InvecchiatIGP: IGT Toscana Monteverro 2008


di Stefano Tesi

Ciò che normalmente, in una qualunque azienda non necessariamente vinicola, si chiamano i tempi eroici, sono quelli degli esordi, pieni di entusiasmo, incognite, errori, aspettative e ingenuità. Ai quali, passato qualche decennio, si guarda di norma con nostalgia e qualche sorriso.
Nel caso del vino, le bottiglie dei tempi eroici svolgono invece una doppia funzione: quella di punto di riferimento per quanto riguarda il mutare degli stili e delle mani intercorsi nel frattempo e di parametro per valutare i progressi fatti nello sviluppo del “progetto” iniziale.


L’assaggio di questo Monteverro 2008, frutto della prima vendemmia della tenuta creata dal nulla nella macchia mediterranea della Maremma a cavallo tra Lazio e Toscana, anno 2005, dal bavarese Georg Weber e l’allora fidanzata Julia, mi pare assolva però anche una terza funzione: quella di restituire fedelmente, nel bicchiere, la natura selvatica dei suoli originari e lo sforzo di adattamento ad essi compiuto dalle viti messe a dimora ex abrupto laddove, per memoria condivisa, allignavano bene solo la macchia e i cinghiali. 
Cabernet sauvignon, Cabernet franc, Merlot e Petit verdot convivono insomma in questa bottiglia, a suo modo storica, e lì si fondono in modo quasi riottoso, come costretti a convivere dal giovane, anzi allora giovanissimo enologo francese Matthieu Taunay che, come le vigne, ha poi messo radici stabili da queste parti.


L’assaggio è affascinante: molto lontano dall’odierno Monteverro – un vino levigato, equilibrato, senza dubbio territoriale ma frutto di una lenta plasmatura e di una lunga messa a punto – questo 2008 vive invece di una toscanità maremmana, esplicita, un po’ ispida e un po’ burbera, e irradia la saggezza grave di certi anziani accigliati.


Così, all’occhio, tradisce un rubino caldo che non ti aspetti del tutto ed anche al naso toscaneggia assai, in bilico tra il maturo e l’evoluto, tra il brusco e il profondo, con accenni ipermaturi, lampi di calore, cuoio grasso, terra bagnata e un filo di resina che ricordano, chissà come, i Sangiovesi canuti e robusti. Tutta roba che si ritrova al palato, con un alcool importante, una struttura solenne, accenni dolciastri e un irresistibile richiamo ai vecchi di casa nostra. 
A me è parsa una bevuta intrigante, fuori passo. E mi è piaciuto moltissimo col sontuoso piccione alla brace laccato alle more fermentate ed aglio nero ammannitoci dalla sempre sorprendente Valeria Piccini di Caino, una che di Maremma se ne intende.

Collemattoni - Brunello di Montalcino Docg 2020


di Stefano Tesi

I buoni Brunello si assaggiano anche senza andare al “Benvenuto”: questo, sentito in anteprima, è di un bel rubino fitto, ha il naso elegante e appena caldo, la nota matura e la bocca gentile e equilibrata del vino pronto.


Ideale sui sedani di pasta all’uovo col ragù di faraona che ci siamo pappati.

Graziano Prà vince la sfida del tappo a vite


di Stefano Tesi

La querelle sul tappo di sughero contro il tappo a vite è probabilmente destinata a non chiudersi mai. Per il vostro e il nostro divertimento visto che, alla fine, è anche o forse soprattutto una questione di scelte, gusti, filosofie personali.
Negli ultimi anni la vita di chi assaggia spesso il vino è stata costellata del resto di ricorrenti degustazioni afferenti all’una o all’altra opzione, con risultati evidenti sotto il profilo della percezione della differenza ma anch’essi fatalmente soggettivi sotto quello della qualità finale.
E’ per questo che ho partecipato volentieri alla presentazione fiorentina dei vini di Graziano Prà, dal 2010 uno dei pasdaran del tappo stelvin (non a caso affianca Franz Haas, Jermann, Pojer e Sandri e Walter Massa nell’ormai celebre gruppo degli “Svitati”), con il quale, oggi, il nostro chiude tutte le bottiglie di sua produzione sia in Soave che in Valpolicella. Con l‘eccezione, ma solo per mere ragioni di disciplinare, dell’Amarone, del Ripasso e del Passito Igt.


L’occasione era però resa ulteriormente ghiotta dal fatto che fosse previsto un assaggio parallelo di due bottiglie dell’annata 2017 del Soave Classico Doc Monte Grande (Garganega 70 % e Trebbiano di Soave), il cru aziendale prodotto a Monteforte d’Alpone: l’una chiusa col sughero e una col tappo a vite. Lo scopo era sì dimostrare le differenze evolutive determinate nel vino dalle diverse chiusure, ma anche la più generale vocazione del Soave all’invecchiamento. 

Graziano Prà

Un invecchiamento che, a giudizio del produttore, il tappo a vite rende più lineare e costante, consentendo anche in verticale l’apprezzamento del prodotto in sé, al netto di influenze potenzialmente volubili. “Lo stelvin supporta la longevità, permette al vino di evolvere correttamente e garantisce una chiusura perfetta”, ha sottolineato Prà. “Abbiamo preso questa decisione dopo tredici anni di osservazioni e degustazioni comparate di vecchie annate e oggi siamo certi che sia la scelta migliore”.

A bicchieri svuotati dobbiamo dire che, come previsto, la diversità è risultata marcata. 

Il campione “sugherato” si contraddistingue già all’occhio per un colore dorato più carico e cupo, molto intenso e un po’ tendente al rosso. Al naso, dopo un’iniziale idea di anice, rilascia note di idrocarburi, olio minerale, pietra focaia e una coda appena melata, dolciastra. In bocca è gentile, molto composto, maturo, molto elegante e certamente non deludente.

