La Lupinella - Trebbiano Toscano IGT 2018

L'estate sta finendo e bisogna cogliere l'attimo con questo Trebbiano bio da vecchie vigne, fatto in terracotta. Bel colore paglierino, naso vibrante, varietale, pieno di screziature e di richiami al fieno, all'insilato, al prato estivo. Tutte sensazioni che tornano a lungo in bocca, con una sapidità perfetta per la malinconia di fine stagione.




Al Nuovo Arrosto Girato, a Pontassieve, c'è la rosticceria che tutti vorrebbero sotto casa!

di Stefano Tesi


Sarà anche una questione anagrafica, ma adoro quei posti – nel senso di bar, trattorie, ristoranti – rimasti come negli anni ’70 o quasi. Quei posti di periferia o di provincia che, anche quando ebbero la velleità di rimodernare la vetusta osteria fondata dal nonno, rinacquero comunque demodè, perché ispirati a stili “moderni” già un po’ al tramonto. E lo hanno mantenuto in certe tinte improbabili, in certe ceramiche da film poliziottesco, in tendaggi dilavati da miliardi di raggi solari. Naturalmente, in questi locali, l’atmosfera è una cosa e la qualità del cibo un’altra. Di solito si va per estremi, in stretta connessione con l’estetica: o la gente è così soddisfatta da non badare all’apparenza o la cucina è così mediocre che nessun abbellimento potrebbe risollevare l’umore degli avventori.

 


Il “Nuovo Arrosto Girato” delle Sieci, popolare frazione sulla via Aretina, lungo l’Arno tra Firenze e Pontassieve, appartiene alla prima categoria: classica rosticceria da asporto con tavoli al piano superiore (e un assai piacevole quanto fresco dehor sulla piazzetta del paese, almeno finchè le norme anticovid lo consentiranno), atmosfera assolutamente informale, clientela tutta locale o quasi, modi sbrigativi che oscillano tra una giovialità contagiosa e una scontrosità rumorosa (guai ad esempio a non rispettare gli orari o a fare richieste gastronomicamente “strane”: la risposta sarà brusca). 



Le specialità, ovvio, quelle “indispensabili” di una rosticceria toscana, coi suoi alti e bassi: crostini, primi al sugo, carne alla griglia e allo spiedo, rosticciana. Ottima new entry, frutto delle “innovazioni” apportate dalla nuova gestione, i ravioli burro e salvia, una piacevole sorpresa. 



Ma sono almeno due le ragioni profonde per venire qui apposta: i ricchi, saporiti, opulenti, inconfondibili spiedini che escono dal coreografico megagirarrosto piazzato proprio all’ingresso e soprattutto il pollo alla piastra, senza timore di smentite il migliore che io abbia mai mangiato. Cottura perfetta, sapidità ricca, tenero ma consistente, giustamente profumato delle spezie con cui è lardellato. Un piatto da consumare voracemente per il suo retrogusto domestico, che non tradisce le aspettative ma addirittura le arricchisce di boccone in boccone. 



Non ho indagato sulla provenienza degli animali, sui segreti della preparazione o su altre amenità da critico: mi sono lasciato andare a una bella strafogata dell’irresistibile portata, riordinandola più volte e fregandomene pure del vino visto che (anche se siamo in zona Chianti Rufina), me lo sono pappato con un bianchetto senza pretese, frizzante e dissetante.  Conto: primo, doppio secondo e frizzantino a 25 euro. Non so se mi spiego.


Nuovo Arrosto Girato

Via Aretina 178,

Le Sieci, Pontassieve (FI)

Tel 055/ 8309138

Pommery - Champagne Cuvée Luise Brut Nature 2004



Non sono un fanatico del dosaggio zero, ma devo ammettere che questo classicone ti travolge per la incredibile freschezza sin dal primo naso, agrumato e balsamico. Una promessa mantenuta al palato, teso e dinamico. 65 e 35 Chardonnay e Pinot Noir, bevuto su una sfrontata cucina napoletana di mare è stato perfetto

Ferragosto con Cupano e il suo Brunello di Montalcino 2007

Pranzo di Ferragosto, di quelli seri e belli, in famiglia, lontano dalla spiaggia e immerso nella campagna cilentana ai piedi del monte Gelbison. Il capretto locale con le patate è d'obbligo, ma con cosa abbinarlo?



