Bodega del fin del Mundo - Patagonia IG Blanc de Noir Extra Brut Fin del Mundo


di Carlo Macchi

Dalla Susi al Giardino delle Esperidi a Bardolino sei certo di bere bene e… strano: prendi questo metodo classico Pinot Nero e Chardonnay (80%-20%) che viene dalla fine del mondo e si chiama proprio così.


Dalla Patagonia una bollicina cremosa, piacevole di grande bevibilità, tanto che è finita in baleno.

Belvedere Roero: una certezza per cibo, vino, accoglienza e… prezzi più che giusti


di Carlo Macchi

Partiamo con un profilo basso: il Belvedere Roero è forse uno dei locali con il miglior rapporto qualità/prezzo del Piemonte, a cui si aggiunge una carta dei vini ampia, particolareggiata, praticamente mondiale, che può soddisfare qualsiasi appassionato. Mettiamoci anche il fatto non trascurabile di un’apparecchiatura da locale stellato e last but not least, un’accoglienza calda, amicale ma non invadente e il cerchio si chiude.


In realtà sono partito lancia in resta perché ormai questo locale è una delle mie tappe fisse quando vado in Langa (da Alba sono 25 minuti, da Barolo 35, da Barbaresco qualche minuto in meno) e naturalmente nel Roero, questa terra che in paesini come Monteu sembra staccata dall’ormai frequentatissima terra del Barolo.
Stiamo parlando di un locale di cucina tradizionale piemontese con alcune intelligenti rivisitazioni, che comunque, oltre alla carta, propone un menù Tradizione e uno Fantasia a soli 40 Euro: quattro portate “multiple” (l’antipasto ha sia il Vitello Tonnato che la Carne Cruda e c’è sempre un benvenuto dello chef) non solo cucinate bene ma con materie prime di alto profilo, cosa non sempre facile, adesso, da trovare in zona.


Dopo aver scelto il menù prendi la carta dei vini e ti immergi in un tour mondiale di etichette: da grandi a particolari, tutte proposte con ricarichi quasi da enoteca.
I ravioli del plin erano perfetti (questa volta e le altre) e lo stesso dicasi per il coniglio all’arneis, ma quello che stupisce di questo locale è la tranquilla bravura che vi regna. Sei in campagna in un ambiente bello ma non stellato, però trovi calici di alta gamma, esperti consigli sul vino (esiste anche una carta “per bere bene e facile” con poche e scelte etichette).

Ravioli del plin

Difficilmente ho mangiato 4/5 portate senza avere qualche calo qualitativo ma qui al Belvedere è praticamente una tradizione di famiglia: come detto questa è ormai la sesta-settima volta che ci vengo e ogni volta ho mangiato meglio della precedente.

Coniglio

In stagione più calda il Belvedere mostra il perché del suo nome con una terrazza da dove si può immaginare in lontananza Torino e che spazia sulle belle e verdi colline del Roero.


In definitiva un’esperienza che ogni volta che passo in zona non posso che ripetere e che vi consiglio vivamente. Non dico valga un viaggio di 300-400 chilometri, ma se sei in Piemonte e vuoi mangiare bene, bere meglio e spendere cifre molto ragionevoli il Belvedere è il posto che fa per te.

Trattoria Belvedere Roero
Frazione San grato 47, Monteu Roero
Tel. 3760867945

InvecchiatIGP: Cennatoio - Etrusco 1995


di Roberto Giuliani

In piena epoca di supertuscan, l’Etrusco nasceva come sangiovese in purezza, ma proponendosi nello stile in linea con questa tipologia di vino che tanto interesse aveva riscosso soprattutto all’estero. Ovviamente, quindi, era un vino estrattivo, concentrato, maturato in barriques, doveva colpire l’assaggiatore per struttura e profondità.


Cennatoio ha sede a Panzano in Chianti, è saldamente nelle mani della famiglia Alessi dal 1970, nel tempo è diventata anche azienda biologica certificata.
Il nome deriva da “cenno”, che è legato alla vicinanza con le Stinche Alte, carcere e avamposto della Repubblica di Firenze al tempo dei Medici, dove era abitudine fare “cenni” ai soldati medicei dal cortile della dimora. L’Etrusco è affiancato dal Chianti Classico nelle diverse versioni, da altri supertuscan e da un interessante Vinsanto Occhio di Pernice.


La bottiglia in mio possesso, purtroppo, ha l’etichetta particolarmente deteriorata, frutto di tre anni passati in una cantina interrata con umidità praticamente al 100%, che però non ha fatto male al vino. L’estrazione del tappo è stata difficile ma senza conseguenze, infatti si è spezzato in due, ma la parte rimasta nel collo della bottiglia è stata estratta senza sbriciolarsi. In ogni caso la tenuta era perfetta.
Versato nel calice è subito evidente che, nonostante i 30 anni di vita, il colore è tutt’ora profondo e quasi impenetrabile; mi ha subito colpito la riduzione appena accennata, mi aspettavo odori fastidiosi e coprenti, invece in pochi minuti di ossigenazione ha iniziato ad aprirsi.


Sono emerse note di cacao, prugna e mora in confettura, caffè, liquirizia, chiodo di garofano, sorprendente la quasi assenza di note più evolute, solo cenni di fungo, cuoio, tabacco; con sorpresa noto affiorare delicate sfumature agrumate e di rosa glassata.


Al palato trovo un vino ancora dinamico, con un’acidità viva e un’ottima armonia tra tannino vellutato e frutto maturo ma non marmellatoso. Sinceramente sorpreso da una simile tenuta, segno di quanto sia importante la buona conservazione di un vino ma anche di una materia indubbiamente elevata e ben gestita. Oggi lo apprezzo molto più di quando uscì in commercio.