Differenze

Altra musica col campione “avvitato”: il colore è più giallo e brillante, l’olfatto è più acuto e vivo, quasi giovanile e vibrante, con la pietra focaia che emerge netta sul resto tutto con piacevoli punte di freschezza. Anche in bocca il vino è giovanile, molto gradevole, con un retrogusto cangiante e un intrigante finale amarognolo.
Difficile, tuttavia, esprimere una preferenza tra i due. Si tratta di “bevute diverse”, come si diceva tra commensali. Il tappo in sughero restituisce il Soave 2017 che ti aspetti, piuttosto evoluto ma non certo decrepito, in qualche misura rassicurante. Il tappo stelvin ti dà un Soave che, considerando il millesimo, trovi molto diverso dalle aspettative, coinvolgente, in piena forma e quasi esuberante.

Resta poi da dire degli altri vini (tutti, con le eccezioni dette, “svitati”). Assai godibile il Morandina Valpolicella doc 2023, un vino di Corvina, Corvinone, Rondinella e Oseleta coltivate a quasi 500 metri di altitudine: affinato in botti grandi, ha un bel naso fruttato, asciutto, vinoso, scalpitante ma senza esagerare, con un palato molto sapido e una sensazione dissetante.


Più a metà del proprio cammino, a nostro parere, il Morandina Valpolicella superiore doc 2020, un vino dal naso profondo, compatto, intenso, con un frutto screziati e potenti che in bocca si traducono in tannini ancora importanti e una vena acida che richiedono più tempo per essere ammansiti.


Decisamente bene l’Amarone docg 2017 la Morandina, che non rinuncia alla propria identità tipologica ma evita le facili e purtroppo ricorrenti caricature con un bouquet tipico di frutti maturi e un palato solenne, pulito, perfino beverino nella sua importanza.


La sorpresa della giornata è però stato il Passito Bianco delle Fontane 2021 Veneto Igt: una bevuta piacevolissima, leggera, ricca, senza alcuna stucchevolezza, assai fine e screziato all’olfatto, assolutamente godibile in bocca, quasi un vino da fuori pasto.


Nota di merito finale al ristorante Konnubio, che ha ospitato la degustazione: molto riuscita la mezzamanica con crema di zucca, cinta senese e nocciole tostate abbinata al Soave e assai azzeccato anche il matrimonio tra l’Amarone e il saporito peposo di manzo con cime di rapa ripassate. Bravi.

Brunello di Montalcino 2020: vizi e virtù della nuova annata del re dei vini toscani. Bonus: la mia Top 10


È terminata da qualche giorno la 33ª edizione di Benvenuto Brunello, l’anteprima dedicata al principe dei rossi toscani del Consorzio del vino Brunello di Montalcino che da giovedì 14 a lunedì 18 novembre ha presentato in anteprima a giornalisti, buyer, operatori e wine lover il Brunello 2020, la Riserva 2019, il Rosso di Montalcino 2023 e gli altri due vini della denominazione, il Moscadello e il Sant’Antimo.


Come ogni anno, appena varcata la soglia del Chiostro di Sant’Agostino, che da qualche anno ospita la manifestazione, le prime domande che noi “addetti ai lavori” ci facciamo sono sempre le solite:” Come è stata l’annata 2020 a Montalcino? Come saranno i Brunello di questo millesimo?”


Stando a quanto riportato dal Consorzio, la 2020 è stata una vendemmia a 5 stelle, una valutazione di merito, anticipata, basata su parametri meteoclimatici, di consistenza e sanità delle uve che per l’ultima volta sarà usata per stabilire la qualità dell’annata. Infatti, e questa è la grande novità, quest’anno è entrato in vigore il progetto “Brunello Forma” che tenderà a valutare l’annata non secondo canoni quantitativi (le stelle) e autoreferenziali ma qualitativi e stilistici che derivano dalla forte interazione tra vitigno, cambiamento climatico e vino, considerando anche la grande eterogeneità del territorio in termini di esposizione, altitudine e suoli. Uno studio complesso che ha visto all’opera membri del Consorzio, un team di esperti climatologi e professionisti dell’high tech farming della società Copernico e un panel di degustazione internazionale, composto da 8 Master of Wine, tra cui spiccano i nostri Gabriele Gorelli ed Andrea Lonardi. Il responso, secondo questi esperti, è stato unanime: la 2020 è stato un millesimo accattivante, brillante, succulento, che ha prodotti vini versatili e vocati all’invecchiamento.


Andando a spulciare i dati meteo di Montalcino del 2020 si possono fare considerazioni ulteriori e più approfondite sulla qualità di questa annata e su come questa si rifletta poi nel calice. La stagione, esaminando i vari report del è stata calda, a tratti molto calda tra fine luglio e metà agosto (siamo arrivati quasi a 40° di giorno), intervallata solo raramente dalle piogge che sono scese, fortunatamente, copiose tra inizi giugno e fine settembre limitando lo stress idrico delle piante soprattutto durante il periodo della vendemmia creando, a mio giudizio, un divario importante a livello organolettico nel vino tra chi ha vendemmiato prima e chi dopo la pioggia di settembre.


Con le dovute eccezioni, che non sono poi così rare, generalmente posso anticipare che profilo del Brunello di Montalcino 2020 presenta i tratti di un vino che difficilmente tende a contenere la presenza di alcol che, in alcuni casi, specie se le uve provengono dalla zona sud, arriva a raggiungere se non oltrepassare i 15°. Se questo è vero bisogna anche sottolineare che solo pochissimi campioni da me degustati avevano un eccesso calorico fastidioso grazie ad una dotazione acida importante soprattutto per i Brunello provenienti dalla zona nord della denominazione. Infatti, e in questo caso sono assolutamente d’accordo con quanto riporta il progetto “Brunello Forma”, le note di degustazione riflettono una evidente diversità stilistica quasi sicuramente derivante dalla posizione del vigneto e dall’epoca di vendemmia che, come ho detto, risulta influenzata dalle piogge di settembre che, per chi ha raccolto dopo, hanno creato le condizioni per un miglior equilibrio in pianta. Tutto questo nel bicchiere si riflette attraverso una dicotomia tra vini misurati, floreali, dalle tonalità cromatiche scariche mentre altri, probabilmente provenienti da zone più calde, hanno profili organolettici più rotondi, voluminosi e dotati di ampia carica fruttata e graffio tannico.


