InvecchiatIGP: Librandi - Val di Neto IGT "Gravello" 2008


di Luciano Pignataro

Ci sono vini didattici, nel senso che sono utili a capire la tendenza del momento in cui sono stati pensati e proposti al mercato. A distanza di tempo, l’aspetto più interessante oltre al profilo gustativo, è capire perché alcuni sono finiti su un binario morto e altri no. Soprattutto sul piano della comunicazione. Gli appassionati più anziani ricorderanno il Gravello, primo Tre Bicchieri in Calabria quando questo riconoscimento cambiava lo stoccaggio di una cantina. Un’era geologica fa, quando internet non era ancora diffuso, non esistevamo siti, blog e tantomeno social. Il riconoscimento del Gambero era il segnale preciso per ristoratori ed enotecari su cosa comprare subito. Dovremmo ricordare questi meccanismi quando oggi ci lamentiamo degli influencer, cambiano gli strumenti, la capacità di approfondimento, ma alla fine la velocità porta sempre e comunque all’ipse dixit. Parlo della grande massa ovviamente, non di tutti.


Ma torniamo al Gravello: fu pensato da Severino Garofano, l’enologo irpino naturalizzato pugliese che ha creato alcuni grandi vini che hanno fatto epoca in Puglia. Un vino che mette insieme il Gaglioppo e il Cabernet Sauvignon, prima annata 1988 di cui abbiamo avuto l’opportunità di parlare ormai sette anni fa proprio nella nostra rubrica quando eravamo giovani e forti.
Era una moda dell’epoca, unire il vitigno locale a quello internazionale. Le ragioni erano diverse, la prima partiva dalla conoscenza decisamente maggiore sul comportamento dei vari Cabernet, Merlot e Chardonnay. Il secondo ragionamento riguardava la leggibilità del vino sui mercati stranieri dell’epoca, ossia spiegare il proprio prodotto partendo dal vitigno internazionale. Questa moda partì dalla Toscana e fu adottata soprattutto dai produttori del Sud che allora si affacciavano sui mercati. L’idea alla base era che il vitigno caratterizzasse l’origine di un territorio tenuto conto della diversità ampelografica del nostro Paese che riflette l’anarchia italiana rispetto alla precisione cartesiana e commerciale dei francesi, sempre portati ad esempio ma mai seguiti nella realtà fattuale.


Severino insieme ai fratelli Antonio Nicodemo Librandi diedero un grande impulso in questa direzione, ricordiamo anche lo Chardonnay, stavolta in purezza, del Critone sul modello di quello di Tasca che, se aspettato, regala belle sensazioni negli anni. Le verticali di Gravello hanno dato sempre belle soddisfazioni, il vino ha tenuto nel corso degli anni anche se la sua esuberanza alcolica e la sua concentrazione, rimasta sostanzialmente immutata negli anni anche quando c’è statio il cambio di enologo in cantina, lo rendono decisamente age rispetto ai gusti degli ultimi anni che puntano a rossi più leggeri e bevibili.


Ma la tenuta di questo Gravello 2008, speso su un robusto piatto di agnello lucano passato al forno, non solo ci riporta a quell’epoca, ma ribadisce che ogni stile in realtà ha una sua ragion d’essere se si abbina al cibo. Al naso profumi fruttati con un corredo leggermente fumé, al palato questo rosso di 17 anni mantiene una grande energia, occupa il palato supportato da una bella freschezza facilitato dai tannini ben levigati. Il finale è lungo, preciso, pulito. Un vino integro e perfetto.

Boccella Rosa - Taurasi DOCG 2017


di Luciano Pignataro

Il Taurasi dei fratelli Soccorso e Luigi Molettieri racconta la campagna irpina di Montemarano, di conferitori che per difendere le viti vinificano in proprio, di operai che tornano alla terra. 


Un sorso tradizionale, legno e frutto ben fusi, lungo, imponente, sulla cucina di territorio è indimenticabile.

Cecchi lancia il nuovo Coevo: con il 2021 si cambia passo (con mini verticale)


di Luciano Pignataro

Viviamo tempi di grandi cambiamenti e il mondo del vino non fa eccezione. Ma senza voler affrontare i massimi sistemi che potrebbero annoiare i nostri lettori, possiamo segnalare il cambio di passo del Coevo, vino iconico di Cecchi, una delle aziende più antiche e conosciute anche dal grande pubblico. Con l’annata 2021 si è infatti deciso di semplificare il blend e restringerlo al Sangiovese della tenuta aziendale Villa Rosa a Castellina in Chianti e al Merlot della Tenuta Val delle Rose in Maremma.


La presentazione è stata fatta all’Enoteca Pinchiorri dallo stesso Andrea Cecchi, che nel 2006 volle questo vino in onore di Luigi, fondatore della azienda nel 1893, accompagnato dalla responsabile di produzione, l’enologa Miria Bracali, e dal direttore commerciale Luca Stortolani. Una occasione anche per fare una mini verticale di questa etichetta in uno dei templi del vino italiano analizzando oltre la prima annata, anche la 2013 e la 2015.

Andrea Cecchi

Il Coevo è un fine che testimonia con la sua esistenza gran parte della storia del vino toscano degli ultimi due cenni, quasi un supertuscan fuori tempo massimo perché unisce i luoghi tradizionali della viticultura regionale alla nuova frontiera maremmana che ha spinto con le grandi uve internazionali, cabernet sauvignon e merlot in primis, ma anche petit verdot e cabernet franc regalando grandi classici famosi in tutto il mondo. Fu anche un modo per l’azienda storica di mettersi al passo con i tempi e il passare degli anni costituisce la cartina di tornasole per misurare la validità di queste etichette.