Fuori Mondo - Toscana Bianco IGT d’Acco 2018


di Roberto Giuliani

Olivier Paul-Morandini, innamorato della Toscana, produce questo vino da coltivazione biodinamica in bottiglia da 1 l, alicante nera vinificata in bianco. 


Sorprendente, freschissimo, sa di mandarino ed erbe aromatiche, intenso e giovanissimo nonostante i 7 anni dalla vendemmia. Un litro ci vuole!

Ca’ della Vigna - Colli Euganei Fior d’Arancio secco VinOrigo 2022


di Roberto Giuliani

Siamo sulla pianura da cui si eleva il colle della Montecchia, noto per la presenza della Villa cinquecentesca Emo Capodilista, nel Comune di Selvazzano Dentro (PV). Qui il territorio è di origine vulcanica e l’uva “Serprina” è stanziale da parecchi secoli, infatti nei Colli Euganei è molto diffuso questo particolare biotipo (clone ISV-VA 4 iscritto nel 2007 nel Registro Nazionale delle varietà di vite) di Glera, la varietà destinata alla produzione del Prosecco, per le sue caratteristiche dà il meglio di sé proprio nei suoli vulcanici. Fino al 2009 il vitigno era denominato Prosecco, ma con l’ingresso delle DOCG Conegliano-Valdobbiadene e Asolo (e per il fatto che in Friuli esiste il Comune di Prosecco da cui alcuni suppongono provenga questa varietà), il nome è stato modificato in Glera. Nei Colli Euganei, ovvero nella provincia di Padova, non c’è solo la Serprina, ma anche una particolare cultivar di Moscato giallo, qui denominata “Fior d’Arancio”, menzionata già in alcuni documenti agricoli del 1879.


Catia Bolzonella e Willem Brouwer, ambedue architetti, lei padovana e lui di Haarlem in Olanda, innamorati del vino e spinti da un profondo rispetto per l’ambiente, nel 2010 fondano l’azienda Ca’ della Vigna, tre ettari vitati e condotti in biologico, una produzione di poche migliaia di bottiglie tra le quali alcune a base di moscato giallo. Per la rubrica Garantito IGP ho scelto questa dal significativo nome “VinOrigo”, vino fermo, non filtrato e non chiarificato.


Come ci raccontano i produttori “L’uva vendemmiata viene trasportata in cantina entro due ore dalla raccolta, dove viene lavata, diraspata-pigiata e confluita in botte di ceramica di forma sferica. Il vino è stato lasciato a contatto con le bucce fino alla svinatura, avvenuta dopo 5 mesi. Prima dell’imbottigliamento viene travasato e deposita brevemente senza l’uso di solfiti. L’uso della botte sferica ha molteplici vantaggi: in fase di vinificazione sulle bucce mantiene il cappello a contatto con il mosto, facilitando l’estrazione del colore; in fase di fermentazione i moti convettivi non sono ostacolati, anzi contribuiscono al mantenimento di una massa omogenea e a un naturale rimescolamento delle fecce fini; i n fase di conservazione lo spessore della parete garantisce un ottimale inerzia termica ed uno scambio omogeneo, il materiale permette il passaggio di ossigeno, senza cedere alcuna sostanza aromatica”. Devo dire che il vino che mi trovo davanti ha una pulizia espressiva notevole, si sente la mano attenta e un lavoro meticoloso in ogni passaggio. Il colore è giallo paglierino intenso con venature oro. Il profumo richiama subito, guarda caso, il fiore dell’arancia, note di agrumi maturi, pesca gialla, mango, uva spina, susina, erbe aromatiche, zenzero.


Bocca freschissima, con una bella carica fruttata che gioca tra la parte fresca e agrumata e quella più matura che spinge leggermente sul tropicale senza ammiccarlo in modo spudorato. La sensazione finale è quasi salina, rinfrescante ma profonda e persistente, con un forte richiamo alla componente minerale, rocciosa. Un bianco dalla personalità coinvolgente, in grado di evolvere a lungo senza timore di cedimenti.

Cantine Lavorata – Bivongi Doc Rosso Riserva 2018

La poco nota DOC Bivongi cela gemme come questo rosso (Greco Nero, Gaglioppo, Calabrese) prodotto da vigneti piantati a Riace. 


Bouquet complesso: frutti rossi, macchia mediterranea, spezie. Trama elegante, freschezza vibrante e lunga persistenza. Un sorso che svela l'unicità di questo terroir calabrese.

InvecchiatIGP: Tenuta Luce – Toscana Rosso IGT “Luce” 1995


Luce, il vino simbolo di Tenuta Luce, quest’anno celebra una prestigiosa ricorrenza: i 30 anni dalla prima vendemmia, datata 1993. Per festeggiare questo importante anniversario, Frescobaldi, proprietario della Tenuta, ha pianificato una serie di iniziative, come ad esempio coinvolgere la Casa d’Aste Christie’s per la creazione di lotti unici da mettere all’incanto oppure – e questo mi riguarda più da vicino – organizzare una serie di degustazioni in tutta Italia, durante le quali far assaggiare a stampa e professionisti del settore alcune delle vendemmie più iconiche di questo vino, , concepito fin da subito come un blend di Sangiovese e Merlot, al fine di associare l’eleganza e la struttura del primo alla rotondità e all’avvolgenza del secondo.