A prescindere da tutte le diverse sfaccettature, la degustazione di oltre 150 campioni suddivisi tra Brunello di Montalcino “di entrata” e “selezione”, ha messo in evidenza una qualità media che anno dopo anno si fa sempre più importante per un Brunello di Montalcino che, sintetizzando, in questa annata regala al degustatore una piacevolezza immediata e di facile lettura pur mantenendo doti di complessità, profondità e territorialità che solo pochi vini al mondo possono vantare.

Di seguito, come sempre, inserisco la mia TOP 10 indicando i vini che mi hanno emozionato di più.

Castello Tricerchi – Brunello di Montalcino 2020: impronta aromatica seducente di frutta croccante, fiori essiccati e spezie orientali. Sorso inizialmente ostico poi si distende e di dota di piacevolezza e raffinata sapidità.

Col D’Orcia – Brunello di Montalcino 2020: da sempre in linea con lo stile del produttore, questo vino ha classe ed eleganza innata, non può non piacere e non può che raccontare le colline di Montalcino anche se la sua evidente dote di austerità mi ricorda che avrà tempo per svilupparsi in tutte le sue sfaccettature.

Le Chiuse – Brunello di Montalcino 2020: se la prima bottiglia bevuta non mi aveva convinto, la seconda mi ha decisamente entusiasmato grazie ad un preludio speziato, balsamico che svela solo dopo toni di frutta fresca e ginepro. La bocca è fresca e dinamica sugellata da un finale lunghissimo.

Poggio alle Forche – Brunello di Montalcino “Scarnacuoia 288” 2020: questa è stata un po’ la mia scoperta perché Giuliana e Lorenzo Turchi sono entrati a Benvenuto Brunello in punta di piedi perché ancora poco conosciuti tra gli operatori vist che per 40 anni hanno lavorato per una grande azienda locale. Solo pochi anni fa hanno deciso di riprendere in mano la terra e la storia di famiglia e iniziare a dar vita al loro Brunello di Montalcino sia “base” che “selezione” prodotto in maniera artigianale in pochissime unità. Scarnacuoia 288 è un Brunello di Montalcino da vecchie viti orientate ad ovest di stampo tradizionale, sa di viola mammola, frutta, spezie ed è dotato di una bocca ricca e graffiante. Prodotto in meno di 900 unità. Perdonate la lunghezza di questo box ma ci tenevo a raccontare questa azienda in maniera più decisa.

Salvioni La Cerbaiola - Brunello di Montalcino 2020: ci sono sempre durante le Anteprime i vini che mettono tutti d’accordo perché sono dei veri e propri totem in grado di evocare sensazioni uniche in grado di far pace una volta per tutte col Sangiovese Grosso di Montalcino. La struttura solida e complessa, la sua profondità e quel pizzico di arroganza tannica lo fanno destinare a lunga, lunghissima vita. Morirò prima io!

Sanlorenzo – Brunello di Montalcino 2020: l’altro vino che ha messo tutti d’accordo durante Benvenuto Brunello è stato quello di Luciano Ciolfi nelle cui mani il sangiovese del versante sud-ovest di Montalcino diventa pura opera d’arte liquida dove struttura e soffio alcolico sono gestiti in maniera egregia riservando al vino una raffinatezza di rara fattura.

Tenuta Buon Tempo – Brunello di Montalcino 2020: altra azienda poco blasonata ma che da tempo, grazie anche ad Attilio Pagli, tira fuori prodotti notevoli così come questo Brunello che pure provenendo dall’estremo sud dell’areale di produzione ha una armonia, una rotondità e un “succo” davvero magistrale. Non era facile ma loro ci sono riusciti. Bravi!

Tiezzi - Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” 2020: i grandi saggi di Montalcino come lo è il buon Enzo Tiezzi possono sbandare quando la stagione richiede impegno ma, alla fine, tirano fuori sempre il coniglio dal cilindro. Prova ne è questo Vigna Soccorso, preferito al fin troppo giovane Poggio Cerrino, che si caratterizza per precisione e sostanza dotandosi all’assaggio di una “silhouette” di pregiata fattura e già perfettamente godibile.

Val di Suga – Brunello di Montalcino “Poggio al Granchio” 2020: la vigna Poggio al Granchio è situata in zona sud e gode di un clima continentale, abbastanza caldo, mitigato da una elevata escursione termica grazie alla vicinanza del Monte Amiata. Il risultato è un Brunello di Montalcino avvolgente, sinuoso, carnoso, morbido ma al tempo stesso elegante al gusto grazie ad una pregevolissima trama tannica ben integrata nella struttura del vino.

Le Ragnaie - Brunello di Montalcino “Passo del Lume Spento” 2020: Riccardo Campinoti vede sempre oltre e non è un caso se ha piantato da tempo un bellissimo vigneto di sangiovese sul Passo del Lume Spento, ad oltre 600 metri s.l.m., il punto di più alto, ad oggi, dove si produce Brunello di Montalcino. Non sarà un caso, perciò, che questo vino ha una freschezza fuori dal comune, colpisce soprattutto la luminosità del suo scenario aromatico tutto giocato su piccole bacche rosse, fiori appassiti, muschio e felce. Brioso e dinamico il suo iter al palato, ricco di sapidità e con un finale che si allunga prepotente con una nitida scia minerale.

Casali del Barone - Barbaresco 2015


di Luciano Pignataro

Era ora di dare un senso al viaggio di questa bottiglia: la stappiamo su una grigliata di maiale allevato alla vecchia maniera e ci regala le dovute soddisfazioni grazie ad una buona e risolta trama tannica e ad una vivace freschezza. 


Il naso di frutta rossa e conferma l'eleganza assoluta del nebbiolo quando si fa Barbaresco. Lungo, con una chiusura pulita che lascia il palato in attesa del nuovo sorso.

