciale e cipolla caramellata. Da non dimenticare anche la proposta di carne (costata di manzo, costolette di agnello) e di pesce (frittura, polpo arrosto con purea di patate), la selezione di ostriche, i dumpling con salsa ai funghi, il bao con pulled pork e i taglieri di salumi e formaggi che spesso provengono dai migliori artigiani della Toscana.



Oltre alla proposta dei vini e degli champagne anche una drink List con otto grandi classici della miscelazione e altri cocktail realizzati personalmente da Marco, da tempo appassionato di Mixology. Quartino, enoteca con cucina, situato in Piazza Vittorio Emanuele II, 103, è aperto tutti i giorni (chiuso la domenica) dalle 10 della mattina, con caffetteria e selezione di tè, fino all’1 della notte.

InvecchiatIGP: Oasi degli Angeli - Kurni 1997


di Roberto Giuliani

Se c’è un vino che per longevità può competere con i più blasonati vini al mondo, questo è sicuramente il Kurni di Marco Casolanetti ed Eleonora Rossi in quel di Cupra Marittima (AP). 


La ragione? Molto semplice (si fa per dire), quando negli anni ’90 in Toscana stavano spopolando i supertuscans, era già evidente che il mondo del vino stava cambiando radicalmente, spuntavano iniziative e idee del tutto nuove rispetto a ciò a cui eravamo abituati. Così non deve stupirci se Marco ed Eleonora, visto il luogo incantato, i suoli poveri, le condizioni complesse ma estremamente stimolanti che avevano di fronte, decisero di pensarla in grande, di fare qualcosa che, almeno in quel territorio marchigiano, nessuno aveva mai fatto prima. Così il loro primo Montepulciano è nato in una vigna ad alberello, su suolo sabbioso e sassoso, con una fittezza d’impianto elevatissima e una resa di soli 20 quintali a ettaro. Infatti questa prima annata era di sole 2.500 bottiglie. Una chicca, un vino di 15 gradi alcolici in un’annata sì calda, ma certamente non come le successive 2003 0 2017 e quelle a cui ormai siamo abituati oggi, segno quindi di un metodo di lavoro in vigna e cantina che puntava a una concentrazione e potenza notevoli. 

Ma la cosa che davvero impressiona, oltre a un’intensità espressiva che ha pochi eguali, è le potenzialità di invecchiamento, davvero stupefacente. 

Stappata questa 1997, prima annata in assoluto, ne ho avuto piena conferma, mai e poi mai potresti pensare che ha 25 anni di vita, già dal colore ancora rubino cupo, appena segnato all’unghia da una sfumatura granata, ma soprattutto accostato al naso: laddove normalmente trovi una terziarietà spiccata (anche se hai davanti un Barolo Riserva), note di funghi secchi, goudron ecc., qui è ancora il frutto a dominare la scena alla grande, in confettura certo, ma per nulla surmaturo, è un vino assolutamente vivo e quasi fermo nel tempo, bisogna scavare a lungo per trovare tracce evolutive più decise, ma sono solo tracce, appunto, vincono le note di ginepro, spezie fini, cacao, sottobosco appena accennato e una finezza d’insieme davvero invidiabile. 


All’assaggio è perfettamente in linea, con una freschezza che non ha cedimenti e una succosità che avvolge i sensi, persistenza lunghissima e alcol perfettamente integrato. Forse oggi non è il vino che tutti cercherebbero a tavola, si va verso tipologie più leggiadre, meno intense, ma onestamente questo 25 anni li ha superati alla grande, non so quanti potranno vantare le stesse potenzialità. 

P.S. Mentre scrivevo, è arrivata una grandinata violenta, con chicchi grossi come noci e un vento prossimo alla burrasca, la temperatura è scesa di almeno 15 gradi, sembra inverno…

Cantina Giagnacovo - Orovignale 2019


di Roberto Giuliani

Ancora oggi dei vini del Molise non si sa quanto si dovrebbe sapere. 


L’Orovignale, moscato bianco della Cantina Giagnacovo di San Biase (CB), è un coup de coeur, profuma di arancia gialla, mandarino, salvia e pesca. Il sorso è delizioso, fresco, con note di miele e frutta candita, beva irresistibile.