Luce rappresenta per me molto più di una semplice bottiglia di vino” racconta Lamberto Frescobaldi, Presidente Marchesi Frescobaldi, che continua “È un’esperienza, un viaggio personale nella vinificazione, che mi ha permesso di esplorare nuove tecniche e metodi, sia in vigna che in cantina e durante l’affinamento, valorizzando un terroir unico. Ogni vendemmia è stata un’avventura e un’opportunità per approfondire le mie conoscenze e arricchire la mia passione. Luce ha segnato profondamente il mio percorso di vita e di lavoro: è stato il mezzo attraverso cui ho scoperto il mondo, incontrando persone accomunate dalla stessa attenzione per il vino, con cui ho condiviso anche storie e culture.”

Lamberto Frescobaldi

Prima di parlarvi di Luce 1995, degustato all’interno di una verticale che arrivava fino alla 2022, ultima annata prodotta, è bene ricordare ai nostri lettori che la storia di Tenuta Luce ha inizio nei primi anni Novanta ed è segnata dall’incontro di Vittorio Frescobaldi con un altro grande personaggio del vino, Robert Mondavi. Due uomini lungimiranti, che scelsero Montalcino, terra nota per la sua vocazione enologica, per avviare insieme un progetto visionario, mossi dal desiderio di fare un vino che andasse oltre i confini della tradizione, senza tuttavia rinnegarla. A fianco di Vittorio e Robert furono coinvolti sin dall’inizio anche i rispettivi figli, Lamberto e Tim, allora giovani enologi, entusiasti di fare parte del progetto.


Le prime due annate di Luce, 1993 e 1994, vennero presentate insieme nel 1997 stimolando da subito grande curiosità e interesse: Luce venne immediatamente percepito come un prodotto innovativo, dal respiro internazionale e, vendemmia dopo vendemmia, anche dopo la fine della partnership con i Mondavi (2004), il vino ha continuato ad affermarsi sulla scena enologica mondiale tanto da essere esportato oggi in 80 Paesi.


Tornando a Luce 1995, la prima cosa che mi ha impressionato di questo vino è stata la sua inaspettata freschezza figlia di una annata tutt’altro che calda a Montalcino che, in un certo senso, ha esaltato (vivaddio) le caratteristiche uniche del sangiovese tenendo in una sorta di cono d’ombra il merlot la cui morbidezza, stavolta, apportando sfumature preziose senza stravolgere l’identità territoriale del vino. 

Il colore di Luce 1995

Dal punto di vista sensoriale la 1995 mi ha incantato perché il suo naso è un viaggio olfattivo attraverso il tempo, con profumi terziari che si esprimono in tutta la loro complessità: dalla macchia mediterranea all'affumicatura sottile, fino alle note evocative di viola appassita e di frutta rossa matura ma non declinata alla confettura. In bocca, la sua vitalità sorprende, con una succosità che esalta il frutto e una dinamicità che lo rende agile e piacevole. 


La struttura è solida ma elegante e dotata di una bella tensione acida che ne ravviva il sorso. I tannini si sono ammorbiditi con il tempo, fondendosi armoniosamente con gli altri elementi del vino, per un finale lungo e persistente, dominato da una piacevole sensazione balsamica che ne sottolinea la classe. Il vino, per chi vuole informazioni più tecniche, affina per 12 mesi in barrique di rovere francese (66% nuove, 33% di primo passaggio) e per 6 mesi in botti di rovere di Slavonia. Viene imbottigliato dopo 18 mesi.

Luca Leggero – Canavese Nebbiolo DOC “Maura Nen” 2021


I social, se utilizzati correttamente, restano ancora oggi un formidabile strumento per promuovere il proprio lavoro e creare relazioni che altrimenti sarebbe difficile immaginare. Questo lo sa bene Luca Leggero, vignaiolo classe 1990, che proprio grazie a Instagram sta facendo conoscere ai suoi follower la propria attività e il vino che produce sulle colline di Villareggia, alle porte del Canavese. In questo territorio rurale, a pochi chilometri dalla più industriale Torino, Luca — che ha iniziato a lavorare tra le vigne del nonno e del bisnonno già all’età di 15 anni — fonda nel 2011 la sua piccola azienda agraria con l’obiettivo di creare, col tempo, una cantina che riporti in vita due eccellenze locali, guardando al futuro: il Nebbiolo, ottenuto dai cloni di picotendro, e l’Erbaluce.


"Ci sono voluti tantissimi anni - mi confida Luca - ma con la realizzazione della mia cantina, inaugurata nel 2021. il mio progetto ha finalmente preso forma. Dopo aver sognato e immaginato tutto questo, sono davvero felice di poter comunicare il frutto del mio lavoro: dalla progettazione dei vigneti all’impianto, dalla produzione delle prime uve agli esperimenti, fino alla creazione dei nostri vini. Vini che, oltre a possedere qualità organolettiche ben definite e rappresentative del territorio, devono essere sostenibili, soprattutto dal punto di vista ambientale, rivoluzionando le teorie e le pratiche dell’agricoltura e della vinificazione adottate negli ultimi cinquant’anni."


Infatti, i sei ettari di vigneto di proprietà di Leggero, piantati a picotendro ed erbaluce, a cui va aggiunta una piccola parte di dolcetto proveniente da Murazzano (Cn) dove si sta sviluppando un progetto di agricoltura sociale, sono gestiti secondo i principi dell’agricoltura biologica e biodinamica grazie all'utilizzo di microrganismi e macerati autoprodotti per la difesa e la fertilità naturale dei terreni sciolti tipici del Canavese.


