Il Barolo Rocche dell’Annunziata 2006 di Mauro Veglio. Modernisti si può!

Durante Radda nel Bicchiere, manifestazione di cui ho parlato qualche settimana fa, si è anche giocato grazie al seminario guidato da Carlo Macchi (direttore di Winesurf) dove, assieme ad altri appassionati, si è cercato di scoprire quali sono le differenze e le similitudini tra il nebbiolo e il sangiovese.


Sei i vini versati alla cieca nel bicchiere, tre grandi Barolo e tre grandi Chianti Classico di Radda erano sottoposti al nostro insindacabile giudizio che, alla fine, ha premiato quasi all’unanimità un grande nebbiolo, il Barolo Rocche dell'Annunziata 2006 di Mauro Veglio che per me, ancora troppo lontano dal Piemonte, era un produttore che non conoscevo.

Figlio di contadini delle Langhe che hanno sempre venduto le loro uve sul mercato dei mediatori e delle grandi aziende commercianti, nel 1992 Mauro Veglio, prese le redini dell’azienda, decide di cambiare rotta seguendo l’esempio dell’amico e vicino di casa Elio Altare e inizia, con una drastica riduzione delle rese per ettaro, a produrre uva da vinificare direttamente nella nuova cantina.



L’azienda attualmente consta di circa 13 ettari, tra La Morra e Monforte d’Alba, e la produzione media annua è di circa 60.000 bottiglie.
Nel vigneto i trattamenti sono ridotti al minimo utilizzando, quando serve, solo zolfo e verderame, o solfato di rame.
Con un vicino come Altare che ha influenzato il modus operandi in cantina, la tradizione lascia il passo all’innovazione: macerazioni brevi a temperatura controllata nei rotofermentatori, nessun uso di lieviti selezionati, affinamento in piccole botticelle di rovere ed imbottigliamento senza ricorso a filtraggi o chiarifiche.
Quattro sono i cru di Barolo prodotti quando l’annata lo consente: Arborina, Gattera e Rocche dell’Annunziata, situati a La Morra, e Castelletto, di proprietà della famiglia della moglie Daniela, nel comune di Manforte d’Alba.

Davanti a me ho il Barolo Rocche dell’Annunziata 2006, l’ultima annata di questo piccolo Cru (0.5 ettari) la cui produzione annua, nelle annate migliori, è di circa 1.800 bottiglie. Alla cieca non avrei mai riconosciuto il produttore, da un “non tradizionalista” che punta sulla bevibilità del vino ti aspetti nel bicchiere un Barolo piuttosto concentrato, rotondo, tutto tranne che “acido”. Errore!
Il vino ha una bella vesta aranciata, trasparente, nulla che faccia capire che si è usato un rotomaceratore per quattro giorni. Il naso è davvero bello, il migliore della giornata, è davvero la quintessenza del nebbiolo con i suoi intensi, eleganti e persistenti aromi di scorza d’arancia, rosa selvatica, erbe, fieno, tabacco da pipa. In bocca l’impronta del produttore si fa sentire nell’ottima bevibilità, qualità surrogata da una struttura dinamica, profonda ed armoniosa. Ottima persistenza.
L’unico difetto? E’ un 2006 e forse è già “troppo” pronto per essere un Barolo. Staremo a vedere in futuro.

Parliamo di pesticidi nel vino?

Appassionato:”Utilizzate prodotti di sintesi in vigna?”
Produttore:”Assolutamente no, pur non essendo un’azienda certificata Bio in vigna usiamo solo rame e zolfo e, in generale, solo prodotti organici. Ripeto, solo se c’è necessità, altrimenti non diamo nulla”.

Quante volte, durante le mie visite in cantina, ho sentito questo ritornello dalla maggior parte dei produttori che, in maniera più o meno convinta, non avevano timore a bollare come diaboliche tutte le pratiche volte ad usare pesticidi all’interno del loro vigneto.


Sono stato sempre fortunato oppure sono state tante le volte che sono stato preso in giro
?


La risposta me la do ogni volta che leggo i risultati delle indagini tese a scoprire cosa mettiamo nel nostro organismo ogni volta che mangiamo e, in questo caso, beviamo un vino.