InvecchiatIGP: Cantine Astroni - Piedirosso Campi Flegrei DOC "Tenuta Camaldoli" Riserva 2011


di Luciano Pignataro

L’unità di misura del fascino del vino è il tempo. C’è poco da fare, per gli appassionati e per gli esperti non c’è niente di più bello che viaggiare attraverso le verticali, oppure stappare qualche bottiglia vecchia conservata per l’occasione speciale o trovata per caso in un cassetto, in cantina, dietro un armadio. Come un vecchio libro di cui ti eri dimenticato. Sul rosso il valore del tempo è abbastanza acquisito, sul bianco inizia ad essere un valore anche fra gli addetti ai lavori italiani. Il tempo è importante perché è veramente la linea di confine fra l’industriale e l’artigianale: nel primo caso si punta in ogni modo ad accelerare la produzione, nel secondo si da all’oggetto la possibilità di prendersi cura di se senza ansia di ritmi produttivi esasperati.

Credit: L'Arcante

Ma cosa succede quando per una vita hai pensato che un vino da particolare vitigno non avesse bisogno di troppi anni per essere al massimo, al nadir della sua linea evolutiva e vieni poi contraddetto da una bottiglia tirata fuori da una cassettina di legno che avevi lasciato in un angolo? Succede l’ennesimo miracolo del vino, rimanere spiazzati e imparare nuove cose, perché poi è questo il fascino vero, il socratico sapere di non sapere. La persona colta usa condizionali e congiuntivi, l’ignorante l’imperativo e punti esclamativi.


Insomma, questo Piedirosso Tenuta Camaldoli 2011 come è stato? Per i giochi misteriosi della cabala, lo avevamo provato giusto dieci anni fa con molta curiosità perché si tratta della prima annata di questa etichetta. L’idea di Gerardo Vernazzaro è stata di riprendere ciò che di positivo c’era nella vinificazione del passato coniugandolo alle conoscenze moderne: un Piedirosso importante, con vigne affacciate su Agnano, le Isole e la città di Napoli, dentro la città, su suolo tufaceo di proprietà di Cantina Astroni. 
Così scrivevo nel 2014: “Vinificato in tino di ciliegio e affinato in legno di castagno usato in passato per la Falanghina Strione, poco più di mille bottiglie, il primo Tenuta Camaldoli ha il giusto bilanciamento tra l’esigenza di preservare i profumi e quella di avere un pizzico di struttura in più per una migliore stabilizzazione nel tempo. In queste prime battute il vino sembra aver centrato l’obiettivo, ma sarà il tempo a dirci se proprio questa è la strada da seguire”.


Bene, non immaginavo di aspettare tanto tempo, ma la prova è arrivata per caso in una notte cilentana davanti ad un buon fusillo al ragù di castrato. La prima notizia è che il vino ha retto benissimo, a cominciare dal tappo perfetto, ma già in passato avevamo fatto alcune verticali che si aveva dimostrato che il Piedirosso resiste al tempo se ben conservato anche se non può essere paragonato all’Aglianico per il quale dieci anni sono il tempo normale di attesa per lo stappo equilibrato.

Gerardo Vernazzano

Il vino ha conservato sentori di frutta fresca, ciliegia soprattutto, in una cornice fumé leggermente accentuata rispetto ai Piedirosso della zona più giovani. Non avendo problemi di tannini come l’Aglianico, la beva è stata piacevole, equilibrata con un allungo finale amarognolo molto gradevole ed efficace nel ripulire il palato. Ottima la freschezza che ha regalato al bicchiere una buona tonicità. Il messaggio che possiamo lasciare nella bottiglia svuotata è che se lo dimenticate potete goderlo lo stesso acquisendo un pizzico di complessità in più. Pensato per durare quattro, cinque anni, a tredici anni dalla vendemmia si è presentato compatto ed energico.

InvecchiatIGP - Torre a Oriente - Campania IGP Falanghina "Liéo" 2017


di Luciano Pignataro

Che la Falanghina abbia possibilità di invecchiamento è una di quelle frasi che qualche anno fa il generale del “verso giusto” avrebbe inserito fra gli esempi del “mondo al contrario”. Se ne beveva tanta e con voluttà a pochi mesi dall’imbottigliamento e ancora oggi gran parte della produzione tende ad essere venduta prima che inizi la vendemmia successiva. Ma non sono pochi i produttori che si stanno dedicando al viaggio nel tempo con questo vitigno, al pari di quanto ormai si fa con il Fiano di Avellino e, in misura minore, con il Greco di Tufo. Il suolo vulcanico e le escursioni termiche sono comunque due precondizioni per ottenere vini capaci di affrontare questo tema.


Dopo Fontanavecchia a Torrecuso, ecco allora un’altra azienda, Torre a Oriente di Patrizia Iannella, siamo sempre nello stesso comune alle falde del Taburno in provincia di Benevento, che propone un Falanghina con tempi più lunghi. Per la verità lo fa da tempo con una etichetta, il Biancuzita, nome dialettale della stessa uva: viene infatti proposta a un anno dalla vendemmia. Adesso il salto di qualità, l’occasione per la presentazione è stato un progetto chiamato Triodiversità che ha messo insieme il tridente della nostra cultura gastronomica mediterranea: vino, grano e olio in collaborazione con Masseria Roberti e la Cantina Pietrefitte.


Ma torniamo alla nostra Falanghina. Partiamo dal prototipo chiamato 20+1+1 così chiamata perché parte da una vasca della calda vendemmia 2011 lasciata riposare a lungo in via sperimentale per vedere l’evoluzione nel corso degli anni. Noi l’abbiamo provata e dobbiamo dire che è semplicemente perfetta e pimpante come una persona che ha 11 anni che si affaccia al mondo. A parte il prototipo, il nuovo vino, chiamato Lieo, si affaccia in commercio con l’annata 2017: fresca, ricca, con sentori di frutta croccante e di note balsamica, al palato piena di energia, ampia, lunghissima e con una piacevole e precisa chiusura amarognola. Poco più di tremila in commercio per un bianco di sette anni e che sarà replicato solo in alcune annate particolarmente favorevoli.