In cantina – spiega Luca – lavoro per tutte le mie etichette selezionando le migliori masse che, ovviamente, vanno nel Maura Nen e nel Red Nen ma gli altri vini, ovvero il La Vila e il Turciatura non posso dire che sono vini base perché l’idea alla base della mia enologia è che tutti debbano avere un potenziale di invecchiamento importante”.


A parte il Langhe Dolcetto “Retro”, che fa solo ed esclusivamente acciaio, tutti i vini di Luca Leggero, vengono affinati attraverso l’uso di anfore e botti grandi di rovere.


L’utilizzo delle anfore – afferma Luca – è un omaggio alle antiche tradizioni vinicole, ma non solo. Questo approccio, utilizzato sia per i vini bianchi sia per i rossi, permette al vino di respirare e maturare gradualmente, dando vita a un prodotto più complesso e ricco di sfumature, senza però andare ad alterare gli aromi tipici delle uve. Inoltre, le anfore offrono un ambiente stabile e a temperatura costante, che aiuta a preservare tutte le qualità dei vini nel tempo. Le botti grandi in rovere da 25 e 50 hl, utilizzate esclusivamente per i rossi, permettono sia di lavorare sulla complessità del vino, sia di conferire maggiore volume e persistenza in bocca. Si tratta comunque di un utilizzo dosato, in quanto il lavoro in botte può variare dai 4 ai 6 mesi e al resto ci pensa l’anfora. Per l’Erbaluce, invece, dal 2023 stiamo usando in affinamento anche tonneaux da 500 litri per donare maggiore profondità al vino ma, a differenza dei rossi, si tratta di passaggi molto veloci, per non segnare troppo il vino, pari al 20% della massa totale”.


Tra i rossi di Luca Leggero, quello che mi è rimasto più impresso è senza dubbio il “Maura Nen” 2021. Il nome, che in dialetto piemontese significa “non matura”, racconta bene tutta la difficoltà e l’austerità del legame tra il territorio canavesano e il suo vitigno tradizionale. 


Nebbiolo in purezza dal colore brillantissimo, svela un bouquet elegante e profondo: si apre con profumi di rosa e violetta, che si intrecciano a note mature di prugna e ciliegia, mentre sullo sfondo affiorano accenni di artemia, achillea, accanto a sensazioni scure di terra e spezie. Il sorso è bevibilissimo, più persistente che massiccio, con grana tannica solida ma fine, in un contesto di rara piacevolezza. Bravo Luca!

InvecchiatIGP: Castello di Nipozzano - IGT Toscana Mormoreto 2007


di Lorenzo Colombo

Nel 2007 cadevano i 25 anni dalla prima produzione di questo vino frutto di un blend tra Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc e Petit Verdot, questi vitigni erano già stati messi a dimora presso il Castello di Nipozzano oltre 150 anni fa. Per l’occasione l’azienda dei Marchesi de Frescobaldi ne ha quindi prodotta un’etichetta speciale che riporta la scritta 25 e l’anno d’inizio della sua produzione ovvero 1983 e quello della vendemmia 2007.


Le uve provengono dall’omonimo vigneto (Mormoreto) situto nel comune di Pelago e messo a dimora nel 1976, la prima annata, come già detto, è del 1983 e già l’anno successivo non è stato prodotto, com’è pure avvenuto negli anni 1987, 1989,1992, 1998 e 2002, annate non considerate all’altezza. Il vigneto è situato tra i 250 ed i 300 metri d’altitudine con esposizione sud, vi si trovano due tipi di suoli, i primi sono prevalentemente sabbiosi e ricchi di calcio, i secondi sono costituiti da alberese, ricchi di calcio e con molte pietre. Il sistema d’allevamento è a Cordone speronato con densità d’impianto di 5.800 ceppi/ettaro.


L’annata 2007 è stata caratterizzato da una primavera e da un autunno temperato, con poche precipitazioni. Il mese di luglio è stato molto caldo nella sua prima metà poi le temperature si sono abbassate e ad agosto ha piovuto molto. La maturazione delle uve è avvenuta in ottime condizioni climatiche con giornate calde e soleggiate e notti fresche. Il blend nell’annata 2007 è così costituito: 60% Cabernet sauvignon, 25% Merlot, 12% Cabernet franc e 3% Petit Verdot. Dopo la fermentazione alcolica e la malolattica il vino è stato posto in barriques di rovere prodotte sia con doghe segate che spaccate in parte nuove ed in parte usate, dov’è rimasto per 24 mesi ai quali ne sono seguiti altri sei di sosta in bottiglia.


Ne abbiamo scovata in cantina una bottiglia, in realtà di tratta di una bottiglia da 375 ml che, se ricordiamo bene, ci era stata omaggiata in azienda durante una nostra visita di molti anni fa. L’abbiamo affrontata con un certo timore – era già pronta una bottiglia di riserva - poiché temevamo sulla sua tenuta nel tempo.
Le mezze bottiglie non sono infatti l’ideale per un lungo invecchiamento dei vini, il diametro del loro collo, e di conseguenza il tappo usato, sono gli stessi delle classiche bottiglia da 750 ml, di conseguenza il passaggio d’ossigeno rapportato al contenuto di vino è percentualmente il doppio e questo causa in genere un invecchiamento più precoce. Fatto sta che in questo vino questo fenomeno non ne ha assolutamente inficiato la qualità.


Il tappo, come potete notare dalla foto, è uscito integro e senza nessun segno di colatura, nonostante la bottiglia sia sempre stata conservata coricata.
Altra bella sorpresa l’abbiamo avuta dal colore, di un granato profondissimo, con unghia ancora viva e vivace che sfumava impercettibilmente su note aranciate. Ma è al naso che maggiormente ci ha colpiti, ampio, elegantissimo, senza alcuna sbavatura né impercettibile nota ossidativa, anzi.