Miria Bracali

A questo proposito dobbiamo dire che la 2006 ha colpito per la sua freschezza assoluta, regalando al naso sentori di frutta rossa per alcuni versi ancora fresca con leggeri rimandi fumé. Un vino compatto, solido, in cui non è facile distinguere il ruolo dei diversi vitigni perché era concepito non solo come la sintesi di due territori cos’ diversi ma anche come fusione di ben quattro uve diverse, oltre al sangiovese e al merlot, anche il cabernet sauvignon e il petit verdot, questi ultimi due eliminati nell’ultima versione presentata da Pinchiorri. La fermentazione e la macerazione sono state fatte in acciaio, seguite da un affinamento di 18 mesi in tonneaux di rovere francese, poi 10 mesi di riposo in bottiglia. «Coevo 2021 – ha detto Miria Bracali illustra Bracali - è figlio di una stagione che nel suo complesso potremmo annoverare tra le migliori di sempre».


Naturalmente la 2021 apre un mondo nuovo rispetto alle precedenti versioni di Coevo, una svolta emersa con molta chiarezza non solo nel raffronto con la 2006, ma anche con le altre due annate. Appare infatti un rosso maggiormente equilibrato, con i tannini molto ben risolti, al naso note speziate e di frutto ancora scisse, l’acidità decisa ma non scissa, il finale lungo, piacevole dopo un sorso dissetante. Sicuramente quel che colpisce del Coevo, e che mette insieme annate così diverse da ogni punto di vista, è la propensione ad un invecchiamento senza limiti. I quasi vent’anni della 2006 non si avvertivano nemmeno scrutando il colore, rosso rubino vivo. Crediamo che sarà così anche per il 2021, decisamente solido, ma che va aspettato ancora un poco prima di stapparlo.
Del resto l’annata 2021 ha registrato condizioni climatiche favorevoli con un inverno mite e piovoso che ha garantito una buona riserva idrica, sia una primavera fresca che ha supportato una fioritura regolare. L'estate asciutta e le piogge di fine agosto hanno contribuito a una buona maturazione, con la vendemmia fatta tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre. Del resto, questa annata è l’ultima veramente regolare che ci possiamo ricordare se pensiamo alle successive passate fra peronospora, siccità e gran caldo.


I piatti di Riccardo Monco e la sala di Alessandro Tomberli sono stati la degna cornice ad una presentazione elegante e non ostentata, una chiacchierata che è andata in profondità su tutti i temi: il modo migliore per presentare un grande vino di una storica azienda.

InvecchiatIGP: Vigneti Massa - Costa del vento Timorasso 2013


di Carlo Macchi

Ho una teoria che spesso fa sorridere e alzare un dubbioso sopracciglio ma che altrettante volte ci azzecca: i vini assomigliano ai produttori che li fanno (realmente!) e viceversa.
Questa teoria applicata al Costa del Vento 2013 di Walter Massa (nonché a tutti gli altri suoi vini) mi porta inizialmente a non parlare molto bene, dal punto di vista estetico, del mio amico Walter. Diciamoci la verità, se uno incrocia Walter per la strada certamente non si gira a guardarlo, non è un adone, non colpisce l’occhio da un punto di vista puramente estetico, e se specialmente sta parlando con qualcuno il suo modo di esprimersi e di gesticolare non lo mette certo nel mirino di donne in cerca dell’anima gemella.


Il Costa del Vento 2013, scoperto in cantina sotto cartoni pieni di tutto è, all’inizio, proprio così. Non colpisce l’occhio in maniera favorevole perché ha un colore dorato solo un po’ brillante, inoltre il naso sembra tra l’ossidato e il maturo.
Ma prima di proseguire su questa strada due parole su questo vino che oggi si porta in dote 12 primavere. Si parla naturalmente di timorasso, cioè il "Walterigno" ovvero il vitigno che Walter ha riesumato dal niente o quasi circa 30 anni fa e che oggi non è solo il fiore all’occhiello dei produttori del Tortonese, non è solo l’oggetto del desiderio di tanti consumatori, ma lo è anche di qualsiasi azienda langarola di alto lignaggio che ha comprato, compra e comprerà terre nei Colli Tortonesi per produrre questo bianco, la cui storia coincide inopinatamente col suo presente e col suo futuro.


Comunque, la storia di Walter e del Timorasso è stata scritta e riscritta e quindi è inutile tornarci sopra, meglio tornare sopra al Costa del vento 2013, figlio di un’annata fresca/fredda, forse l’ultima che c’è stata in Piemonte fino ad oggi. Mentre sproloquiavo è successo quello che succede quando Walter non solo lo guardi per strada ma ci parli: come Walter ti incanta con la sua profonda conoscenza del vino e del mondo e ti stupisce con le sue idee che spesso sono avanti anni rispetto agli altri, così il Costa del Vento 2013 mi ha incantato perché non solo la pseudo-ossidazione è svanita ma ha tirato fuori aromi in primis di frutta, poi di miele e al massimo dell’espressività note minerali e di idrocarburo di grande finezza e profondità.


L’ho assaggiato e, proprio come Walter, ha stupito me e i commensali perché ha unito a un equilibrio incredibile una profondità di beva che parte dalla grassezza del vino ma si sviluppa grazie alla sua colonna vertebrale acida, che ancora oggi lo sorregge perfettamente. Aprirla, ma soprattutto finirla è stata un vero onore e un grande piacere.


A proposito di aprire, Walter è in prima linea da sempre per quanto riguarda i tappi da usare ed è ormai convinto sostenitore del tappo a vite, però questo vino venne tappato con un Diam 30 (addirittura!) e forse la sua “chiusura” iniziale è dovuta proprio a questo. La morale è che Walter Massa e i suoi vini hanno sempre belle sorprese in serbo (anche in croato… ops!): l’ultima la troviamo sull’etichetta del Costa del vento, che è scritta anche in alfabeto braille. Del resto, anche ad occhi chiusi si capisce che è un grande vino.

Villa Bucher - Umbria Rosso IGT "Auro" 2021


di Carlo Macchi

Orami il cabernet franc in Italia ha assunto il ruolo che merita e quindi chapeau a chi l’ha piantato da 25 anni e in un territorio “secondario”. 


Questo 2021 è balsamico, molto fresco al naso, mentre in bocca c’è setosità tannica, equilibrio, buon corpo. Un vino da scoprire in un territorio da scoprire.