Gira e rigira tra le bottiglie, questa no, è troppo giovane, questa no perché è troppo fine, questa no perché estrema...ecco, questa magnum 2007 di Brunello di Montalcino di Cupano che giace da tempo ormai immemorabile nella vecchia cantina di casa potrebbe andare. Daje!


Ornella e Lionel - Foto: montalcino news


La storia di Cupano nasce negli anni '70 quando Lionel, allora direttore della fotografia di film francesi, e sua moglie  Ornella visitano le terre di Montalcino grazie alla presenza del loro amico pittore Yoran Cazac che li farà innamorare del territorio tanto che, nel 1996, circa venti anni più tardi, la coppia acquisterà la loro tenuta. La proprietà è di 34 ettari con un casale, all'epoca era ancora possibile fare questi acquisti, a 200 metri di altezza con sguardo sul fiume Ombrone in direzione mare. Ma non è solo la storia di Lionel e Ornella ad essere interessante: anche la filosofia di approccio alla produzione è stata pionieristica visto che i circa sette ettari di vigneto, già nel 1998, fanno riferimento alla filosofia biodinamica di François Bouchet In cantina, poi, fin dall'inizio si è fatto uso di lieviti non selezionati e delle barrique di media tostatura che mostrano immediata simpatia per il sangiovese allevato in queste specifiche condizioni pedoclimatiche su suolo argilloso e in parte ciottolato.


Foto: 67 Pall Mall


La 2007 è ufficialmente annata a cinque stelle per il Brunello di Montalcino. Pur non volendo dare un credito definitivo a questa classificazione (ma a quale altra se no?) sappiamo tutti che per gli enologi è stata una vendemmia di incorniciare, estate particolarmente calda, la più calda dopo la 2003 e prima della 2011, che ha portato a piena maturazione le uve. Caldi, ma anche le giuste piogge, con frutta sana in cantina quasi ovunque. Le annate calde non sono di per se una tragedia se si impara a difendere l'uva, anzi sono spesso un trampolino di lancio per chi ha saputo fare bene il lavoro in vigna come dimostrano ancora oggi tanti rossi (ma anche bianchi) del 2003.



In questo caso Cupano ci è apparso un vino connotato da due elementi immediati: la grande bevibilità e la perfetta integrazione tra il frutto e il legno. Al naso ancora note di ciliegia matura, ma anche di tabacco, rimandi balsamici e spezie dolci a contorno di un naso dominato dalla percezione gradevole fruttata. Al palato è morbido, i tannini sono presenti ma perfettamente risolti e levigati dal buon uso del legno e dallo scorrere del tempo. La frutta scorre su una rinfrancante sensazione di freschezza, il vino è tonico, non ha segni di cedimento e vanta un finale piacevole, lungo, pulito. 


Un difetto, se tale vogliamo considerarlo, è la presenza di un po' di residui, ma la vecchia regola di tenere la bottiglia vecchia in orizzontale dal giorno prima ha funzionato bene. Insomma, che dire, un vino di stampo tradizionale, senza colpi di scena olfattivi, ma vero, assolutamente efficace sul capretto al forno. 

Domaine Béatrice et Pascal Lambert - Chinon Les Puys 2015

di Carlo Macchi

Questo grande vino zittisce chi sostiene che il cabernet franc sia un vitigno “freddo”. Biodinamico nel midollo mette d’accordo sostenitori e detrattori. 



Ribes, cassis e mora misti a liquirizia e tabacco al naso: profondo, pieno con un tannino dolcissimo in bocca. Uno spettacolo di-vino!


Focus sul vini della Riviera di Ponente. La Liguria che non ti aspetti!

di Carlo Macchi

La Panda sembra un velocissimo serpentello che scivola tra muretti a secco, vigneti e pezzi di bosco, seguendo sentieri in discesa che fanno sembrare i caruggi liguri delle autostrade. Alla guida un rilassato (lui!) Bruno Pollero di Tenuta Maffone, ci presenta al volo i piccoli vigneti che compongono la proprietà come se fossero familiari a cui dover stringere la mano, pardon, il grappolo. Siamo a Acquetico, frazione di Pieve di Teco, in Alta Valle Arroscia, una delle mete del tour nella Riviera di Ponente, grazie a Vite in Riviera. 