Di discreta intensità olfattiva ha i suoi punti forti nell’ampiezza e nell’eleganza dei profumi, terziari ovviamente data l’età, anche se non mancano i sentori fruttati che rimandano alla prugna matura, quasi secca, e alla ciliegia matura, le note sono autunnali, con sentori di sottobosco e humus, balsamiche, con note di spezie dolci, vaniglia, accenni di caffè e cioccolato che ci hanno ricordato i pocket coffee, cogliamo inoltre leggerissimi accenni di liquirizia, pepe e salamoia e note mentolate.


Buona la sua struttura, il vino è asciutto, con tannino ancora vivo e graffiante, il caffè in povere emerge netto accompagnato da sentori di cioccolato e menta, ritroviamo inoltre sia le note di prugna che di ciliegia e gli sbuffi di pepe, buona la sua vena acida come pure la persistenza. In definitiva un gran bel vino.

San Lorenzo - Bergamasca Igp Moscato Giallo “Sentiero del Chignolo” 2022

di Lorenzo Colombo

Tra le numerose varietà di moscato il Moscato giallo è ben presente nella bergamasca spesso dando ottimi risultati.


Come nel caso di questo vino vinificato secco nel quale si colgono sentori d’agrumi e di pesca gialla e, nel fin di bocca, le tipiche note aromatiche del vitigno, soprattutto la salvia.

A lezione di "vini" a ridotto o zero contenuto alcolico


di Lorenzo Colombo

Con il decreto MASAF numero 672816 del 20 dicembre 2024 anche i produttori italiani avranno la possibilità di produrre e commercializzare vino dealcolato. Fino ad ora la produzione di questa tipologia di vini era consentita, ma gli operatori dovevano provvedere ad eseguire la trasformazione in Paesi terzi dove questo procedimento era già ammesso.


Ci siamo quindi accostati con molto interesse alla Masterclass che si è tenuta in apertura del 27° concorso enologico Le Mondial des Vins Blancs, svoltosi gli scorsi 5 e 6 aprile a Strasburgo, interessante lezione dal titolo “Les vins sans alcool” condotta da Bruno Marret, enologo e direttore dell’azienda Côte de Vincent, alla fine della quale abbiamo potuto degustare cinque vini dealcolati.

Bruno Marret

Bruno Marret vanta una notevole esperienza nella dealcolizzazione dei vini, ha infatti prodotto il primo vino (rosso) analcolico dell’azienda Côte de Vincent nel 2002, il motto di quest’azienda recita “Lasciatevi tentare da un nuovo stile di vita, libero dai rischi e dalle conseguenze dell’alcol.” Al di là di quanto assaggiato la lezione è stata decisamente interessante - anche se non abbiamo condivisa in toto quant’espresso - ed ha toccato numerosi aspetti relativi a questa tipologia di vini che ultimamente fa tanto discutere. Ecco un sunto da quant’espresso da Marret che ha iniziato la sua relazione elencando le tre diverse tipologie di vini a basso e/o ridotto contenuto alcolico e senza alcol, le loro caratteristiche e la loro posizione dal punto di vista legislativo.

1) Vini dal contenuto alcolico ridotto: diminuzione del livello alcolico (massimo 20%)
Nessun obbligo di menzione in etichetta (purché rientrino nei limiti minimi alcolici dati di disciplinari di produzione). Si tratta di vini leggeri con caratteristiche organolettiche vicine ai vini da cui derivano.

2) Vini parzialmente dealcolizzati (Low Alcol): la gradazione alcolica dev’essere compresa tra lo 0.5% ed il 9%. Forte impatto sul gusto e grande differenza rispetto ai vini d’origine. Subiscono una forte concorrenza dalle birre e da altre bevande a basso contenuto alcolico.

3) Vini dealcolizzati (no Alcol): gradazione alcolica inferiore allo 0,5%. Non possono rivendicare una denominazione. E’ vietato avere 0% d’alcol, avvero gli analcolici. Forte impatto sul gusto (il che richiede un’educazione). Subiscono la concorrenza con i succhi.

Marret ha poi menzionato i principali momenti storici ed evolutivi di questa particolare tipologia di vini, spingendosi sino ad un ipotetico loro futuro:

1908 – Creazione del primo processo di dealcolizzazione

1970 – Creazione di vino liofilizzato (in polvere) analcolico

1988 – Creazione di due nuovo processi di dealcolizzazione

2002 – Importante lancio economico dei vini analcolici in Francia

2029 – Nuove cose da scoprire

2035 – Il vino analcolico diventa parte delle abitudini del consumo quotidiano

Si è quindi soffermato sulle principali bevande alcoliche preferite dai francesi nel 2024:

Vino - 60%

Birra - 58%

Champagne - 39%

Cocktails - 31%

Sidro - 22%

Altre bevande alcoliche -21%

I non consumatori di bevande alcoliche sono il 14%. I giovani dal 18 ai 25 anni sono il 23%. Ha poi evidenziato che nella maggior parte dei paesi il consumo d’alcol è diminuito, ecco i dati del 2000 e del 2021 in numero di bottiglie:

Francia da 96 a 61

Italia da 85 a 62

Portogallo da 71 a 69

Spagna da 54 a 32

Nota: i dati forniti sono piuttosto diversi da quanto si ritrova in altre pubblicazioni.