Fattoria Varramista - Varramista 2016


di Roberto Giuliani

La Fattoria Varramista (a proposito, per coloro che non lo sanno, l’accento va sulla seconda sillaba, non sulla terza) si colloca in un ambiente isolato, fuori dal mondo, se non vai a visitarla non ti rendi conto di come possa esistere una simile meraviglia a pochi chilometri dal Comune di Montopoli in Val d’Arno e dall’industriale Pontedera, nella provincia di Pisa. Mentre con la macchina ti stai avvicinando alla meta, non c’è nulla intorno che possa farti anche lontanamente sospettare che tanta bellezza sia possibile in una zona così diversa e tutt’altro che attraente. Eppure è così, un luogo fatato, con una villa stupenda e alberi secolari, aria pulita, un giardino tenuto alla perfezione, fiori e insetti a volontà, respiri natura e ti rigeneri. 


Qui, poco più di 8 mesi fa, ho avuto il piacere di partecipare a una splendida verticale in presenza di Francesca Frediani, enologa che ormai ha un ruolo in azienda ad ampio spettro, dal marketing all’accoglienza, e Federico Staderini, enologo di fama stratosferica e strameritata, che ha avuto il merito di avere indicato il syrah come vitigno d’elezione in una terra le cui caratteristiche non erano affini a molte varietà di vite. Parliamo degli anni ’90, quando Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, decise di utilizzare la villa come residenza stabile e riconvertire i vigneti a una viticoltura sostenibile e di qualità. 


Il Varramista, nato come blend di syrah, sangiovese e merlot, dalla vendemmia 2003 è diventato monovarietale, ovvero una volta che il vigneto ha raggiunto l’età giusta per non avere più bisogno di supporto. C’è da dire che questo vino tira fuori il meglio di sé con gli anni, quella verticale lo ha ampiamente dimostrato. 


La 2016 è da poco in commercio, pertanto è solo all’inizio di un lungo cammino, ciò nonostante è in grado di esprimere già una personalità affascinante, regalando profumi di prugne mature, mirtilli, gelsi neri, arricchite da sensazioni di tabacco, pepe, spezie orientali e macchia mediterranea. 


Tutti aspetti che ritroviamo all’assaggio, dove la freschezza fa da sostegno fondamentale a un frutto intenso, intarsiato dalle spezie fini, qui il pepe è ancora più evidente, il sorso si dilata e acquista profondità, il filo sapido nel finale decisamente lungo completa un quadro di indubbio valore. 

E siamo solo ai primi passi…

Fabrizio Bindocci confermato alla guida del Consorzio del vino Brunello di Montalcino

Fabrizio Bindocci confermato presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino. Nominato oggi all’unanimità dal nuovo consiglio di amministrazione dell’ente consortile, Bindocci (Il Poggione) resterà in carica per il prossimo triennio. Nel corso del cda sono stati eletti anche i tre vicepresidenti: Giacomo Bartolommei (Caprili), Riccardo Talenti (Talenti) ed Enrico Viglierchio (Banfi). 


Tra gli obiettivi del prossimo mandato – ha affermato Fabrizio Bindocci – vi è certamente la volontà di consolidare un brand, quello del Brunello, sempre più riconosciuto su scala globale. I margini di miglioramento ci sono, ci attende un altro triennio intenso sul fronte della promozione e della valorizzazione dell’intera piramide qualitativa espressa da Montalcino. Siamo convinti che un Consorzio che rappresenta oltre il 98% della produzione possa fare ancora molto per alzare l’asticella del valore delle proprie produzioni affinando i target di mercato e promuovendo Montalcino quale hub culturale dell’enoturismo internazionale”. 

Fabrizio Bindocci, al suo terzo mandato di cui il secondo consecutivo, dal 1999 è l’amministratore delegato dell’azienda Il Poggione (per cui lavora dal 1976), una delle tenute storiche di Montalcino. Già vicepresidente del Consorzio tra il 1998 e il 2000 durante il primo mandato di Filippo Fanti, ha ricoperto per la prima volta la carica di presidente dal 2012 al 2016. 