Vite in Riviera è un associazione nata tra una trentina di produttori di vino (due solo di olio per la precisione) che sta cercando di togliere la fitta coltre nebbiosa di conoscenza che stagna sul Ponente Ligure enoico, in quel lungo tratto di costa a ridosso dei monti (o di monti a ridosso del mare, fate voi) che parte quasi da Genova e arriva fino all’oramai conosciutissima e apprezzata Dolceacqua. 
In effetti dal punto di vista della stampa enoica sembra che tra Genova e Dolceacqua sia crollato un gigantesco ponte Morandi e con esso la voglia di conoscere queste terre, che vedono piccoli e piccolissimi produttori lavorare diversi fazzoletti di terra spesso strappati al bosco. Bisogna anche dire che fino a 5-10 anni fa la situazione non era interessantissima, fossilizzata tra nomi storici e un modo di fare vino che serviva giusto per smerciarlo sulla costa durante l’estate. Poi, come mi ha detto una produttrice “Le cose sono cambiate grazie anche a dei giovani meno legati alle convenzioni e più aperti al confronto e alla conoscenza: hanno investito e oggi tira un’aria nuova.” 


Un’aria che, dal punto di vista viticolo punta su pigato e vermentino tra i bianchi e granaccia, rossese e ormeasco tra i rossi. Il nostro tour mi ha visto, assieme a Gianpaolo Giacomelli e Fosca Tortotrelli, impegnato sia sul fronte della degustazione bendata (con quasi cinquanta vini in degustazione) che su quello delle visite in cantina. La degustazione bendata, i suoi risultati e i commenti troveranno spazio sulla nostra guida. In queste righe invece parlerò degli incontri e delle impressioni che ne ho tratto. 

Prima però vorrei fare un salto nel passato e ricordare che il grande Luigi Veronelli amava molto i vini di queste terre come (cit.) “la Granaccia di Quiliano, il Pigato di Albenga, il Rossese di Campochiesa, il Vermentino del Savonese e di Imperia.” 

Questo breve viaggio si svilupperà quindi tra questi vini (e non solo) per provare a ricongiungere il filo che si è spezzato tra il passato e il presente. 
E proprio dalla Granaccia che Lorenzo Turco produce a Quiliano iniziano il viaggio e le mie sensazioni. Lorenzo, nel ristorante annesso alla cantina propone prima la “base” 2018 e poi la selezione Cappuccini.La prima è un’esplosione di frutto e di piacevolezza, con un equilibrio al palato che tiene perfettamente conto della scarna presenza tannica, tipica del vitigno. Qui siamo di fronte a cloni di granaccia (chiamatela pure garnacha o grenache) spagnoli e lo si capisce (ci dicono) dal colore rubino molto tenue. I Cappuccini sono la selezione e, pur apprezzando il vino, lo trovo un po’ ingessato dal pur poco legno usato in affinamento. 
Questo dell’uso del legno e della voglia di fare il “grande vino” è uno dei punti deboli che ho riscontrato in diverse cantine (non solo nel Ponente Ligure, in verità!). In effetti sia che si parli di Granaccia che di Pigato o Vermentino quasi sempre le cantine, dalla Cooperativa Viticultori Ingauni, a Ortovero alle piccolissime realtà come la Vecchia Cantina a Albenga e A Maccia a Ranzo, in modo più o meno marcato puntano su un prodotto passato in legno che spesso porta solo a perdere le già lievi note varietali dei vitigni sostituendole con universali sentori più o meno vanigliati. Per fortuna si tratta sempre di poche bottiglie per azienda ma quella che va cambiata è l’idea che scambia il “grosso vino” per un grande vino, cioè che privilegia l’estrazione all’eleganza, all’equilibrio e alla freschezza. 


A proposito di equilibrio: a giustificare il viaggio sarebbe bastata la certezza che il pigato non è assolutamente più quel vitigno che produce vini da bersi nell’arco di un’estate, anzi. Il suo equilibrio lo raggiunge come minimo dopo 12 mesi, prova ne sia che tutti i Pigato 2018 degustati erano nettamente meglio dei fratelli 2019. 
Purtroppo il mercato richiede il vino giovane ma la strada di far maturare il Pigato “base” o magari una selezione di vigneto per almeno due-tre anni (non in legno!) è quella da intraprendere per far capire le possibilità di questo vitigno. 