Il tema non è nuovo. Già nel 2008 se ne occupò la trasmissione Report all’interno della quale Francois Veilleret, esponente di
Pesticides Action Network Europa, attaccò senza mezzi termini la grande produzione francese dichiarando testualmente:Con i nostri colleghi europei abbiamo analizzato qualche decina di bottiglie di vino rosso e abbiamo mostrato che il 100% dei vini che deriva da viticoltura intensiva conteneva residui di pesticidi. In questo vino di Borgogna abbiamo trovato 5 differenti pesticidi. Questi, per esempio, sono possibili cancerogeni, ma anche questo, questo è tossico per la riproduzione e lo sviluppo del feto e questo interferisce con gli ormoni.Questo per la Borgogna. Per il Bordeaux abbiamo trovato una bottiglia contaminata con …uno, due, tre, quattro …9 residui differenti, un cocktail tossico. A livelli a volte molto alti come per questo Bordeaux di alta qualità, c’era un livello di Pirimetanil di 233,8 microgrammi per litro che è 2 mila 333 volte il limite ammesso nell’acqua, nell’acqua da bere, di rubinetto. Più di 2 mila 300 volte, inaccettabile per una sostanza classificata possibile cancerogena
Dopo due anni le cose non sono migliorate, anzi.


L’ultima ricerca pubblicata su Repubblica svela che, per quanto riguarda i prodotti derivati come il vino, su un totale di 1435 campioni, il 2,7% risulta irregolare (era pari a zero lo scorso anno) e ben il 9,3% (+2,8% rispetto al 2008) presenta più residui. In particolare vino e pane sono i prodotti che presentano le principali irregolarità: rispettivamente dell'1,9% e dell'8,8%. Invece, miele e vino presentano il maggior numero di residui.

Tutto qua? No. L’indagine svela che in Friuli Venezia Giulia tre campioni di vino sono risultati contaminati da Procimidone, un fungicida considerato potenzialmente cancerogeno secondo l'Epa, l'agenzia di protezione ambientale degli Stati Uniti, ma non nell'Unione Europea.

Da segnalare, poi, che fino al 30 aprile 2011 alcuni prodotti a base di Rotenone, un insetticida bandito dall'Ue, sono consentiti per l'impiego sulle colture di mela, pera, pesca, ciliegia, vite e patata.

A tutto questo schifo aggiungo una provocazione per i produttori Bio: siete sicuri che il vostro vicino che bombarda il vigneto con tutti i pesticidi del mondo non stia contaminando anche voi?
Purtroppo contro il vento che porta certe sostanze c’è poco da fare. O no?


Ah, dopo tutto questo, la risposta alla prima domanda mi è più chiara!!

Come (mal)trattare un vino!

Tempo fa avevo scritto su Percorsi di Vino che la chiave del vino o clef du vin rappresentava una vera e propria stregoneria che permetteva alla nostra bevanda preferita di ossidare e, quindi, di invecchiare col solo contatto della chiave.
Su Youtube, oggi, è spuntata un'altra caz....ata enologica, una sorta di aeratore del vino che permette a quest'ultimo di ossiginare. Prima di dare giudizi guardate sto video.



Ma che schifo è? Sto tubetto messo dentro il bicchiere o la bottiglia?
Sono sempre dell'idea di aprire, quando è il caso, la bottiglia di vino qualche tempo prima. Questi sono solo aggeggi per farci spendere denaro. O no?

Avevo cinque anni quando uscì il Chianti Classico Riserva Bucerchiale 1979

1979, avevo cinque anni, giocavo ancora con le macchinine dei pompieri e vedevo i miei primi cartoni animati.

Ero piccolo e non mi ricordo bene quel periodo, ho memoria di anni di difficili, non solo in Italia ma in tutto il mondo: l'Unione Sovietica invade l'Afgha
nistan, Saddam Hussein diventa presidente della repubblica, in Iran torna al potere l'ayatollah Ruhollah Khomeini, tornato dall'esilio.

In Italia le cose non erano migliori: un commando neofascista irrompe negli studi di Radio Città Futura e ferisce a colpi di pistola cinque conduttrici e dà fuoco ai locali, le Brigate Rosse uccidono l'operaio-sindacalista Guido Rossa, il giornalista Mino Pecorelli, direttore del settimanale «OP», è assassinato a colpi d’arma da fuoco, sono rapiti in Sardegna Fabrizio De André e Dori Grezzi, durante il derby Roma - Lazio un razzo sparato dalla curva romanista colpisce e uccide il tifoso laziale Vincenzo Paparelli.