Ecco poi la situazione in Francia tra il 2022 ed il 2023:

Un francese su cinque non consuma alcol

E’ aumentato del 25% il numero dei bevitori moderati

Il 24% dei giovani tra i 18 ed i 25 anni non consuma bevande alcoliche

Il 52% dei francesi prevede che consumerà meno alcol

Marret fornisce poi i dati economici relativi al mercato mondiale del “senza alcol” che è di 11 miliardi di dollari.

Sono quindi stati descritti i tre metodi di dealcolizzazione attualmente utilizzati, il loro processo ed il risultato ottenuto

1) Distillazione sottovuoto a bassa temperatura

Evaporazione: Si parte dal concetto che quando un liquido viene scaldato ad un certo punto cambia il suo stato che diventa da liquido a gassoso

Sottovuoto: più si abbassa la pressione più si abbassa la temperatura d’evaporazione.

Cosa succede al vino: semplificando il vino è un mix tra acqua e alcol e le due sostanze hanno temperature d’evaporazione diverse.
Alla normale pressione atmosferica l’evaporazione avviene a circa 78°C per l’alcol e a 100°C per l’acqua.

La dealcolizzazione: ponendo il vino sottovuoto possiamo far evaporare l’alcol a 35°-40°C pur preservando gli aromi

Si ottengono così due prodotti:

· Vino dealcolizzato

· Alcol per produrre delle bevande alcoliche

2) Osmosi inversa

Il sistema permette di separare l’alcol dal resto del prodotto attraverso il passaggio in specifiche membrane. Da una parte di ottiene una miscela d’acqua ed alcol e dall’altra troveremo tutti gli altri componenti del vino molto concentrati.

Reidratazione: a questo punto si separa ed elimina l’alcol dall’acqua attraverso il processo sopra descritto di diversa temperatura di evaporazione dei due elementi oppure utilizzando un sistema ad osmosi a membrana.


Anche in questo caso si ottengono due prodotti:

· Vino dealcolizzato

· Alcol per produrre delle bevande alcoliche

3) Colonna a coni rotativi

Anche con questo sistema il processo prevede sia il sottovuoto come la bassa temperatura. I coni rotanti, creando una maggior superficie di contatto facilitano la distillazione dell’etanolo e della parte aromatica (che avviene e diverse temperature). La parte aromatica viene poi ricomposta con l’acqua.


Si è quindi passati all’assaggio di cinque vini, un bianco effervescente, un bianco fermo, uno rosa e due rossi, vini dei quali non andiamo a scrivere, non avendoli trovati particolarmente attraenti. Entrando più in profondità abbiamo trovato il vino effervescente e quello bianco accettabili “con riserva” mentre sulla qualità degli altri numerosi dubbi permangono, perlomeno questa è la nostra opinione.

InvecchiatIGP: Azienda Agricola Romeo - Vino Nobile di Montepulciano Riserva DOCG Riserva dei Mandorli 2001


di Stefano Tesi

Lo ammetto: mi sono quasi commosso quando dalla polverosa cantina ho tirato fuori questa bottiglia di un caro amico che, purtroppo, non vedo da molto tempo. Anche perché da anni ha ceduto l’azienda cui ha dedicato lunghi meritevoli energie e passione, fatto di cui sono stato testimone diretto. Per il Nobile erano altri tempi, in un certo senso ingenui, tutto pareva andare in una certa direzione e, francamente, stappando questa Riserva non sapevo che aspettarmi. C’erano fermento e tensione, all’epoca. Confidavo insomma nel vino e nel produttore, ma dopo 24 anni che avrei trovato? Temevo un vinone esausto, speravo in un vino vibrante. 
In retroetichetta leggo che fu fatto con Prugnolo Gentile, Mammolo e Colorino, “invecchiato il tonneaux e piccole botti di rovere”. Non restava che procedere.


L’ho aperto con un paio d’ore d’anticipo e ho trovato un tappo integro, quasi perfetto, che però si è spezzato a metà sul più bello per un difetto strutturale. 
Al momento clou, lo verso nel calice e vedo un rubino intenso, pieno e caldo, con un’unghia appena aranciata che certamente non tradisce la veneranda età. Nonostante l’ossigenazione, il naso è fatalmente chiuso all’inizio, ma dopo dieci minuti di permanenza nel bicchiere ed alcuni vigorosi scossoni si apre con un bel frutto maturo e una nota asciutta che solo alla fine concede qualcosa a note terziarie, ma non tracimanti, di liquirizia, terra, sottobosco, grafite e appuntalapis (sorridete pure, ma è così: chi ha fatto le scuole elementari nei tempi giusti sa di cosa parlo), per poi discendere di nuovo su accenni di frutta cotta e prugna.


In bocca, la sorpresa: preconizzavo un vino stanco, lo trovo invece sì solenne e ampio, ma più che vivo, ampio, con avvolgenti note affumicate e poi balsamiche, tutt’altro che seduto, anzi sorprendentemente pimpante, con accenni di freschezza, pienamente integro e un nerbo complessivo, un cipiglio quasi severo, che colpisce e spiazza. Il finale è lungo, con un vago retrogusto di caffè americano. Ed estremamente godibile sullo stracotto domestico ammannitomi dalla consorte per la circostanza. Promosso a pieni voti e con un po’ di amarcord.

I'M Winery - Amurg Zero Feteasca Alba Pas Dosè


di Stefano Tesi

M’era parso interessante già nel caos della tappa fiorentina di Proposta Vini. Risentito con calma questo Metodo Classico moldavo fatto con 100% Feteasca Alba, dai riflessi verdognoli, di marcata varietalità, piacevolmente acidulo e discretamente profondo, m’è piaciuto anche di più. 