Vitigno che si presta bene anche alla produzione di metodo classico, anche se la strada della spumantizzazione intrapresa, per esempio, dalla Vecchia Cantina, è sicuramente difficile e tortuosa per chi produce vini fermi. Stranamente si trasforma bene in bollicine metodo classico anche l’Ormeasco, come ho scoperto da Tenuta Maffone. Del resto delle uve che crescono in vigneti tra i 450 e i 650 metri d’altezza, circondate da boschi e dai contrafforti del Colle di Nava, non possono che avere le caratteristiche di acidità e pH adatte.  Ma, bollicine a parte, forse la sorpresa maggiore di questo viaggio è l’Ormeasco di Pornassio. In realtà si tratterebbe di Dolcetto ma lo ricorda alla lontana perché ha caratteristiche di finezza, freschezza e complessità completamente diverse. Me ne sono reso conto sia da Tenuta Maffone che da Cascina Nirasca grazie a vini che si declinano con una buona potenza e profondità gustativa attraverso gamme aromatiche più fini e meno intense rispetto al Dolcetto di Langa e dove il legno (quando c’è) riesce a dare il giusto tocco senza eccedere. 
Sul Vermentino sospendo il giudizio, anche perché mi sembra un vino “sopportato più che supportato” dai produttori, quello che comunque va prodotto perché c’è da sempre, ma purtroppo oramai quando si parla di Vermentino si pensa ad altre zone e il confronto con Gallura, Colli di Luni e altre zone viene vissuto in negativo. 

Viti ormeasco e pigato


Al contrario il Pigato è il vino che unisce il territorio, che lo fa marciare assieme e gli conferisce identità; un po’ come il Rossese a Dolceacqua che, oltre ad essere indiscutibilmente il vino top del territorio è riuscito a rendere praticamente invisibili i pur buonissimi Rossese di Albenga e Rossese di Campochiesa (Veronelli docet). 
Questi due vini rispetto ai Dolceacqua hanno una leggerezza aromatica solare, una piacevolezza disincantata alla beva, ma quasi non vengano presentati per “vergogna” di avere un prodotto “troppo” semplice e dal colore troppo scarico. Invece dovrebbero essere proprio questi vini rossi da bere freschi, assieme alla Granaccia, il modo per distinguersi: l’Alto Adige con le sue incredibili Schiava dovrebbe insegnare a tutti. 
Mentre Gianni, il mentore factotum che ci ha accompagnato a destra e a manca nel nostro bel peregrinare, ci portava verso la stazione di Albenga passando accanto a distese di basilico e di erbe aromatiche, mi è venuto da pensare a un profumo del giorno precedente, che mi aveva lasciato a bocca (e naso) aperta. Era un misto tra la macchia mediterranea scaldata dal sole e l’odore della terra, dei pini e degli abeti di montagna, il tutto ammantato da un silenzio che, avrebbe detto Paolo Conte, descriverti non saprei. 
Quel profumo, o meglio quei profumi, che ho ritrovato più nei rossi (eh sì, mi hanno proprio colpito) che nei bianchi della Riviera di Ponente li porto con me e vi consiglio di andare a cercarli in una terra enoica oramai “uscita dalla nebbia”.

Fonterenza - Pettirosso 2017


di Roberto Giuliani


Chi le conosce sa che le sorelle Padovani sono qualcosa a parte nell’emisfero di Montalcino, il Pettirosso ne rappresenta l’essenza, un sangiovese nato per essere goduto, ogni giorno, immediato e gustosissimo, con un frutto generoso e una bevibilità trascinante, da farne scorta senza esitazione.

Ca’ Ferri e il fascino dei Colli Eugani declinato in tre annate di Taurilio


di Roberto Giuliani

Come scrivevo giorni fa, il mondo del vino è affascinante anche perché spesso è frutto di scelte improvvise, di cambiamenti di percorso che testimoniano come chiunque possa essere colto da improvvisa passione, non importa se non ha esempi famigliari, né se fino a un attimo prima faceva tutt’altro lavoro.
È quello che è accaduto a Gian Paolo Prandstraller, dopo una vita da avvocato, invece di godersi la meritata pensione, una quindicina di anni fa decide di “osare” l’esperienza di produttore di vino.