Il Consorzio del vino Brunello di Montalcino riunisce oggi 214 soci, per una tutela che si estende su un vigneto di oltre 4.300 ettari nel comprensorio del comune di Montalcino (2.100 gli ettari a Brunello, contingentati dal 1997), in favore di quattro Dop del territorio (Brunello di Montalcino, Rosso di Montalcino, Moscadello e Sant’Antimo).

InvecchiatIGP: Domodimonti – Marche IGT “Passione e Visione” 2010


di Andrea Petrini

E’ abbastanza noto il mio scarso entusiasmo verso i vitigni alloctoni piantati in Italia soprattutto se il vino che ne deriva, come spesso accade, non è all’altezza delle previsioni del produttore che spesso si lascia infinocchiare dall’agronomo o dall’enologo di turno che lo spinge verso questa direzione. 


Immaginerete, pertanto, quando di fronte a me è capitata, durante una cena stampa presso l’Enoteca La Torre di Roma, una bottiglia di petit verdot piantato sulle colline di Offida. In questo bellissimo areale marchigiano nei primi anni 2000, i coniugi Francesco e Marisa Bellini s’innamorano di queste terre in una delle loro tante trasferte in Italia dal Canada, dove vivono. Le loro famiglie affondano le radici in questa terra e la tentazione di creare un luogo che potesse valorizzarla nella sua vocazione più importante, avendo cura della loro memoria, si è trasformata in un investimento di assoluta importanza 


Volevamo produrre un vino che avremmo bevuto con la nostra famiglia e condiviso con gli amici, volevamo produrlo nelle Marche dove siamo nati. Ci sarebbe piaciuto avere una cantina che rispettasse la sua terra e quindi anche le nostre radici. È scavata nella collina per non deturpare le linee del paesaggio e ho puntato da subito sul biologico e sul fotovoltaico. Quando un giorno mi sono ritrovato a produrre un numero di bottiglie troppo più grande rispetto a quelle che potevamo bere, esattamente in quel momento, è nata l’azienda agricola Domodimonti”. 


Per rendere reale questo progetto di vita, nel 2003, si piantano soprattutto a vitigni autoctoni come Passerina, Pecorino e Montepulciano, accompagnati da due internazionali di grande potenziale come Merlot e Petit Verdot. Non solo. Viene creata una bellissima cantina interrata con una bottaia che conta circa 140 barrique e 19 tonneaux che alla vista dei visitatori sembra essere un vero e proprio anfiteatro naturale in cui far riposare, ammirandone l’affinamento, il frutto del loro lavoro. Domodimonti, oggi, produce sette etichette: uno spumante charmat, due bianchi e quattro rossi tra cui un petit verdot in purezza chiamato Passione e Visione di cui ho potuto apprezzare l’annata 2010. 


Appena messo il naso nel bicchiere ho capito subito che un altro mio piccolo grande pregiudizio sui vitigni alloctoni in Italia doveva essere (parzialmente) modificato in quanto il vino, che mi aspettavo baroccheggiante e abbastanza seduto, si è rivelato fin da subito integro e assolutamente elegante con aromi ancora perfettamente centrati su prugna, ribes nero, pennellate floreale e spezie dolci. In bocca dichiara equilibrio: la freschezza, ancora evidente, spinge ritorni fruttati e di humus mentre la morbidezza del vino ben si fonde con un accordo tannico perfettamente fuso con l’età. 

Passione e Visione, nomen omen per un petit verdot marchigiano assolutamente carismatico ed inaspettato. Venite a degustare le nuove annate con  me?

La Cantina di Remo - Tintilia del Molise “Uvanera” 2017


di Andrea Petrini

Una delle perle del Molise, che esiste eccome, è la Tintilia che Roberto De Stefano produce da un piccolissimo vigneto vicino Campobasso. 