Promosso

Pievi: il Nobile di Montepulciano tra ieri, oggi e domani


di Stefano Tesi

Inutile nasconderlo: il progetto “Pievi”, ossia la tipologia “top” di Nobile di Montepulciano creata nel 2020 con lo scopo di esaltare la territorialità del vino, era rimasto finora, agli occhi di stampa e osservatori, una sorta di oggetto misterioso. Non era facile coglierne la logica, i criteri e le prospettive, anche per le molte difficoltà concettuali e formali incontrate nel tempo da un disegno basato sull’articolata combinazione delle vocazioni geologico-storico-agronomiche-paesaggistiche dell’area e concepito suddividendola in dodici U.G.A. (Unità Geografiche Aggiuntive) facenti capo ad altrettante sottozone, individuate ricalcando l’antica scansione plebana del territorio poliziano.


L’unica certezza era che l’operazione mirasse ad essere la leva necessaria per risollevare le sorti di una denominazione sì prestigiosa ma in crisi di identità e in crescente difficoltà, aggravata da un’economia locale fortemente enocentrica (“circa il 70% è un indotto diretto del vino”, rimarca il presidente del Consorzio, Andrea Rossi) e con numeri non trascurabili: 1 mld di euro di valore totale, 65 milioni di euro di valore medio annuo della produzione, 1.200 ha di vigneto a Nobile, 390 a Rosso, oltre 250 viticoltori, 6,7 milioni di bottiglie di Nobile e 2,3 milioni di Rosso immessi annualmente sul mercato, con una previsione produttiva per il Pievi di circa 600 mila bottiglie all’anno ad un prezzo sul mercato (dice un sondaggio Nomisma) tra i 40 e il 100 euro. Ma se nemmeno oggi, in verità, possiamo garantire che sotto il profilo del successo commerciale e di immagine l’operazione sarà destinata a riuscire nell’intento, possiamo invece ascriverci tra quelli che ne hanno capito la filosofia. Filosofia complessa, ma a nostro giudizio lungimirante.


Il merito di averla resa finalmente comprensibile va all’accurata presentazione che (approfittando di una manifestazione allargata a due giorni nell’ambito delle ultime Anteprime toscane) il Consorzio è riuscito a organizzare in occasione dell’Anteprima 2025 del Vino Nobile, a seguito dell’ok sul testo del disciplinare dal Comitato Nazionale Vini del 10 ottobre 2024 e del conseguente decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 5 febbraio scorso, in base al quale la nuova tipologia è potuta andare in commercio quest’anno con l’annata 2021.


Diciamo subito che, per dare un giudizio qualitativo sui prodotti degustati, ci pare oggettivamente presto: le sedute di assaggio riservate ai giornalisti hanno avuto una funzione più che altro didattica, con un panel di soli 19 campioni che non poteva essere considerato significativo. In tal senso sarà molto più probante quello dell’anno prossimo, quando sulla carta potrebbero essere oltre 60 le etichette di “Pievi” sul mercato e, quindi, in preview. Si può comunque già dire che da un lato le differenze tra le diverse U.G.A. sono apparse all’assaggio piuttosto marcate e che, dall’altro, non si sono troppo avvertite certe sfasature stilistiche aziendali che da sempre rappresentano uno dei punti deboli delle altre tipologie di Nobile.


Al di là di questo, la parte più interessante della presentazione è stata quella teorica, allestita nel Tempio di San Biagio (chapeau per la location e l’organizzazione), che ha ripercorso la genesi concettuale del progetto attraverso l’approfondimento degli elementi geologici, storici e enologici.

L’idea di creare la nuova menzione nasce da un iter metodologico che ha visto la partecipazione di tutte le aziende produttrici”, sottolinea il direttore, Paolo Solini, “e che ha portato alla nascita di una visione univoca del nostro vino, supportata dalla ricerca di esperti e anche da evidenze geologiche e pedologiche. A questo reticolo tecnico si è poi sovrapposta, con sorprendente esattezza, la realtà storica emersa dalla consultazione di biblioteche e archivi storici. Da ciò nascono le U.G.A.: Ascianello, Badia, Caggiole, Cerliana, Cervognano, Le Grazie, Gracciano, San Biagio, Sant’Albino, Sant’Ilario, Valardegna e Valiano”.

Queste coincidono con le “comunità distrettuali” del territorio poliziano già individuate catastalmente nel 1823 e determinate dalla progressiva convergenza di fattori storici, geologici, topografici e toponomastici, capaci di determinare le caratteristiche generali del vino, anche a prescindere dai diversi stili aziendali. In questo senso il disciplinare è rigido: la corrispondenza al tipo del vino destinato a diventare “Pieve” deve’essere valutata, prima dei passaggi previsti dalla normativa, da una commissione consortile interna composta da enologi e tecnici. L’uvaggio è vincolato a un 80% di Sangiovese e ai soli vitigni autoctoni complementari ammessi dal disciplinare, con uve esclusivamente prodotte dall’azienda imbottigliatrice.

La parte meno tecnica ma forse più affascinante dell’intera vicenda è però un’altra.

A un certo punto delle ricerche condotte negli anni dalla Società Storica Poliziana per ricostruire la vicenda del Vino Nobile e delle sue articolazioni sul territorio, infatti, nell’archivio della curia arcivescovile ci si è imbattuti in un paio di documenti tanto inediti quanto di fondamentale importanza, entrambi risalenti alla fine del ‘600: il taccuino con cui lo scrivano Niccolò Barbieri riportava, sotto dettatura del priore del convento di Sant’Agnese, Alessandro Mucotti, le tecniche agronomiche ed enologiche usate per produrre il vino di Montepulciano e il libretto “Rubri Apud Politianos Vini Confectio” (“L’Arte di preparare il vino a Montepulciano”) scritto dal celebre gesuita Rodolfo Acquaviva, Rettore del Collegio Poliziano tra il XVII e XVIII secolo.