I fatti positivi comunque non mancano e, se ci pensiamo, sono davvero bei ricordi: ha nevicato per mezz'ora nel deserto del Sahara, Nilde Iotti è la prima donna ad essere eletta Presidente della Camera dei deputati, Pietro Mennea stabilisce il record del mondo nei 200 metri piani con il tempo di 19”72.


L’altro fatto importante, purtroppo saputo solo qualche tempo fa, riguarda Franco Bernabei, giovane enologo rampante che proprio in quegli anni iniziò la collaborazione dalla famiglia Giuntini, Fattoria di Selvapiana , introducendo vere e proprie novità per quel periodo: la la vinificazione separata delle uve dei vigneti Bucerchiale, Fornace, Torricella, l’imbottigliamento di annate quali la ’67, ’68, ’69 che erano da una decina di anni in botte, e il rinnovamento dei legni che poi significò per prima cosa rivestire di rovere i vecchi recipienti di castagno. Il frutto di quel lavoro l’ho potuto apprezzare grazie ad Armando Castagno che, nell’ultima lezione del suo bellissimo corso sul Sangiovese, ha proposto un vero e proprio elogio all’invecchiamento di questo “nostro” vitigno.

Nel mio bicchiere è stato versato il Chianti Classico Riserva Bucerchiale 1979, un sangiovese in purezza che sprizza austerità da ogni molecola che sembra dotata di una squillante mineralità che si rigenera ogni volta che ruoto il bicchiere cercando di far aprire il più possibile il vino. Col passare del tempo escono le note più vive e solari di
erba medica, fieno, camomilla, poi il vino torna ad essere scuro, sembra voler farci ricordare che è nato in anni difficili, ci fa tuffare in sensazioni di piombo e polvere da sparo. Che strana cosa. I
n bocca l’età ha creato una scissione tra la vibrante acidità, vera colonna portante del vino, e un frutto aspro, non definito, che rende il sorso molto pungente e calmierato solo alla fine da note più morbide di cera d’api e scorza di agrume. Più bello al naso che in bocca sicuramente ma, nonostante tutto, che gran vino!

Foto tratta da Lavinium

Pommery lancia lo Champagne che tifa Italia!

Dopo la nuova Doc toscana "Grance Senesi", ecco un altra importante novità nel mondo del vino di cui avevamo un bisogno fottuto: Pommery lancia una bottiglia esclusiva dedicata alla Nazionale italiana di calcio.Avete pensato ad una Jéroboam come quelle che usato i piloti di formula una quando vincono?
A parte il fatto che l'Italia di questi tempi è grasso che cola se pareggia, Pommery ha lanciato questo "esclusivo" Champagne nel pratico e originale formato da 20cl, praticamente meno del contenuto di una lattina di birra Peroni versione muratore.Il comunicato stampa dell'azienda francese continua sottolineando il fatto che è stato creato questo (mini) Champagne, vestendolo con i colori dell'Italia, per accompagnare la nostra nazionale ai Mondiali di calcio 2010, dimostrando così un grande amore per il nostro paese. Ma questa bottiglia tanto particolare, non è solo un simbolo beneaugurante, ma anche un oggetto da collezione. È stato prodotto, infatti, in edizione limitata.
POP Italia, così si chiama la linea dello Champagne, nasce dalla migliore selezione di venti cru di Pinot Noir, Pinot Meunier e Chardonnay della Côte des Blancs e della Montagne de Reims.

Visti i risultati della nazionale di Lippi chiederei alla Pommery di farsi i cavoli suoi la prossima volta e di pensare, invece, al Brasile o alla Spagna che ne hanno tanto bisogno....

Ah, se proprio devo bermi un Pommery in versione "Prosecco Nano", allora tanto vale stapparmi un ottimo spumante italiano da 0.75, costa meno e godo di più!



Fonte: http://www.luxuryonline.it

Il Castello del Terriccio presenta la verticale storica del suo Lupicaia

Non sono mai stato un estimatore del Lupicaia e, in generale, della produzione del Castello del Terriccio, un po’ perché non sopporto chi si fa strada sfruttando un suffisso, in questo caso –aia, che rimanda a successi enologici di altri produttori, e un po’ perchè non ritengo i loro vini così territoriali come sembrano.
L’occasione per ricredermi parzialmente si è presentata qualche settimana fa a Roma durante la verticale storica di Lupicaia organizzata dall’AIS e presenziata da Gian Annibale Rossi di Medelana, detto Pucci, e Carlo Ferrini, lo storico enologo dell’azienda.