Ma perché avercela con il vino dealcolato?


di Carlo Macchi

Un fantasma si aggira per l’Europa, più in particolare in Italia: il suo nome è vino dealcolato. Da quest’anno il fantasma ha preso forma giuridica ma la discussione tra gli amanti del vino è sempre viva e frizzante, assumendo spesso toni apocalittici
Ora, da storico amante del vino, mi domando che problemi può creare il vino dealcolato a chi non lo vuole bere. Al massimo potrà far storcere il naso se trovato in una carta dei vini o far arrabbiare perché si usa il termine “vino” per definirlo, ma altri motivi non ne vedo.


Vedo invece una serie di vantaggi, in primis per tanti produttori che potranno buttarsi su questo segmento di mercato, attualmente quasi inesistente ma con grosse possibilità di crescita (parlarne male è sempre parlarne e crea interesse) e subito dopo dal punto di vista della politica europea. Come ho già scritto il mondo del vino, italiano e non, nella sua globalità è miope: non vede e non vuole vedere alcuni grossi rischi all’orizzonte, come il grave problema dell’alcolismo in tanti paesi del nord Europa, che li ha portati più volte a chiedere(anche ad ottenere) sanzioni sull’esportazione di alcolici da parte dei paesi produttori di vino.
Pensate che questo braccio di ferro possa continuare in eterno e se ne esca sempre senza conseguenze, oppure è probabile che qualche piccola o grossa restrizione sulla commercializzazione e il consumo del vino possa essere in futuro introdotta?


Il vino dealcolato potrebbe essere la risposta giusta, anche politica, a un mondo che vuole (a torto o a ragione) eliminare o circoscrivere al massimo la voce alcol dalla sua società e questo togliendo poco mercato al vino come l’abbiamo sempre conosciuto. Quelli che sostengono “l’innaturalità” del vino senza alcol li rimando al regolamento comunitario per la produzione del vino, nel quale sono presenti procedimenti e uso di prodotti che possono far impallidire il dealcolare un vino.


Inoltre mi domando perché i detrattori del vino dealcolato non si lanciano con la stessa veemenza contro i vini da 1-2 euro al supermercato, non innalzano barricate contro il commercio internazionale di enormi partite di vino sfuso, di bulk wine, che muove interessi enormi, ha una fiera dedicata a Rotterdam https://worldbulkwine.com/newfront (noto centro vinicolo mondiale…) e sposta letteralmente navi di vino che possono realmente incidere sul consumo di vini di qualità. Detto questo domandiamoci quanto vino dealcolato si può produrre oggi in italia. Esistono pochissimi impianti e per costruirne altri ci vorrà tempo e investimenti importanti. Quindi siamo all’anno zero in tutti i sensi.


Consideriamo comunque che se è stata varato un regolamento a livello nazionale lo si deve alle spinte dei produttori, UIV in prima fila, che lasciano parlare e sparlare gli appassionati e intanto mettono le mani avanti per il futuro, perché nel futuro, per buona pace di tanti accaniti “talevinebani” il vino dealcolato ci sarà e forse sarà anche il minore dei mali. Se avete assaggiato qualche volta vini da 1 euro sapete bene di cosa sto parlando.

InvecchiatIGP: Montevertine - Le Pergole Torte 1997


di Roberto Giuliani

Sono passati 23 anni da quando Sergio Manetti se n’è andato dopo una lunga malattia, il suo Pergole Torte è stato indubbiamente uno dei simboli della “resistenza”; a Radda nel cuore del Chianti Classico, negli anni ’90 era un punto di riferimento per tutti coloro che credevano nel sangiovese come massimo rappresentante di quel territorio, ma direi di gran parte della Toscana. Proprio nell’aprile del 2002, quando morì, scrissi queste parole: “In un’epoca dove la rivoluzione enologica significa uvaggi con vitigni internazionali, uso smodato di barrique, spinta quasi ossessiva verso il “gusto internazionale”, al punto di rinunciare alla denominazione di origine pur di accaparrarsi una fetta di mercato, Sergio Manetti ha dato a tutti una lezione di coraggio, di saggezza e di indipendenza, dimostrando a ragione di che cosa è capace il Sangiovese, quando è vinificato da mani esperte che sanno coglierne ogni piccola sfumatura. Il suo Pergole Torte è il simbolo di questa sua passione, tutt’altro che cieca, che lo ha spesso esposto ad assurde critiche, anche da parte del Consorzio del Chianti Classico, del quale faceva parte, che non gli concesse la DOC perché il suo vino mancava di “tipicità”.”


Il tempo ha confermato che la visione di Manetti era giustissima, tanto che negli anni la denominazione ha rivisto almeno in parte l’apertura ai vitigni internazionali, per giungere al Chianti Classico Gran Selezione, che impone almeno il 90% di sangiovese. Resta il fatto che quell’approccio determinato aveva le sue buone ragioni, dimostrate chiaramente da Le Pergole Torte 1997 che ho estratto dalla cantina, non senza dolore essendo l’ultima bottiglia.


Tappo praticamente perfetto, estratto senza difficoltà, la foto del calice è un po’ ingannevole, il colore è un granato trasparente ancora molto luminoso, vivo, segno che il contenuto deve avere ancora qualcosa di buono da offrire. Lo lascio respirare perché, al netto dei 2 anni in botte, 25 abbondanti è rimasto in bottiglia, chiede disperatamente un po’ di aria pulita.


Si apre, si apre, si libera, spariscono tutte quelle sensazioni di chiuso che lo fanno sembrare sulla via del declino. Invece sorprende per i profumi ancora fruttati che sa esprimere, una ciliegia limpida e succosa, uno stupefacente afflato di arancia sanguinella, ma soprattutto scarseggiano quelle note terziarie spinte che ci si aspetterebbe dopo tutto questo tempo; in realtà si manifestano in modo fugace, di funghi, fogliame, felce, sottobosco, poi tabacco, liquirizia, cuoio, tutto in modo accennato, non definitivo, in un contesto dinamico e stratificato.