Si trattava, in entrambi i casi, di veri e propri vademecum enologici destinati ai conventi, o meglio a chi, in questi, sopraintendeva alla produzione di uva e vino. Ruolo importantissimo, considerato che all’epoca agli enti religiosi era affidato il compito di produrre vino destinato ai nobili e che ai religiosi medesimi facevano capo realtà produttive importanti e strutturate. “Quelle annotazioni così approfondite e dettagliate, sebbene basate su osservazione empiriche, prive cioè di qualsiasi fondamento scientifico, dimostrano che nella realtà della Montepulciano dell’epoca già sussistevano una maestria, un’attenzione alle tecniche, una consapevolezza delle differenti vocazioni e consuetudini di zone, climi e suoli del comprensorio assolutamente sorprendenti. I due testi costituivano anche, senza saperlo ovviamente, una sorta di zonazione ante litteram la cui bontà è stata riconfermata dal fatto che le scansioni territoriali tracciate nei manoscritti sono passate, quasi immutate, nei catasti successivi”, spiega con passione il vicepresidente del consorzio, Luca Tiberini. “Barbieri infatti – insiste – scriveva sotto dettatura del suo priore, il quale a sua volta veniva sollecitato dal potere ecclesiastico, destinatario dei benefici economici derivanti dal commercio del vino di qualità. Ecco perché il vescovo raccomandava di raccogliere e trascrivere le esatte tecniche agronomiche e enologiche a cui si ricorreva nelle singole pievi facenti capo ai diversi conventi. Il tutto in conseguenza dell'indirizzo “filosofico” indicato da Acquaviva e sfociato nella necessità per la chiesa di avere norme ed indirizzi codificati che permettessero un prosieguo sicuro ed efficace alla produzione di vino nelle proprietà condotte dalle varie congregazioni. Il tutto nel quadro di ricco ed efficace commercio che a quel tempo si faceva in tutta Europa con il vino Nobile”.

La storia, insomma, continua.

InvecchiatIGP: Tenuta del Cavalier Pepe - Irpinia Coda di Volpe DOC "Bianco di Bellona" 2005


di Luciano Pignataro

“Ciao Milena, sto bevendo il tuo Coda di Volpe di vent’anni fa sulla cucina di mare di Alessandro Feo a Casal Velino nel Cilento. Perfetto!”. 

“Il 2005? E’ la mia prima vendemmia, sono contenta!!!".

Caspita, è il caso di dire, come vola il tempo. E il vino è uno dei suoi marcatori che possono declinarsi in presente, passato e trapassato remoto. Nel senso che bere i vini prodotti prima della tua nascita (ormai evento rarissimo) ti regala un senso di stupore e di immortalità. Bere i vini del passato da quando hai coscienza di cosa significa bere il vino matura un esercizio di memoria e di compiacimento tali da renderli contemporanei. Bere vini che misurano il tempo di un presente che ritenevi tali ma che è invece è misura del tempo che tu, oltre al vino, hai trascorso mette un po’ di ansia.


Sembra ieri, infatti, di quando scrivemmo di una giovane ragazza con l’accento francese declinato in musicalità irpina veniva mandata dal papà Angelo a creare l’azienda di famiglia. Sembra ieri quando Milena ci parlò del Coda di Volpe piantato in grande quantità perché bianco tipico del territorio taurasino (ricordiamo l’Alopegis di Molettieri) e invece, cacchio, sono passati venti anni, venti. E il bianco che avevamo conservato sta in una forma sicuramente migliore della nostra che lamentiamo i primi veri acciacchi della vecchiaia umana.

Milena Pepe

Invece questa cazzo di Coda di Volpe si, è uscita con un colore giallo paglierino carico, vivo ma non spenti, ma si è presentata all’appuntamento perfetta, integra, a cominciare dallo stappo, con ancora l’acidità vibrante che manteneva il ritmo del sorso, il naso ricco di idrocarburi come sempre avviene con i bianchi irpini che superano i dieci anni, in una cornice di cedro candido e di miele di castagno, la beva lunga, corposa, entusiasmante, piacevole.


Cosa dire? Certo non è la prima volta che parliamo di Coda di Volpe in grado di sfidare il tempo e di evolvere bene negli anni. Lo stesso Bianco di Bellona di cui parliamo lo avevamo degustato in una verticale del 2017 e già allora eravamo rimasti stupiti dalla tenuta magnifica. Immaginate allora la sorpresa dopo vent’anni.
Soprattutto in considerazione di due fattori: il primo è che avrebbe potuto sicuramente tenere botta per almeno quattro, cinque anni per quanto era vivo e vegeto nel bicchiere. Secondo, se pensiamo ai nostri primi passi nel mondo del vino quando questa uva era usata per abbassare l’acidità di fiano e greco, allora capiamo come sia evoluta la viticultura negli ultimi anni in grado di fare esprimere vitigni meno commerciali in un modo stupendo. 


C’è bisogno di raccontare le belle esperienze fatte con il Coda di Volpe di Perillo in Irpinia e di Fattoria La Rivolta nel Sannio? Che dire? Bisogna crederci fino in fondo, perché è un peccato usare il petrolio solo per accendere candele e non per far correre una Ferrari. Cazzo!