Insomma, l’ultimo capitolo della bella avventura enologica di Patrizia Iannella, fortemente sorretta dal marito Giorgio Gentilcore, impegnato nel vicino Fortore nella la coltivazione di legumi e delle olive da cui ricava olii extravergine di oliva di pregevole fattura che rientrano nella produzione dell’azienda. Patrizia, agronoma è una donna tenace. E con tenacia oltre venti anni fa riuscì ad imporsi per dare una svolta alla storia di famiglia, decidendo di coltivare i vitigni storici Aglianico e Falanghina secondo le moderne forme di allevamento, riadattando anche gli antichi sistemi di coltivazione. All’inizio fu scontro, soprattutto con papà Mario. Quel papà che piano piano ha finito di abbracciare pienamente la nuova filosofia, continuando a prendersi cura delle vigne fino al giorno della prematura scomparsa.
Una tradizione che Patrizia ha deciso di rendere protagonista anche a tavola, affiancando alla cantina una bella struttura ricettiva che costituisce una tappa gastronomica sannita da non perdere.

G.R.A.S.P.O. con Slow Food Roma a tutela delle viti centenarie e dei vigneti storici


Potrebbe essere un caso che solo a qualche giorno della partecipazione di G.R.A.S.P.O. (Gruppo di Ricerca Ampelografica per la Salvaguardia e Preservazione dell’Originalità Viticola) al 45mo Congresso Mondiale della Vite e del Vino dell’O.I.V. a Digione in Francia, la stessa importante Organizzazione ritenga opportuno definire il concetto di vecchie viti e di vigneto storico, concetti che da sempre sono al centro dell’azione di G.R.A.S.P.O. come testimoniato nella relazione portata al congresso. L’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (O.I.V.) è un’istituzione intergovernativa a carattere scientifico e tecnico operante nel settore della vite e dei prodotti derivati, fondata nel novembre del 1924 da Italia, Spagna, Francia, Lussemburgo, Tunisia, Ungheria, Grecia e Portogallo.


L’O.I.V. rappresenta oggi 50 Stati membri, non soltanto Paesi produttori di vino, ma anche Paesi consumatori, interessati a conoscere e comprendere quello che avviene nel mondo enologico. Nella sua recentissima risoluzione 703-2024 vengono infatti dati gli indirizzi agli stati membri per la definizione e la tutela di questo importane ed insostituibile patrimonio viticolo.


Vengono infatti evidenziati i vantaggi ambientali, sociali ed economici delle viti vecchie e dei vigneti vecchi, in particolare dal punto di vista culturale e del patrimonio, nonché in termini di immagine e di potenziale sviluppo dell’enoturismo, nonché per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità del settore vitivinicolo, tutti temi sviluppati da G.R.A.S.P.O. anche in occasione del convegno organizzato da MUVIM a Verona sui Musei internazionali del vino.


Per questo anche a Roma presso lo Spazio Fare in occasione di Incontri di Vini coordinati da Andrea Petrini per Slow food Roma, G.R.A.S.P.O. ha voluto sottolineare in premessa gli obiettivi che l’Associazione si è data. I particolare spiegando come le viti vecchie, esistenti in un’ampia varietà di contesti climatici e di terroir, dimostrano l’efficacia delle pratiche viticole sostenibili. Esse rappresentano un esempio di successo in termini di resilienza e adattabilità ai cambiamenti dell’ambiente circostante e contribuiscono anche alla conservazione dei paesaggi viticoli tradizionali e storici e preservano una identità genetica che può tornare molto utile in un contesto climatico in forte evoluzione.
Dato che solo pochi vigneti arrivano a invecchiare, gli studi che si concentrano sui fattori che determinano la longevità e le potenzialità produttive sono limitati, esiste quindi ampio spazio per ulteriori ricerche, specialmente al fine di indagare i fattori che favoriscono la longevità e un rapporto stabile tra resa e qualità sopratutto testando in campo le antiche varietà oggi dimenticate relegate solo in qualche vetusto campo di conservazione.


Così l’appuntamento romano di G.R.A.S.P.O. è stata un’occasione importante per ascoltare dal custode Gianmarco Guarise la cura della piantata ultracentenaria di Urbana vicino a Padova dove la Vernazola, antico vitigno veneto, è maritata al salice o della vecchia vite di Roter Hoertling che troneggia sulla piazza di Margreid in Alto Adige da 423 anni.


Solo alcune delle incredibili storie di vecchie vigne e dei loro testardi custodi che G.R.A.S.P.O. racconta nel suo ultimo libro: 100 Custodi per 100 vitigni. Un libro tutto da bere perchè per ogni vitigno raccontato è possibile finalmente anche degustarne il vino frutto delle tantissime microvinificazioni in purezza realizzate dall’Associazione. Ciò che oggi rende veramente emozionante partecipare a queste esclusive esperienze sono i legami, le connessioni, le parentele di fatto gli incroci naturali che in migliaia di anni la natura, il caso o la sensibilità dei vignaioli più attenti hanno concorso a realizzare.

Si tratta di storie a volte mai scritte e sicuramente mai finite, fino ad oggi, nei calici.

Così Uva Gatta, Cenerente e Gambugliana scorrono per la prima volta in successione raccontando i loro forti legami parentali quasi da nonna, madre e figlia, una effettiva verticale generazionale in chiave Berica. Per non parlare degli incroci pericolosi, ma naturali, che partono da due varietà molto antiche e prolifiche come il Liseiret e la Quaiara che rispettivamente sono storici genitori di due varietà importantissime come Chardonnay e Glera ma che la natura ha voluto casualmente combinare generando una varietà originalissima come la Piccola Nera ritrovata da G.R.A.S.P.O.a Muggia vicino a Trieste.


O il percorso di salvaguardia e tutela fatto da Edoardo Ventimiglia di Sassotondo per un antico vitigno toscano il Nocchianello lavorando in sinergia con il CREA di Arezzo coordinato da Paolo Storchi.


Questi solo alcuni esempi di come i grossi progressi di conoscenza maturati recentemente sulla biodiversità e sull’evoluzione varietale viticola si devono ai nuovi strumenti di analisi messi a disposizione della ricerca dallo studio del DNA. Questi importanti progressi sono frutto di un grande lavoro di squadra, in cui i viticoltori custodi e le collezioni di germoplasma rappresentano un tassello fondamentale dando oggi ai produttori informazioni preziose per rigenerare la storia dei vitigni italiani.