Siamo nel Padovano, nel cuore dei Colli Euganei e Gian Paolo punta a due zone ben precise, una nell’area settentrionale nel comune di Torreglia e l’altra più a sud nel comune di Casalserugo.
Torreglia è situata ai piedi del Monte Rua, in un ambiente spettacolare nel cuore del Parco dei Colli Euganei. Si pensa che il nome del comune possa essere dovuto alle numerose torri erette nella zona dopo la caduta dell’Impero Romano, ma altre testimonianze riferiscono di tradizionali lotte fra tori organizzate dal fondatore di Padova, Antenore, come ringraziamento agli Dei.

Vigneti - Fonte: Euganamente

Dopo anni di produzione di due linee ben distinte, la famiglia Prandstraller ha deciso di concentrarsi sui vigneti di Torreglia; le uve sono quelle che da tempo si utilizzano in queste zone, ovvero merlot e cabernet franc, da cui nasce il Colli Euganei Rosso Taurilio, non c’è interesse a espandersi ma a raggiungere la massima qualità possibile, tutti gli sforzi sono concentrati su questo vino, ottenuto da 8000 piante per ettaro che non raggiungono il chilo d’uva ciascuna.
Dopo una macerazione di due settimane, a fine fermentazione il vino matura in barrique nuove e di secondo passaggio per un anno, poi gode di almeno 6 mesi di affinamento in bottiglia. “Siamo una piccola cantina, ma mettiamo molto lavoro e molto amore nel fare un prodotto che pensiamo di qualità”, mi dice Andrea Prandstraller, amministratore dell’azienda.

Le annate che andiamo a raccontare sono 2013, 2015 e 2016.

Colli Euganei Rosso Taurilio 2016, uve merlot e cabernet franc, gradazione 14% vol.
Nonostante le basse rese e la ovvia concentrazione di zuccheri e materia colorante delle uve, non ci troviamo di fronte a un vino dalle tonalità scure e impenetrabili, tipo buccia di melanzana per intenderci, ma piuttosto a un bel rubino vivace che si lascia comunque attraversare dai raggi luminosi.
Accostato al naso rivela una bella intensità di frutto, vibrante e carnoso, di prugna, mora, marasca, ma a dare lustro e conforto alle sensazioni odorose arrivano presto la menta e la liquirizia, venature d’inchiostro e ginepro su una base piacevolmente minerale, ferrosa.
La bocca racconta di una freschezza da grande annata, tannino fine e vellutato, pregevole ritorno di frutta e spezie che si mantengono a lungo, vaghi richiami boisé e di vaniglia che presto spariranno. In divenire ma già decisamente promettente e ben inquadrato, lo attende un lungo futuro.


Colli Euganei Rosso Taurilio 2015, stesse uve e stessa gradazione
Non mi ripeto sulle formalità estetiche da sommelier, il colore del vino è più o meno identico, il cambio di tonalità avviene al naso e al palato; nel primo troviamo un’espressività appena più reticente, un frutto meno espresso sebbene freschissimo (ribes nero e ciliegia), una speziatura elegante e garbata, un legno ben integrato, particelle di terra vulcanica, cioccolato, nessuna presenza vegetale a sentenziare come il cabernet franc maturi molto bene.
Al palato è quasi più giovane del 2016, dal nerbo pimpante, vitale e diretto, senza per questo avere un tannino più rigido, la levigatura è perfetta, nel complesso è finissimo ma tutto in prospettiva, ora godibile ma meno ampio e profondo, sicuramente effetto di un’annata diversa che dovrà fare il suo percorso per mostrare tutte le sue indiscutibili qualità.


Colli Euganei Rosso Taurilio 2013, stesse uve e stessa gradazione
China e cenere, le prime sensazioni che mi sono arrivate appena “sniffato”, liquirizia e cacao poi, prugna sotto spirito; man mano che si ossigena sembra convogliare ciascun sentore in un unico, ben fuso, “suono”, un bel suono che sa anche di sottobosco, muschio, felce, radici, senza però esagerare sui terziari, niente funghi o pelli conciate, il vino è ben eretto, senza cedimenti.
Lo conferma al gusto, dove esprime una ricchezza e una beata solidità, profondo e ben sorretto da un’acidità sotterranea e fondamentale, di quelle che senti solo dopo, quando ti viene voglia di berne ancora… e di mangiarlo con una gallina padovana imbriaga.