Attualmente il Castello del Terriccio vanta 60 ettari vitati, che accanto alle varietà già indicate accolgono anche altre uve come lo chardonnay, piantato nel 1988, il sauvignon blanc nel 1989, immediatamente seguiti dalle due uve a bacca rossa che hanno fatto la grandezza della zona di Bordeaux: il cabernet sauvignon e il merlot. Syrah, petit verdot e cabernet franc completano la gamma di vitigni presenti ed impiegati nel tempo per sperimentazioni aziendali.

Il Lupicaia trae il suo nome di origine da un luogo del Terriccio in cui i lupi, in passato presenti nell'area, uscivano allo scoperto prima di assalire le prede; in gergo toscano si tratta del cosiddetto "balzello", cioè del punto in cui il lupo, uscendo dalla macchia, poteva essere ucciso prima di attaccare la preda; da "luogo della caccia al lupo" si passa quindi a Lupicaia. Questo teoricamente.


Effettivamente, e lo stesso Pucci lo ha candidamente ammesso, il nome non è altro che un richiamo al più celebre e blasonato Sassicaia targato Incisa della Rocchetta che, penso, non abbia fatto causa al proprietario solo perché suo fraterno amico. Tra fratelli di sangue blu non ci si tocca.



La verticale prevedeva un interessante excursus attraverso tredici annate di Lupicaia, dal primo millesimo prodotto, il 1993, fino ad arrivare ai giorni nostri.

1993
: il Lupicaia era ancora un vino da tavola composto da cabernet sauvignon con un tocco di cabernet franc. Nonostante l’età ha un naso ancora integro, terziario, etereo ma non cotto, dove riconosco la prugna secca, l’arancia rossa, la nota minerale e un soffio balsamico. In bocca torna l’olfatto, tutto è equilibrato, sembra che il vino, con la maturità, si spogli di strutture non consone e riviva per una seconda volta, fresco e leggero si libra nel cavo orale.
1994
: l’annata è stata medio bassa e il vino risente di una rapida evoluzione chiudendosi inizialmente e aprendosi col tempo su note scure, a tratti fumè. In bocca l’acidità è inferiore al 93 e, soprattutto, appare più slegata. Meno persistente ma più sapido del precedente.
1995
: il vino diventa IGT. Ottima annata secondo Ferrini. Al naso il vini si presenta austero, complesso, con un corredo olfattivo di arancia rossa, toni ematici, humus, eucalipto. In bocca l’attacco è glicerico, morbido, poi ingrana la marcia e progredisce inesorabilmente verso intriganti note saline e frutta nera. Ottimo equilibrio e grande persistenza finale. Il migliore della serata.


1996: è l’anno della svolta, discutibile, del Lupicaia. Al blend si aggiunge il merlot e si sperimentano nuovi cloni di cabernet. Il colore diventa concentrato, naso e bocca diventano internazionali e il vino potrebbe competere per un concorso bordolese. Morbidezza evidente e gusto moderno sono le caratteristiche di questo vino. Ferrini e Pucci cambiano marcia, il Lupicaia perderò da adesso in poi quella sana e rustica pazzia delle annate precedenti.
1997
: l’annata calda offre un vino carnoso, polposo, a tratti mi ricorda lo stile dei vini del Nuovo Mondo. Ed è tutto dire.
1998
: simile al millesimo precedente anche se perde in complessità e dinamicità nonostante una austera centralità minerale . L’annata è più fresca della ’97 per cui il vino è più fresco anche se, forse, le note dure e morbide non sono così coese. Chiusura sapida.
1999
: rispetto alle “nuove” versioni questa è la bevuta migliore perché il vino acquista complessità e, soprattutto, profondità grazie alle note di frutta nera di rovo, visciola, humus, tabacco mentovato, grafite, spezie. Bocca avvolgente e scandita da una trama tannica finissima, lunga la persistenza.
2000
: prima grande annata calda per il Lupicaia che soffre molto le alte temperature. Il vino cambia il suo stile, dalla Francia passa alla California, l’impronta olfattiva e, soprattutto gustativa, è troppo lontana dal mio concetto di vino, soprattutto se parliamo di eleganza e finezza.
2001
: fortunatamente il costume californiano è stato tolto e il vino torna ad essere degno di questo nome. Complessità di nuovo evidente che si gioca su due fronti: le note metallifere, austere, e le note di frutta rossa e di eucalipto, molto più eleganti e vivaci. Bocca di buona freschezza anche se le note tattili di astringenza del tannino giovane cominciano a farsi notare.