Testimonianze vive che GRASPO sta portando in tutta Italia.

InvecchiatIGP: Cantina Sociale Barbera Sei Castelli - Barbera d’Asti Superiore Nizza 2012


di Carlo Macchi

Le cooperative in Piemonte non hanno mai avuto vita facile e la Sei Castelli è veramente una mosca bianca, specie nel territorio dell’Astigiano. Stiamo parlando di una cantina che raccoglie migliaia e migliaia di ettolitri di vino, al 90% barbera, lo vinifica e poi lo vende sfuso a tantissime cantine, sociali o meno. Anche se lo sfuso riesce a far quadrare il bilancio da circa 20 anni è partito un progetto di selezione dei migliori cloni di barbera che oggi ha portato da una parte ad un’ottima Barbera dal nome evocativo di Risveglio della Vite e dall’altra ad un museo particolarissimo, dove le barbatelle prendono vita e colore e portano lo stupito visitatore a fantasticare su animali e mondi fantastici.


Seduti accanto a queste “barbatelle di mondi e animali fantastici”, una bella serie di assaggi assieme all’enologo Enzo Gerbi ci avevano presentato un quadro molto positivo sul livello del loro imbottigliato (una minimale parte rispetto allo sfuso e quindi selezionato con grande attenzione), quando Enzo ha detto “Ma perché non proviamo un Nizza di qualche anno?”


Dovete sapere che tra me e il Nizza non è mai corso buon sangue: quasi sempre dosi pantagrueliche di legno nascondono delle ottime barbera e anche se negli ultimi anni le cose sono cambiate l’amore non è mai sbocciato. In più l’annata scelta è stata la 2012, tra le più calde degli ultimi 20 anni: tutto questo mi metteva in allarme ma come potevo dire di no?


Si stappa, lo mettiamo nel bicchiere e comincio a recitare il mea culpa: NON sento sentori cotti, NON sento legno mal dosato, ma anzi trovo prima note fruttate polpose e fresche e poi addirittura sentori floreali. In bocca spicca (e siamo nel 2012) la freschezza del vitigno ben amalgamata a tannini dolci e mai disturbata dall’alcol. Mentre parliamo lo teniamo nel bicchiere per una mezzoretta e più volte mi scopro a berne un sorso, così, per puro piacere. Un vino che, oltre a farmi capire che alla Sei Castelli lavorano bene da anni, mi ha tolto alcuni preconcetti sul Nizza. Quindi devo ringraziare questo Nizza 2012 e naturalmente Enzo Gerbi, che non solo l’ha fatto ma me l’ha fatto assaggiare!

Monsupello - Vino Spumante Metodo Classico Cuvée Ca’ del Tava


di Carlo Macchi

Questa cuvée di pinot nero (60%) e chardonnay per metà vinificato in legno non esce tutti gli anni ma uno vorrebbe berla tutti i giorni. 


Al naso il timbro del pinot nero è importante ma in bocca la finezza dello chardonnay dice la sua. Naso complesso, sorso pieno e suadente, una liquida goduria!

Greek Wine Day: alla scoperta del vino greco in Italia


di Carlo Macchi

Di solito delle manifestazioni si parla prima ma della terza edizione del Greek Wine Day, che si è svolto il primo novembre a Firenze nelle sale dell’Hotel Albani, è sicuramente meglio parlarne dopo per una serie di motivi che, come dicevano un tempo in televisione, vi vado a presentare.



Fegato

Chi organizza manifestazioni sul vino lo sa quanto sia difficile coinvolgere produttori, ancor di più se questi devono arrivare dall’estero. Se poi la nazione dove si svolge la manifestazione non è storicamente una importatrice dei vini di quei produttori gli organizzatori si trovano davanti, visto che si parla di Grecia, ad una mitologica serie di fatiche di Ercole. Ho detto organizzatori? Mi sono sbagliato, volevo dire organizzatore, cioè il nostro Haris Papandreou che di mestiere fa tutt’altro ma è un grande appassionato di vino e soprattutto grande sostenitore dei vini della sua terra. Per questo, per riuscire a portare in Italia 20 produttori greci credo gli siano serviti almeno altrettanti fegati. Lo posso testimoniare dopo ripetute telefonate in cui Haris si sfogava con me per una infinita serie di problemi, tutti poi brillantemente risolti.

Produttori

Fegati a parte il lavoro che ha fatto Haris è stato veramente notevole perché ha portato produttori da ogni parte della Grecia, partendo dalla Tracia a nord e, passando per Santorini, arrivando fino a Creta. Attenzione, a parte il caso di un produttore che si è dovuto operare di urgenza tutti gli altri erano presenti a Firenze, anche se molti non avevano importatori italiani. Abbiamo quindi potuto assaggiare vini mai visti e conosciuti.

Location

Oramai le manifestazioni sul vino sono eventi e si svolgono rigorosamente in una location: quella dove si è tenuto il Greek Wine Day era veramente adatta. Sala molto grande e ben illuminata a 100 metri dalla stazione centrale di Firenze. Un luogo perfetto per la degustazione, anche con spazi dove potersi rilassare e sedere.

Vini

Oltre 120 etichette in degustazione sono un numero troppo grande per poterle degustare tutte e quindi ognuno ha fatto le sue scelte. Personalmente mi sono concentrato sui bianchi con alcune digressioni finali sui rossi.


In generale, i bianchi greci non hanno niente da invidiare a quelli italiani, specie per quanto riguarda ciò che adesso va più di moda, cioè freschezza, sapidità, aromaticità netta ma non eccessiva. Il primo vino/vitigno che viene in mente è l’assyrtiko che fa rima con Santorini, ma durante la degustazione ho assaggiato degli ottimi bianchi a base di vidianò e malagousia. La media, specie per gli assyrtiko è indubbiamente alta, come purtroppo è alta l’incidenza della “voglia di strafare per mettersi in evidenza”, cosa che accade pure in Italia. Quindi bianchi ovattati da dosi inutili di legno, anfore utilizzate solo per poterlo dire, fermentazioni troppo spinte con risultati risibili, facevano da contorno a tanti ottimi bianchi, fatti con grazia e semplicità. 