L’assaggio conferma un vino che ha ancora una notevole forza, grazie a una bella vena acida che dà impulso al sorso, nascondendo molto bene i segni dell’età e non c’è quell’opulenza che in molti casi contraddistingueva l’annata 1997. Qui la storia è diversa, l’eleganza di Radda vince alla grande, restituendo un vino emozionante e per nulla stanco. Chapeau!

Palazzo Tronconi - Frusinate IGT Fregellae Capolongo 2023


di Roberto Giuliani

Iscritto nel 2009 nel Registro della vite, il Capolongo è tra i vitigni autoctoni recuperati nel comune di Arce (FR). 


Marco Marrocco ne propone una versione di grande impatto, macerato sulle bucce 20 giorni in botti di acacia, profuma di arance gialle e agrumi canditi, elegante e piacevolissimo.

Antonio Buccoliero - Primitivo Èja 2022


di Roberto Giuliani

Antonio Buccoliero è un vignaiolo che ha un piccolo appezzamento nel comune di Sava in provincia di Taranto, passato di mano dal nonno Antonio e poi dal papà Giuseppe, allevato ad alberello, con piante che hanno superato i 50 anni di età.
Due anni fa mi ha presentato il suo progetto denominato Èja, il suo desiderio principale è “fare della mia vigna un museo vivente dell’alberello per tramandare l’amore e la cultura del territorio alle nuove generazioni”.


Una delle particolarità di questo progetto è lavorare in regime di aridocoltura con l’apporto dell’agricoltura di precisione, attraverso l’utilizzo di un drone dotato di un sensore multispettrale in grado di fornire i dati tecnici fondamentali sullo stato delle piante, verificando l’indice di azoto, i microelementi come potassio, magnesio, calcio e ferro, lo stato di maturazione, lo stato di salute e lo stress idrico in determinate fasi fenologiche: pre-fioritura, allegagione, invaiatura, post vendemmia.
Con il supporto di una stazione meteorologica e dei sensori fogliari si possono realizzare dei modelli previsionali, che consentono di fare pochi e mirati trattamenti fitosanitari sapendo prima cosa accadrà in campo, monitorando anche diversi insetti come tignola, tignoletta e cicalina.


Le rese sono sempre molto basse, tra i 35 e i 45 quintali per ettaro; in cantina la fermentazione delle uve, primitivo 100%, viene effettuata con l’utilizzo di lieviti selezionati e dura circa 45 giorni, dopodiché avviene la svinatura e il prodotto ottenuto dimora in barrique usate per oltre un anno, viene poi imbottigliato senza essere filtrato né chiarificato.
L’annata 2022 conferma le impressioni che avevo avuto con la 2021, l’Èja rivela un colore rubino profondo, una trama olfattiva dove il frutto appare ricco e ampio, con note di mora, mirtillo, ciliegia nera, radici, guizzi di cacao, liquirizia e una piacevole vena balsamica.


Al palato colpisce per la notevole spinta acida (superiore alla 2021), che dona al frutto una particolare brillantezza espressiva, arricchita da delicate note speziate, cenni di tabacco; il tannino è ben definito, non aggressivo, la sensazione generale è di grande pulizia, si sente una qualità molto alta e il vino promette una lunga evoluzione.

InvecchiatIGP – Gini: Soave Classico La Froscà 1996


Ho conosciuto i fratelli Sandro e Claudio Gini tanto tempo fa ad uno degli ultimi “Soave Versus” gestiti dal vulcanico Aldo Lorenzoni che oggi, dopo essere andato ufficialmente in pensione, si è rimesso in gioco col bellissimo progetto G.R.A.S.P.O.
Ricordo, sarà stato il 2015, che l’evento prevedeva per la stampa una serie di visite in azienda ed io, come altri, ebbi la fortuna di entrare nella cantina della famiglia Gini dove Sandro, da buon padrone di casa, ci fece degustare tutta una serie di sorprendenti vecchie annate dei suoi Cru tra cui, ovviamente, il Soave Classico La Froscà, uno dei tre Cru storici coltivati dall’azienda assieme al Contrada Salvarenza e al Col Foscarin.


A differenza degli altri due, il vigneto Froscà, incastonato a Monteforte d’Alpone su un pendio esposto a sud-est, si caratterizza per il terreno prevalentemente vulcanico, ricco di ferro e potassio, composizione che fornisce da sempre ai vini un’anima austera e minerale associata ad un’acidità vibrante che ne esalta la freschezza. 
Di questo vino, se qualcuno ha buona memoria, me ne innamorato già perdutamente cinque anni fa quando, descrivendolo in soli 300 battute all’interno della rubrica del venerdì, descrissi questo Soave, senza mezzi termini come un “mostro sacro”. Un’affermazione forte che, per essere definitivamente avvalorata, doveva aver bisogno per forza della prova nel nove la quale, per sua natura, necessita di sacrifici sanguinosi, soprattutto per la mia cantina. Così, qualche settimana fa, non ci ho pensato due volte e ho aperto l’ultima bottiglia che avevo di Soave Classico La Froscà 1996. Sigh!

Il Colore

Aprendo il vino le prime risposte positive arrivano sia dal tappo, ancora perfetto, sia dal colore che ha mantenuto un colore giallo paglierino lucente e vivace come se questo Soave Classico fosse stato prodotto lo scorso anno.


Se la “Canzona di Bacco” parla della fugacità della gioventù, La Froscà 1996 sembra contraddire il grande Lorenzo il Magnifico in quanto al naso il vino non cede nulla alla terziarizzazione rimanendo vibrante e ricco di sfumature odorose di frutta gialla arricchite da cenni floreali di ginestra e acacia. A queste si aggiungono delicate note di agrumi leggermente canditi e pietra focaia.

Sandro Gini

La bocca è stupefacente, ancora oggi sfoggia sapidità a tutto volume, freschezza paradigmatica, concedendo complessità aromatica ancora in accordo col naso. La persistenza è lunghissima. La Froscà 1996, mentre scrivo, mi fa ancora venire i brividi e credo, senza dubbi, che abbia perfettamente superato la prova del nove inserendosi, come mostro sacro, tra i migliori dieci vini bianchi degustati negli ultimi anni!