2003: annata calda e il vino soffre anche se Ferrini e Co& pare abbiano preso le misure e non si sono fatti prendere troppo alla sprovvista come nel 2000. Leggera sensazione ammandorlata nel finale che tradisce un legno non ancora perfettamente integrato.
2004: un vino di grande morbidezza dove ritrovo tutte le caratteristiche per un vino adatto ad un vasto pubblico: tanta frutta, tocco floreale e quel soffio di legno. Fortunatamente la vena acida è ben presente e il vino è godibile al sorso. Manca la freschezza della nota balsamica.
2005: è un vino da grigliata di carne, rotondo al punto giusto con note di spezie mediterranee diffuso e un tocco di tostato. Frutto in secondo piano. Sorso morbido, di buona freschezza anche se la persistenza segna il passo con questa annata.
2006: rispetto alle annate precedenti Ferrini riduce la base merlot ed aumenta leggermente l’apporto di Petit Verdot. Al naso e in bocca sento un Lupicaia ancora troppo giovane, potente sicuramente ma ancora troppo slegato e con le sensazioni tattili ancora da domare. In futuro riserverà, agli amanti del genere, buone sorprese.

Conclusioni: come facilmente si può evincere, il sottoscritto si fermerebbe alle prime tre annate del Lupicaia, le successive, vuoi per il caldo, vuoi per lo stile più “piacione”, non rientrano troppo nel mio DNA enologico. Da non sottovalutare il costo del Lupicaia che spesso in enoteca sfiora il centone…..


Tutte le foto sono state scattate da Andrea Federici, il Beone Fotografo. Grazie!

"Grance Senesi" è l'ennesima Doc toscana. Se ne sentiva il bisogno...


Sono diventati 37 i vini toscani doc (denominazione di origine controllata), che si aggiungono ai 7 docg (denominazione origine controllata e garantita) e ai 6 vini igp ( indicazione geografica protetta). Dal 14 giugno, con la pubblicazione della nuova denominazione sulla Gazzetta Ufficiale e l'approvazione del relativo disciplinare di produzione, si èinfatti aggiunto il “Grance Senesi”. Un vino che arriva a questo importante traguardo dopo la richiesta di riconoscimento, avanzata il 28 dicembre 2007 da parte dell'associazione promotrice, al Comitato Nazionale Vini e alla Regione Toscana.

La zona di produzione, particolarmente vocata alla coltivazione della vite, si estende nella parte sud – est della Provincia di Siena e comprende interamente quattro comuni delle Crete Senesi: Rapolano, Murlo, Asciano e Monteroni d'Arbia e in parte quello di Sovicille, per un totale di circa 1000 ettari di vigneti.

Un territorio completamente circondato da aree dove vengono prodotti importanti vini come il Chianti Classico, il Brunello di Montalcino e il Nobile di Montepulciano, e che si sovrappone, in piccola parte, alla zona di produzione del vino docg Chianti Colli Senesi e il doc Val d'Arbia. Il termine “Grance” appare in molti documenti del 1300 negli estimi dell’Abbazia di Monte Oliveto ed identificava una sorta di fattorie fortificate poste a capo di vaste tenute agrarie che gestivano i cospicui possedimenti terrieri dello Spedale di Santa Maria della Scala di Siena.

La nuova denominazione prevede nove diverse tipologie di prodotto a cui si aggiunge la menzione riserva per il vino rosso. Cinque di queste riportano l’indicazione del vitigno in etichetta (canaiolo, sangiovese, merlot, cabernet sauvignon e malvasia bianca lunga).
Il sangiovese è sicuramente il vitigno più coltivato nella zona e molto probabilmente rappresenterà il maggior quantitativo di prodotto della neonata denominazione (nelle tipologie previste: rosso, rosso riserva e sangiovese varietale). Il disciplinare proposto soddisfa la tendenza più recente del mercato perché vengono affiancati ai vini più tipici (rosso e bianco) alcuni vini a base di un solo vitigno adatti sia al mercato interno che al mercato internazionale.
La Regione Toscana si era espressa favorevolmente alla nuova doc già nel febbraio del 2008, auspicando l'accoglimento della richiesta da parte del Ministero.«Abbiamo ritenuto importante valorizzare questa zona con una denominazione di origine – spiega l'assessore all'agricoltura Gianni Salvadori - perchérappresenta una garanzia per la qualità del prodotto e sancisce il suo legame con il territorio da cui trae origine anche sotto il profilo storico e culturale».