Il suo Uvanera è un rosso luminoso, vibrante, dinamico e dalla beva compulsiva grazie ad un tannino sinuoso corroborato da saporita sapidità. Poche migliaia di bottiglie prodotte.

https://tintiliauvanera.it/

G.D. Vajra: scopriamo le nuove annate dei loro vini


di Andrea Petrini

Produciamo Barolo ma non solo, perché amiamo tutti i vini della nostra terra. Crediamo nella Bellezza, nel lavoro fatto bene, nella cura dei dettagli, nell’osservazione curiosa e nella creatività che rispetta la tradizione. Siamo un’azienda familiare e artigianale. Ci accompagna una squadra giovane, entusiasta ed appassionata quanto noi. Seguiamo direttamente i nostri vigneti, perché riteniamo che sia alla base della qualità senza compromessi, ma soprattutto perché amiamo questa terra. Tutti i vini che produciamo sono ispirati alla finezza e all’eleganza. Hanno un senso del luogo e parlano dei vigneti, delle varietà e dell’annata di cui sono frutto. Armonia e personalità sono indissolubilmente uniti, così che ogni bottiglia possa essere godibile da giovane e trarre giovamento dall’affinamento.”

Questo è quello che Aldo e Milena Vaira e i loro figli Giuseppe, Francesca e Isidoro, tendono a ripetere continuamente durante gli eventi vitivinicoli a cui partecipano oppure, ancora meglio, quando li si va a trovare in cantina a Barolo, nel loro amato Piemonte, in quella parte di territorio dove l’occhio sconfina tra le meraviglie delle Langhe: La Morra, i castelli di Grinzane Cavour, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba e poi Monforte e Novello, fino ad attraversare la pianura e raggiungere le Alpi. 

La famiglia al completo

Questo territorio, unico al mondo, è testimone di una bellissima storia di famiglia che parte ufficialmente nei primissimi anni ‘70 quando Aldo Vaira costituisce l’azienda G.D. Vajra il cui acronimo, che precede l’antico modo di scrivere il cognome di famiglia (con la “j”), non è altro che il ringraziamento di Aldo a suo padre Giuseppe Domenico che firmò gli atti costitutivi dell’impresa famigliare visto che suo figlio, all’epoca, era ancora minorenne e con un passato da “ribelle”. Infatti, a soli 15 anni, nel 1968, Aldo fece parte delle contestazioni studentesche che portarono in piazza migliaia di giovani torinesi e il papà, per tenerlo lontano dai guai, lo spedì rapidamente in campagna dai nonni per fargli trascorrere l’estate in tranquillità. Non fu una vera punizione per Aldo, anzi, perché il tempo passato a contatto con la Natura non fece altro che acuire la sua volontà di gestire e coltivare un giorno quella Terra che sentiva propria, con la quale aveva una ancestrale affinità elettiva. 

Da bambini si sogna: chi di fare il medico, chi il falegname… il mio sogno era di fare l’agricoltore.” 


La passione per il suo lavoro e per la Natura è talmente forte che il giovane Aldo, nel 1971, aderisce a Suolo e Salute, diventando un pioniere dell’agricoltura biologica in Piemonte. Gli anni successivi, anche grazie all’incontro con sua moglie Milena, sono importantissimi per l’identità aziendale visto che sono dedicati alle selezioni private di biotipi (selezioni massali) di Nebbiolo e Dolcetto, alla scommessa del Freisa, alla scommessa circa la coltivazione dei primi ceppi di Riesling Renano in Piemonte (1985) perché, come ribadisce lo stesso Aldo, “mi sorprendeva accorgermi come un bianco tedesco e un rosso piemontese potessero, in fondo, quasi cercarsi fino ad assomigliarsi nel trascorrere del tempo”. E poi il Bricco delle Viole, la scommessa dell’altitudine, una bellissima vigna di nebbiolo del 1949 che ha insegnato alla famiglia Vaira l’arte della pazienza e ha guidato naturalmente il loro stile. 

Francesca Vaira, volto di G.D. Vajra nel mondo e responsabile dell’accoglienza aziendale, ha presentato poco tempo fa alla stampa romana le ultime uscite dei vini prodotti dalla sua famiglia. 