Antica Hirpinia - Desmòs Fiano di Avellino Riserva 2022


Tra i vini più apprezzati dell’ultimo Beviamoci Sud Roma, questa Riserva di Fiano di Avellino il cui nome, Desmòs, in greco significa “legame” nasce da due ettari di vigna figlia di una pianta madre bicentenaria. 


Bianco di classe, è ricco, appagante e calibrato al sorso. Sfuma sapido e decisamente minerale.

Il Terre Siciliane Igt Black Hole di Cantine Brugnano è un vino per andare oltre i pregiudizi


Immerse nelle dolci colline di Partinico, cuore pulsante della provincia di Palermo, le Cantine Brugnano rappresentano un vero e proprio gioiello enologico siciliano la cui storia è un viaggio nel tempo che si intreccia indissolubilmente con quello del territorio che l'ha vista nascere e crescere. Fondata negli anni '70 dall'intuizione di Francesco Brugnano, la cantina inizialmente si concentrava sull'acquisto di uve da altre realtà agricole per produrre vini destinati principalmente al mercato nazionale. Nel 2022, dopo una lunga pausa produttiva, l’azienda ha rimesso in moto i motori sotto la guida dei fratelli Francesco e Giuseppe Brugnano, terza generazione, che ne riformulano l’identità, salvaguardando la qualità produttiva ma, al tempo stesso, avvicinandosi ad un modo di comunicare più contemporaneo e vicino al consumatore. 


“Essere giovani ti dà il vantaggio di avere tempo per realizzare sogni e per vedere realizzati i tuoi progetti, ma allo stesso tempo, riprendere l’azienda di famiglia e il sogno di fare vino, dopo un lungo stop, ti fa avvertire un forte senso di responsabilità – dice Francesco Brugnano -. La passione, tuttavia, è sempre il motore che ci spinge a fare ciò che desideriamo e alla lunga anche di più di quello che abbiamo desiderato. Ho due figlie e vorrei lasciare a loro un futuro migliore e, se lo vorranno, la possibilità di portare avanti il sogno di tenere alto il nome della Sicilia del vino”.

Giuseppe e Francesco Brugnano

Oggi l’azienda si estende per circa 90 ettari di cui 72 vitati su terreni collinari divisi in più appezzamenti, che partono da circa 300 – 350 metri s.l.m. nella zona dell’Alcamo Doc, nel trapanese. Si aggiunge, nel cuore della campagna di Partinico, un appezzamento che sfiora i 650 metri di altitudine in contrada Mirto. Tra i vitigni coltivati, spiccano i classici autoctoni siciliani come Nero d'Avola, Grillo e Catarratto, ma non mancano varietà internazionali che, adattandosi nel tempo al terroir di riferimento, esprimono caratteristiche uniche ed inimitabili.


Tra la gamma di vini prodotti da Cantine Brugnano, un’attenzione particolare merita il Terre Siciliane Igt Black Hole 2022 (100% nerello mascalese), audace interpretazione di uno dei vitigni simbolo dell’Etna che, nelle mani dei fratelli Brugnano, assume una chiave completamente nuova. Coltivato all’interno dell’areale della DOC Alcamo, a circa venti chilometri dalla costa, in una zona perciò particolarmente ventilata e influenzata dalla brezza marina, questo Nerello Mascalese esprime una personalità unica che deriva già dal nome, Black Hole, che fa riferimento al desiderio di andare “oltre”, di esplorare qualcosa di ignoto, di nuovo, senza pregiudizi.


Chi si aspetta di bere un vino corposo e strutturato andrà incontro, infatti, ad una cocente delusione perché, fortunatamente, questo nerello mascalese in purezza ha un profilo organolettico contemporaneo e sorprende per il peso specifico contenuto, rivelando un’anima più agile e fresca rispetto a quanto ci si aspetterebbe da un rosso così intenso. Black Hole è un vino vibrante, avvolgente e dal finale delicatamente iodato che, ne sono sicuro, non potrà non piacere invitando ad un nuovo assaggio.


Nota tecnica: fermentazione con macerazione per 18-20 giorni sulle bucce. La fermentazione malolattica avviene in barriques di secondo e terzo passaggio. Affinamento in vasche di cemento per 14 mesi.

InvecchiatIGP – Az. Agr. Zof: Colli Orientali del Friuli Doc Schioppettino 2002


di Lorenzo Colombo

Lo Schioppettino è un vecchio vitigno friulano la cui sua diffusione è limitata alla parte orientale del Friuli-Venezia Giulia dove viene utilizzato nelle Doc Friuli Colli Orientali e Friuli Isonzo, e nelle Igt Trevenezie e Venezia Giulia.
La sua superficie vitata, seppur in crescita negli ultimi anni era limitata, secondo il censimento agricolo del 2010, a 154 ettari, mentre il corposo volume Which Winegrapes are Grown Where? dedicato a tutti i vitigni del mondo ne regista unicamente 87 ettari nel 2016, 67 dei quali situati in Friuli Venezia Giulia.
La sua presenza più significativa si registra nella zona di Prepotto, in particolare nella frazione di Albana, anche se è rintracciabile in tutta la media collina friulana, sconfina anche in Slovenia con particolare presenza nella Vipavska Dolina.
Sull’origine del nome ci sono molte supposizioni: quella di maggiore credito lega il termine schioppettino al piacevole effetto prodotto dall’uva matura quando viene masticata, che “scoppietta” per la buccia spessa e tesa, altri invece associano il nome allo “scoppiettìo” del vino al palato, dato che in passato era spesso leggermente frizzante. Tradizionalmente lo Schioppettino si beveva giovane – apprezzandone la marcata acidità, la lggera componente tannica e la contenuta struttura – ma molti produttori hanno dimostrato che il vitigno è capace di evolvere elegantemente con un moderato invecchiamento, sprigionando una bella fruttosità accompagnata da un’elegantissima vena speziata, che ricorda in particolare il pepe nero.