Ma le eccezioni alla voglia di strafare c’erano e proprio di una queste è giusto parlare, il Blanc des Coteaux 2022 di Thymiopoulos, un uvaggio tra assyrtiko, malagousia, vidianò e aidani maturato in anfora. Un vino finissimo e complesso, di rara pienezza e austerità, che mi ha lasciato veramente a bocca aperta. Sul fronte dei rossi, fermo restando l’importanza dello xinomavro che però trovo quasi sempre con tannini un po’ troppo rustici, voglio parlarvi di quello che potrei definire il pinot nero della Grecia, il Limnio, in particolare nella versione 2019 della cantina Anatolikos. Naso con bel frutto ma soprattutto corpo setoso, equilibrato, rotondo ma con giusta freschezza. I tannini ci sono ma non si sentono e l’insieme sprizza eleganza da tutti i pori. Un rosso moderno e godibilissimo.

Ressa

Uno dei pregi della manifestazione, che ha avuto come importante partner FISAR, è stata la creazione del numero chiuso per i biglietti; quindi, in sala c’era gente ma la ressa di manifestazioni come Merano è stata evitata fin dall’inizio. Quindi tanti buoni motivi a posteriori anche per sperare (fegati di Haris permettendo) in una quarta edizione.

InvecchiatIGP: Mila Vuolo - Colli di Salerno IGT Aglianico 2010


di Roberto Giuliani

Per un certo periodo sono stato in bilico tra preferire l’olio o i vini di Mila Vuolo, vignaiola salernitana che da alcuni anni presenta i suoi prodotti a Terre di Vite.
Poi mi sono reso conto che certe derive mentali me le potevo risparmiare, poiché quei due frutti della terra così diversi, raccontano lo stesso linguaggio, sono figli della stessa mano e quando li assaggi te ne rendi subito conto.


Mila Vuolo ha iniziato a produrre vino con l’annata 2003, la prima veramente siccitosa e difficile da gestire, tanto più con piante davvero giovani. Per primo arrivò l’aglianico, poi il fiano, sotto il controllo dell’enologo Guido Busatto; erano tempi in cui regnava ancora la concezione del rosso opulento, carico di colore e intenso nel gusto. C’è da dire, però, che già il Montevetrano di Silvia Imparato aveva dimostrato ampiamente che si può fare un vino corposo ma anche elegante, facendo da apripista nel territorio cilentano e non solo (anche se in questo caso l’aglianico era presente all’inizio per il 30%, affiancato dal cabernet sauvignon al 70%, in seguito ridotto al 10% per fare spazio a un 20% di merlot).


Mila ha scelto da subito la strada del monovitigno, concentrando l’attenzione sull’aglianico, cercando di farlo emergere con le proprie caratteristiche e lavorando per renderlo il più possibile armonico. La versione 2010, prodotta in soli 6200 esemplari, mostra un pedigree ancora integro, i 14 anni dalla vendemmia non svelano cedimenti preoccupanti, è un aglianico aperto, dal colore granato di buona intensità e dal bouquet che rivela un frutto maturo ben sorretto dall’acidità e da un tannino perfettamente integrato. Narra di prugna e tabacco scuro, cuoio, viole macerate, un velo di carne affumicata, tracce agrumate, in un contesto vivo che si schiude con decisione man mano che si ossigena nel calice.


Impressionante la freschezza che restituisce, una vena balsamica che cancella qualsiasi pesantezza al sorso, lasciando una sensazione ariosa, una bellissima interpretazione del più noto vitigno a bacca rossa campano. Da goderselo con dei saporiti fusilli alla cilentana.

Aganis - Friuli Colli Orientali Refosco dal Peduncolo Rosso 2023 Po’ Folc


di Roberto Giuliani

Aganis è un progetto della famiglia Cecchetto, già proprietaria di Ca’ di Rajo nel Trevigiano. 


Questo Refosco Po’ Folc (poi il fulmine) è decisamente riuscito, profuma di viola, iris, ribes, liquirizia e in bocca tira calci (acidità e tannino) e abbracci (frutto tornito) in perfetta sintonia.


Ingham, il Marsala Superiore nato dalla collaborazione fra il team di Vulcanica Vodka e le cantine Florio


di Roberto Giuliani

Come molti sapranno la storia del Marsala e il suo percorso commerciale hanno vissuto momenti quantomeno complessi. Tutto ha avuto inizio 251 anni fa, quando nel 1773 il mercante di Liverpool John Woodhouse, grande esperto di vini e liquori, giunse a Marsala alla ricerca di una bibita che ricordasse la soda. Arrivato al porto, fu incuriosito da un vino che veniva invecchiato secondo il metodo perpetuum, con cui le botti che contenevano parte del vino consumato durante l’anno venivano rabboccate con vino nuovo, una specie di antesignano del metodo Soleras o più correttamente “Solera y criaderas” (che invece prevede di miscelare, travasare e ripartire in diverse botti partite di vino che hanno in comune il momento della loro elaborazione). Quel vino, così concepito, secondo Woodhouse non sarebbe stato in grado di sopportare viaggi in nave senza rischiare di deteriorarsi. Per questa ragione pensò di fortificarlo con dell’acquavite, la cui alcolicità elevata gli avrebbe garantito una maggiore protezione durante il lungo tragitto di ritorno. Giunto in Inghilterra con una buona partita del prodotto, ottenne velocemente un notevole successo, così decise di tornare in Sicilia e iniziare a commercializzarlo sull’isola utilizzando come invecchiamento proprio il metodo Soleras.