Di seguito, in sintesi, le mie note degustazione: 

Spumante Extra Brut Rosé “N.S. Della Neve”: questo vino, che prende il nome dalla piccola cappella che si trova alle pendici del vigneto, dedicato alla “Nostra Signora della Neve”, è un metodo classico (50% nebbiolo e 50% pinot nero) che la famiglia ha creato in onore di Thomas Jefferson che nel 1797, come ambasciatore in Francia, descrive il nebbiolo come “quasi amabile come il morbido Madeira, secco al palato come il Bordeaux e vivace come lo Champagne”. I Vaira, da innamorati della tipologia, hanno così prodotto questo interessantissimo spumante rosato delicato nei profumi di piccoli frutti rossi ma affilato come una lama di coltello che sprofonda in una mineralità bianca che richiama il terreno calcareo dove sono piantate le viti. Davvero una bella sorpresa! 


Langhe Doc Riesling “Pétracine” 2021: da vigne piantate nel 1985 piantata da Aldo Vaira a Fossati, nel comune di Barolo, e a Bricco Bertone, nel comune di Sinio, ad un'altitudine tra i 420 e i 480 metri sul mare, nasce questo vino, al momento della degustazione appena imbottigliato, che nonostante la gioventù fa presagire una complessità olfattiva giocata su sensazione di agrumi e fiori di sambuco. Al sorso è teso, sapido, rigoroso ma ancora leggermente contratto nella spinta finale. Ancora un po’ di riposo in cantina e lo vedremo al massimo della forma.


Dolcetto d’Alba OC “Coste & Fossati” 2020: Aldo Vajra, che ha sempre creduto nelle potenzialità di questo vitigno, in tempi non sospetti si è posto il problema di capire come poteva produrre un Dolcetto che evolvesse nel tempo con freschezza ed intensità. La risposta l’ha data conservando vecchi ceppi di dolcetto nei celebri vigneti di “Coste e Fossati” solitamente dedicati al nebbiolo da Barolo. Il risultato, anche in questa annata, è un vino ricco di frutta rossa, profondo e dotato di eccezionale bevibilità. Ad avercene di Dolcetto così! 


Langhe DOC Nebbiolo “Claré J.C.” 2020: il vino non è altro che una interpretazione dei giorni dimenticati del nebbiolo, quando veniva gustato nella sua veste più leggera e fresca. La vinificazione segue un vecchio protocollo del 1606 creato G.B. Croce, gioielliere di Casa Savoia, che prevede che il vino venga imbottigliato a fermentazione non del tutto completata in modo da mantenere un una bella energia e vinosità. Il risultato nel bicchiere? Un vino assolutamente goloso, invitante, da bere d’estate leggermente fresco e, a mio parere, adatto per un pubblico giovane al quale cominciare ad insegnare a bere bene.


Langhe DOC Nebbiolo 2020: come ama specificare Francesca, questo è il nebbiolo che i Vaira producono in modo che si possa percepire l’espressione più pura e trasparente di questo vitigno tanto adorato da suo papà. Per raggiungere questo obiettivo la macerazione dell’uva è lunga ed estremamente delicata, per preservare tutta l’innocenza varietale di un vino che sa di rosa, viola, petunia e ciliegia appena matura. Bocca energica e piacevolissima grazie alle giuste proporzioni di tutto. Un grande nebbiolo “base”! 


Barolo DOCG “Bricco delle Viole” 2018: questo grande nebbiolo in purezza nasce dalla vigna più alta e più vicina alle Alpi del comune di Barolo. Si sviluppa sul versante ovest di Barolo tra i 400 - 480 metri sopra il livello del mare. Il suo nome deriva dalle viole che qui sbocciano ogni primavera grazie alla splendida esposizione a sud. 


La 2018, ancora giovanissima e in divenire, regala oggi un nebbiolo di elegantissima espressione varietale con un profilo inizialmente balsamico per poi virare sui classici profumi di rosa, violetta, glicine, lampone e leggero sottobosco. Al gusto conquista per sapidità e freschezza, tutto scorre assolutamente lindo, senza increspature, in un finale assolutamente dinamico e saporito. 

"Il Bricco delle Viole è sinonimo di grazia e di eleganza. È il vino che, con la sua natura, ha guidato lo stile della nostra azienda e ci ha educati alla pazienza." - Aldo Vaira