La storia dello Schioppettino – conosciuto anche con il nome di ribolla nera – è piuttosto singolare e prende avvio qualche secolo fa. Nell’Ottocento il Di Rovasenda citava una ribolla nera proveniente da Udine, mentre Marinelli – descrivendo agli inizi del Novecento la rinascita della viticoltura friulana dopo la fillossera – indicava tra i vitigni maggiormente coltivati la ribolla gialla (detta rebula in lingua slovena) e la ribolla nera, chiamata anche pokalza o Schioppettino. Nel passato il vitigno godeva di buona fama, tanto che nel 1907, il Consorzio antifilosserico friulano ne consigliava l’utilizzo per i reimpianti, confermandone così l’adattamento all’ambiente e, implicitamente, anche il pregio enologico.
Nel 1921 l’Associazione Agraria Friulana pubblicò nel suo bollettino un elenco delle varietà di viti coltivate in Friuli nel secolo precedente, fra cui si citava la Ribolla nera, con un’annotazione che la dichiarava originaria di Prepotto e la definiva “uva delicata”. Nella sua “Guida delle Prealpi Giulie” del 1912, Olinto Marinelli riferendosi al distretto di Cividale, scrisse: “… fra i maggiormente coltivati sono la Ribolla, il Refosco, il Refoscone, il Verduzzo, la Pokalça … da un documento del 1282 (F. Musoni, G. Sirch, per nozze Rieppi-Caucig. Cividale, tip. Fulvio 1910) si ricava che già in allora la conca di Albana-Prepotto era in gran parte vitata …”


Il vitigno viene citato anche dal Poggi, nel 1939 che così scriveva: “… vitigno che è coltivato quasi esclusivamente nel territorio collinare e pedecollinare del comune di Prepotto e specialmente nella sua frazione di Albana. La Ribolla nera, al di fuori del suo ambiente optimum, anche alla distanza di pochi chilometri, dà un vino che non possiede più quelle caratteristiche peculiari che lo rendono pregiato in quel di Prepotto col nome locale di Schioppettino …”


Lo Schioppettino però ha subìto anni fa una serie di soprusi – toccati anche ad altre varietà autoctone friulane, come il pignolo e il tazzelenghe – culminati nella sua messa fuori legge (nel senso di cancellazione dai registri delle varietà coltivabili, che di fatto proibiva l’impianto del vitigno) nel 1976 e deve la sua sopravvivenza agli abitanti del Comune di Prepotto, insorti dopo questa legge. Nel 1977 il Consiglio comunale di Prepotto si riunì in seduta straordinaria, con all’ordine del giorno la difesa dello Schioppettino che stava scomparendo, deliberando all’unanimità la richiesta che fosse inserito almeno nell’elenco dei vitigni autorizzati, cosa che avvenne nel giugno del 1977. Nel 1983 un regolamento CEE incluse lo incluse tra i vitigni raccomandati in provincia di Udine e nel 1987 è seguito il riconoscimento all’interno della Doc Colli Orientali del Friuli (ora Friuli Colli Orientali, FCO). Nell’ottobre 2011 la DOC "Colli Orientali del Friuli" ha cambiato nome in "Friuli Colli Orientali", contemporaneamente lo Schioppettino di Prepotto ne è diventato una sottozona situata nella parte sud-orientale della denominazione.

L’azienda

L’Azienda Agricola Zof è situata a Corno di Rosazzo dove dispone di 15 ettari di vigneti costituiti sia dai tipici vitigni locali quali la Ribolla gialla, il Friulani, lo Schioppettino ed il Pignolo come pure dagli internazionali Pinot grigio, Sauvignon blanc, Merlot e Cabernet. 


Dal 1992 l’azienda è guidata da Daniele Zof che s’avvale della consulenza enologica di Donato Lanati. Sono 17 le etichette prodotte, tutte – tranne lo Spumante - commercializzate come Colli Orientali del Friuli Doc.

Il Vino

Il vino che andiamo ad assaggiare appartiene alla linea Classici costituita da nove vini, la scheda tecnica attuale recita che la vendemmia s’effettua a metà ottobre e che la fermentazione avviene in vasche d’acciaio con una macerazione di 15-20 giorni, il vino viene quindi posto ad affinarsi in botti di rovere d’Allier dove rimane sino al mese di luglio successivo, quando viene imbottigliato. Come spesso accade quando andiamo ad aprire bottiglie per le quali non si nutre grande fiducia avevamo preparato il vino di riserva, ma non ce n’è stato assolutamente bisogno, nonostante si presentasse con un color granato di buona intensità con unghia mattonata.


Pulito e di media intensità olfattiva, presenta sentori di frutta a bacca scura matura, ciliegia e prugna quasi in confettura e accenni di cannella, vaniglia e liquirizia.
Mediamente strutturato, un poco smagrito dal tempo, succoso, ancora fresco e vivo, con bella trama tannica e buona vena acida, sentori di liquirizia, radici e spezie dolci, leggeri accenni di pepe, buona la sua persistenza.

San Bernardo - Igt Montenetto di Brescia Marzemino 2022


di Lorenzo Colombo

E’ poco conosciuta l’IGT Montenetto, situata su un promontorio a Sud di Brescia; tra i vitigni che vi si coltivano si distingue il Marzemino utilizzato nel vino che andiamo ad assaggiare.


Fermentazione ed affinamento avvengono in acciaio per preservare i sentori floreali e di frutta fresca del vitigno.

Il Capo di Stato ed altri vini di Loredan Gasparin e Ronco Blanchis


di Lorenzo Colombo

Qualche anno fa, avevamo scritto in merito al Venegazzù - Cru Monopol della Doc Asolo Montello - di Loredan Gasparini andando a tracciarne la storia e riportando quanto ne scrisse nel lontano 1967 André Louis Simon nel suo Wines of the World nel capitolo dedicato ai vini del trevigiano “In questa zona è stato prodotto per decenni uno dei più fini vini d’Italia, il Venegazzù, del Conte Piero Loredan, fatto con Cabernet franc, Cabernet sauvignon, Merlot, Malbec e Petit verdot che viene invecchiato per tre anni in fusti”.

Per chi fosse interessato ecco qui l’articolo completo.