Arriviamo al 1809, ancora una volta è un inglese a contribuire al futuro del Marsala, infatti il mercante di stoffe Benjamin Ingham giunse sulle coste siciliane e approfondì gli studi agronomici dell’uva (grillo), con l’intento di creare un vino di elevata qualità che fornisse la base della produzione del Marsala. Conobbe Vincenzo Florio e ne divenne presto socio, condividendone l’impresa e la commercializzazione in tutto il mondo. Nel 1833 l’imprenditore di origine calabrese fondò le Cantine Florio e iniziò a produrre Marsala in proprio.
Venti anni dopo la situazione era questa: l’intera produzione di Marsala era appannaggio di tre cantine, la Ingham & Whitaker che vantava il 58% del totale, la Cantine Florio per il 23% e la Woodhouse per il restante 19%. Poco dopo, però, Florio riuscì a rilevare la Woodhouse, divenendo in breve il primo produttore di Marsala.

Cantine Florio

La storia continuerebbe con le varie vicissitudini che colpirono la famiglia Florio, dalla fillossera alla crisi economica, ma devo fermarmi qui, pena un racconto chilometrico e faticoso da leggere. Oggi Ingham è un brand di Vulcanica Vodka, nato da un’idea di Stefano Saccardi, grande esperto di spirits, della produttrice vinicola etnea Sonia Spadaro (azienda Santa Maria La Nave) e della socia Serena Bonetti, in collaborazione con le Cantine Florio.


L’Ingham Marsala Superiore nasce da un vino prodotto tra la fascia costiera di Marsala e Petrosino e l’entroterra della provincia di Trapani. Solo uve grillo, coltivate su terreno ricco di terra rossa a base silicea, allevato ad alberello marsalese e in parte a spalliera bassa, con una densità di 4000 piante per ettaro.
La vendemmia viene effettuata tardivamente per consentire una maggiore concentrazione zuccherina negli acini. La fermentazione è a temperatura controllata, per la preparazione della concia si usa mistella, cioè mosto cotto e alcol di origine vinica, necessari ad ottenere la fortificazione.
Poi avviene il cosiddetto “innamoramento”, ovvero l’incontro del vino con la preparazione, che rappresenta il passaggio da “atto a diventare vino” ad “atto a diventare Marsala”. Segue un affinamento in botti di rovere per almeno 2 anni utilizzando il metodo Soleras. Va detto che il Marsala Superiore Ingham, è stato concepito principalmente per la mixology, ovvero per la realizzazione del cocktail Sicilian Martini, ottenuto insieme alla Vulcanica vodka e al cucuncio siciliano, ovvero il frutto della pianta del cappero.


Ma per gli IGP mi sembra più giusto raccontare l’Ingham, Marsala Superiore semi secco: colore oro antico, ambrato, bouquet complesso con note che spaziano su dattero, fico, noce, uva passa, miele di castagno, melassa, croccantino su un sottofondo tra burro caldo e vaniglia.


Al palato esprime una dolcezza contenuta, evitando qualsiasi stucchevolezza grazie anche a un’ottima vena acida. Le sensazioni gustative si arricchiscono di toni affumicati, nocciola tostata e agrumi essiccati, evidenziando un Marsala complesso e sfaccettato, con 18,5 gradi alcolici che fatichi a percepire. Niente male!

InvecchiatIGP: Antoniotti – Bramaterra Doc 2011


Ho conosciuto Odilio e Mattia Antoniotti ormai oltre dieci anni fa quando, con una macchina a noleggio sgangherata, feci un tour dell’Alto Piemonte innamorandomi perdutamente dei vini di questo territorio troppo spesso sottovalutato dai c.d. “esperti di settore”. Ricordo che per arrivare presso la loro cantina, situata in quel luogo incantato che prende il nome di Casa del Bosco, un paesino di poche anime, ho dovuto percorrere una stradina sperduta circondata da boschi all’interno dei quali, quasi soffocati, si intravedevano ettari di vigneti ormai abbandonati perché da queste parti, come scriveva Soldati, il vino viene formidabile, potente e gustoso ma, aggiungo io, se si preferisce la fabbrica e la città ai campi agricoli, questo è il risultato.


Con notevoli sforzi Odilio e suo figlio Mattia, settima generazione vitivinicola della famiglia, portano avanti i loro cinque ettari di vigneti, piantati su terreni vulcanici ricchi di porfido, suddivisi in varie parcelle dove si producono due delle DOC più rappresentative del loro territorio ovvero Coste della Sesia e, soprattutto, Bramaterra. Quest’ultimo vino, prodotto all’interno di sette comuni della zona collinare limitrofa al parco naturale delle Baragge, ha ricevuto la denominazione di origine controllata nel 1979 e la base ampelografica prevede l’utilizzo del nebbiolo, localmente definito spanna, dal 50 all’80%, con saldo finale di croatina (max 30%) e\o uva rara e vespolina, da sole o congiuntamente, per un massimo del 20%.

Mattia Antoniotti

Odilio Antoniotti

Il Bramaterra 2011 di questo InvecchiatIGP lo presi dagli Antoniotti il giorno della mia visita, mi innamorai subito di quell’annata tanto da volerla dimenticare in cantina per capire, con gli anni, come potesse evolvere. L’ho stappato qualche settimana fa, a cena con amici, e il suo colore rosso rubino, lievemente granato, tradiva solo parzialmente i suoi tredici anni. Al naso, confesso, che la partenza non è stata esaltante perchè, nei primi dieci minuti, aveva un olfatto contratto, poco pulito, Antonello Venditti direbbe “chiuso come le chiese quando ti vuoi confessare….”.

Il colore del Bramaterra 2011

Prima di battezzarlo come nobile decaduto abbiamo aspettato, carichi di speranza, così dopo mezz’ora abbiamo riprovato a odorarlo di nuovo e…...cavolo, le cose sono cambiate ed in meglio. Ora il vino si è fatto via via più definito, dettagliato aromaticamente, aromaticamente ha ricordi di cenere, viola passita, spezie scure e tabacco da pipa.


Se l’olfattiva di questo Bramaterra non è proprio all’apice della sua espressività, discorso diverso dobbiamo fare con la gustativa perché il vino, in questa fase, ha proprio un’altra marcia: è ancora dinamico, succoso, ha una cifra alta di freschezza e sapidità ed un gusto di rara raffinatezza. 

Caro Odilio e caro Mattia, chapeau, ci avete fatto emozionare!