L’azienda Loredan Gasparini è stata fondata nel 1951 dal Conte Piero Loredan, discendente di Leonardo Loredan che fu Doge di Venezia. Dopo essere stato a Bordeaux il Conte decise di mettere a dimora sul Montello i vitigni colà incontrati, ovvero Cabernet sauvignon e Franc, Merlot e Malbec dai quali poi sarebbe nato dapprima il Venegazzù e successivamente il Capo di Stato.
Come specificato nel sopracitato articolo nel 1973 l’azienda viene acquistata da Giancarlo Palla il quale pensa che il territorio del Montello sia adatto anche alla produzione di vini spumanti, così acquista la Tenuta di Giavera del Montello e nel 1976 inizia a produrre, oltre al Prosecco, anche del Metodo Classico. Negli anni Novanta entra in gioco Lorenzo, figlio di Giancarlo che, dopo aver visitato le principali zone viticole del mondo, dà un nuovo indirizzo alla parte agronomica, coinvolgendo dapprima i preparatori d’uva Simonit e Sirch e successivamente adottando l’Indice Bigot per valutare il potenziale qualitativo dei vigneti.


Ultimo passo - almeno per ora - è stato l’acquisto nel 2001 dell’azienda Ronco Blanchis, situata a Mossa, nel Collio goriziano la cui conduzione enologica è affidata a Gianni Menotti, qui si coltivano esclusivamente vitigni a bacca bianca, Friulano, Malvasia, Ribolla Gialla, Pinot Grigio e Sauvignon. Attualmente l’azienda dispone di 60 ettari di vigneti nel Montello, 30 a Venegazzù e 30 a Giavera del Montello (quest’ultima tenuta era stata acquistata negli anni Settanta) per una produzione annuale di circa 400.000 bottiglie. A queste poi s’aggiungono le 50.000 bottiglie prodotte dai 12 ettari di vigneti del Collio.


Nella tenuta di Venegazzù si coltivano principalmente uve a bacca rossa, mentre quella situata a Giavera è destinata ai vitigni a bacca bianca, Glera in primis ed alla produzione di vini spumanti. Le etichette prodotte sono 13, sette di vini rossi, cinque spumanti ed un solo vino bianco.
Abbiamo avuto l’opportunità di assaggiare alcuni vini, in compagnia di Lorenzo Gasparini lo scorso 2 dicembre, eccoli, in ordine di servizio.

Docg Asolo Prosecco Superiore Extra Brut “Cuvée Indigena” 2023

Le uve, Glera in purezza, provengono da un vigneto messo a dimora nel 1975 la cui densità d’impianto è di 2.500 ceppi/ha e la cui resa è di 120 q.li/ha.
La sua produzione prevede una singola fermentazione, ovvero dopo una pigiatura soffice il mosto viene posto direttamente in piccole autoclavi dove rimane per circa sei mesi, la lenta fermentazione, che s’arresta spontaneamente, darà un vino che, a seconda delle annate, avrà un residuo zuccherino diverso e che, nel caso del vino in assaggio è inferiore ai 6 gr/l, collocandolo così nella tipologia degli Extra Brut. La fermentazione avviene utilizzando lieviti indigeni selezionati in azienda.


Color giallo paglierino di discreta intensità, l’effervescenza quasi non si nota nel bicchiere. Media la sua intensità olfattiva, percepiamo sentori di frutta a polpa gialla, mela e pesca gialla. Intenso al palato, cremoso, sapido e succoso, si ritrovano le tipiche note date dal vitigno, ovvero una pera Williams matura, lunga la sua persistenza. 

Collio Friulano 2022

Le uve provengono dai due ettari di vigna posti sulla collina di Blanchis dove il suolo è composto dalla tipica Ponca del Collio composta da marne eoceniche e arenarie, allevato a Guyot con una densità di 4.830 ceppi/ha dà una resa di 65 q.li/ha, per le particolari caratteristiche climatiche di questa vigna i grappoli vengono attaccati dalla Botrytis Cinerea che conferisce un particolare e riconoscibile sapore al vino. Fermentazione ed affinamento avvengono in vasche d’acciaio dove il vino sosta per sei mesi, 8.000 le bottiglie prodotte.


Color giallo paglierino luminoso. Mediamente intenso al naso, fresco, pulito, verticale, vi cogliamo sentori di frutta a polpa gialla e d’erbe officinali.
Dotato di buona struttura, asciutto e sapido, si colgono note di frutta a polpa gialla e di pesca sciroppata, buona la sua persistenza. Un vino particolar e notevole qualità.

Doc Montello Venegazzù “Della Casa” 2019

Primo vino prodotto dal Conte Loredan nel lontano 1951 è composto in maggior parte da Cabernet sauvignon (65%) con una buona presenza di Merlot (30%) e piccole percentuali di Cabernet franc (nell’annata 2019 non è stato utilizzato il Malbec, vitigno solitamente presente in piccola percentuale).
Le uve provengono da quattro distinti vigneti esposti a Nord-Sud a 110 metri d’altitudine su suoli ricchi di ferro, le vigne hanno 25 anni d’età e danno una resa di 90 q.li/ha. La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio e l’affinamento avviene in botti di rovere di 25 e 50 ettolitri dove il vino sosta per 30 mesi.


Granato profondo e luminoso il colore. Buona la sua intensità olfattiva, un poco austero, frutta a bacca scura, speziato, sentori di sottobosco e radici, legno ancora un poco percepibile. Discretamente strutturato, asciutto, austero, trama tannica importante ma ben amalgamata, frutta a bacca scura, radici, spezie scure, legno ancora un poco da integrarsi, lunga la sua persistenza.

Doc Montello Venegazzù Superiore “Capo di Stato”

Nato nel 1964 è frutto di un blend tra Cabernet sauvignon, Merlot, Cabernet franc e Malbec, vitigni selezionati dai vigneti più vecchi tra i quali spicca la vigna denominata “Le 100 piante”, messa a dimora nel 1946. Le vigne si trovano a 110 metri d’altitudine su suoli ricchi di ferro e per questo denominati “ferreto”, la densità d’impianto è di 3.000 ceppi/ha per la vigna più vecchia e di 4.800 ceppi/ha per quella messa a dimora negli anni ’80, l’esposizione è Nord-Sud e la resa è di 65 q.li/ettaro. La vendemmia s’effettua da metà settembre ad inizio ottobre, a seconda delle varietà, l’affinamento del vino, per una durata di 30 mesi, si svolge per il 60% in botti da 25 ettolitri e per il 40% in barriques nuove.
Due le annate degustate di questo vino, assai diverse tra loro, note più calde e morbide nel vino del 2019 che pare più pronto (ci è piaciuto moltissimo), più austero e probabilmente non ancora perfettamente compiuto quello del 2017.


2019 – Profondissimo e luminoso il colore. Molto intenso al naso, balsamico, note dolci, spezie dolci e legno dolce, liquirizia, elegantissimo. Buona la sua struttura, succoso, frutta a bacca scura, spezie, bella trama tannica, sentori di liquirizia, perfetto l’equilibrio tra le varie componenti, lunga la persistenza. Vino dalla notevole qualità.


2017 – Profondissimo il colore, leggermente più intenso rispetto al precedente vino, ancora vivissimo, unghia purpurea. Più intenso anche all’olfatto, più austero, presenta note più scure, radici, spezie scure. Asciutto, austero, presenta leggere note selvatiche, legno ancora un poco in evidenza, lunga la persistenza.

La Sardegna di Vinodabere: 47 aziende ed oltre 200 vini a Roma il 18 e 19 gennaio per scoprire un vero e proprio piccolo continente


Per il terzo anno consecutivo torna La Sardegna di Vinodabere, evento nato per promuovere, e far scoprire a chi non le conosce, la varietà e la complessità vitivinicola di una regione che è un vero e proprio piccolo continente.


47 aziende con più di 200 vini in assaggio

Sabato 18 e domenica 19 gennaio, all’Hotel Belstay a Roma, sarà possibile incontrare ai banchi di assaggio numerosi produttori sardi (47 aziende), in rappresentanza delle tante aree (vere e proprie sub-regioni) dove si produce vino di qualità. Tra più di 200 referenze tra bianchi, rosati, rossi, vini dolci e ossidativi, e perfino bollicine, ci si potrà orientare per apprezzare, come merita, la ricchezza enologica della Sardegna, conoscere i vignaioli che la animano e sperimentare nel calice lo stato dell’arte della viticoltura sarda, giunta ormai a livelli di indiscutibile eccellenza.

Un viaggio attraverso i sensi, dunque, tra le produzioni provenienti dai territori di Alghero, Anglona, Gallura, Mamoiada, Mandrolisai, Ogliastra, Oliena, Orgosolo, Oristanese, Romangia, Sulcis e sud Sardegna, alcuni dei quali diventeranno i protagonisti delle masterclass in programma sabato 18 gennaio (presto maggiori dettagli sul sito vinodabere.it).

Programma

Sabato 18 Gennaio

dalle 13:30 alle 15:30

Apertura banchi di assaggio per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) con richiesta di accredito scrivendo una mail entro il 17 gennaio (e ricevendo poi conferma) a operatorivinodabere@gmail.com

Apertura banchi di assaggio per stampa con richiesta di accredito scrivendo una mail entro il 17 gennaio (e ricevendo poi conferma) a stampavinodabere@gmail.com

Apertura banchi di assaggio per sommelier e assaggiatori ONAV (con tessera in corso di validità da mostrare all’ingresso): kit di degustazione 25 euro.

dalle 15:30 alle 19:30

Apertura banchi di assaggio per il pubblico (kit di degustazione 30 euro con calice incluso), per sommelier e assaggiatori ONAV (con tessera in corso di validità da mostrare all’ingresso kit di degustazione 25 euro).

Apertura banchi di assaggio per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) con richiesta di accredito scrivendo una mail entro il 17 gennaio (e ricevendo poi conferma) a operatorivinodabere@gmail.com

Apertura banchi di assaggio per stampa con richiesta di accredito scrivendo una mail entro il 17 gennaio (e ricevendo poi conferma) a stampavinodabere@gmail.com

Domenica 19 gennaio

Dalle 10:30 alle 13:30

Apertura banchi di assaggio per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) con richiesta di accredito scrivendo una mail entro il 17 gennaio (e ricevendo poi conferma) a operatorivinodabere@gmail.com

Apertura banchi di assaggio per stampa con richiesta di accredito scrivendo una mail entro il 17 gennaio (e ricevendo poi conferma) a stampavinodabere@gmail.com

Apertura banchi di assaggio per sommelier e assaggiatori ONAV (con tessera in corso di validità da mostrare all’ingresso): kit di degustazione 25 euro.

dalle 13:30 alle 19:00

Apertura banchi di assaggio per il pubblico (kit di degustazione 30 euro con calice incluso), per sommelier e assaggiatori ONAV (con tessera in corso di validità da mostrare all’ingresso kit di degustazione 25 euro).

Apertura banchi di assaggio per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) con richiesta di accredito scrivendo una mail entro il 17 gennaio (e ricevendo poi conferma) a operatorivinodabere@gmail.com

Apertura banchi di assaggio per stampa con richiesta di accredito scrivendo una mail entro il 17 gennaio (e ricevendo poi conferma) a stampavinodabere@gmail.com

Per conoscere le aziende ed i vini presenti nei banchi di assaggio e per ogni altra informazione sull’evento collegatevi qui.

Vinodabere (www.vinodabere.it) è una testata giornalistica on line che da anni promuove con i suoi articoli e con i suoi eventi la cultura enogastronomica, dando visibilità a realtà già note e storiche come a quelle nuove e da scoprire. I territori, i vini e le specialità gastronomiche della Sardegna sono sempre stati, sin dalla sua nascita, al centro dell’attenzione della testata giornalistica Vinodabere e del suo direttore Maurizio Valeriani. La Guida ai Migliori Vini della Sardegna (link), giunta alla settima edizione, pubblicata on line tra agosto e settembre 2024, ha visto un numero di letture incredibile (oltre 500 mila).