Grazie a tutti, se ne sentiva davvero il bisogno!

Fonte: http://www.regione.toscana.it

Mediterraneo nel vino e nell'anima

L’occasione è stata la presentazione del libro “Formentera non esiste” scritto dalla mia amica Stefania Campanella, un viaggio immaginario nella Formentera inedita, per scoprire e raccontare le storie meno conosciute, della sua terra, della sua arte e del suo passato.


Su quei tavolini, proprio davanti agli invitati, c’erano due vini, un bianco italiano e un rosso spagnolo, due bottiglie che, come scoprirò, celavano al loro interno l’anima irrequieta del sole e del mare.
Il primo vino, una Malvasia dell’Emilia Igt, è prodotto da Mirco Mariotti, dell’omonima azienda vitivinicola che, nel presentarci il suo progetto “Wine Music”, ci ha svelato anche tutti i segreti di questo bianco totalmente prodotto da uve di Malvasia di Candia Aromatica.
Di fronte ho un vino della sabbia, nato da vitigni a piede franco ben ancorati presso il Lido di Spina, nel Parco del Delta del Po, un meraviglioso panorama caratterizzato da cordoni dunosi paralleli alla linea della costa, tra boschi di lecci, valli e saline della costa adriatica ferrarese, nell’areale della D.O.C. Bosco Eliceo.

Da questo ambiente umido, salmastro, a pochi metri dal mare e caratterizzato da scarsità d’acqua, nasce la Malvasia dell’Emilia “Le Dune Bianche” dell’Azienda Mariotti, un vino non pretenzioso ma, comunque, non così semplice come potremmo pensare. Ha un naso intenso, che ben esprime la carica aromatica del vitigno, dove ritrovo sensazioni muschiate fuse in maniera inesorabile ad un fondo aromatico salmastro, lo stesso che percepisco al palato, un sorso di media ampiezza che sa di mare, di sabbia salmastra, mi riporta con la mente alle saline di Comacchio e alla cucina del suo territorio. Ottimo se abbinato con un panino ripieno di anguilla….slurp!

Spostiamoci in Spagna, nella estremo sud della piccola isola di Formentera, una striscia di terra dominata da un bellissimo faro raggiungibile solo con una minuscola stradina asfaltata.
In questa zona selvaggia si nasconde il Petit Hotel Agroturisme, l’ultima casa prima del faro, un buen retiro esclusivo di sole sei camere, ristorante con un occhio alla Francia, dove si servono i vini prodotti nella tenuta.


Uno di questi, un rosso, è quello che ho nel mio bicchiere, un blend composto da due varietà d’uva locali, la Monastrell e la Fogoneu, e due varietà internazionali come il Cabernet Sauvignon e Merlot. Le prime due fanno parte di un vecchio vigneto di quaranta anni franco piede mentre i vitigni internazionali compongono un vigneto del 1999 di un ettaro e mezzo ad alta densità (5.500 piante/ha).


L’uva, dopo essere stata raccolta manualmente, viene diraspata e subito fatta fermentare in acciaio a temperatura controllata. Una volta terminato il processo, e questa è una particolarità, il vino viene lasciato ancora a contatto con le bucce per un periodo che può arrivare anche ad un mese, durante il qualche si susseguono continui rimontaggi. Una volta svinato il vino subisce la malolattica e il successivo affinamento in barrique fino a quando Xavier Figuerola, l’enologo, non decide di fare l’assemblaggio finale e il successivo passaggio in bottiglia.

Cap de Barbaria è un vino mediterraneo, marino, a tratti esotico, senza eccessi di legno e di alcol, sa di vento di mare, ci ritrovi il mirto, il corbezzolo, l’alloro, la frutta nera di rovo, i fiori seccati da sole. In bocca è di grande equilibrio, elegante, ampio e di grandissima sapidità. Alla cieca non potresti mai dire che non è un vino del mare. Ottomila bottiglie prodotte. Un piccolo capolavoro delle Isole Baleari.

Stella di Campalto, la contessa-contadina del Brunello di Montalcino


La “contessa-contadina” con occhi bellissimi da gatto, così è stata descritta Stella Viola di Campalto, figlia della nobiltà romana che, come tante altri suoi colleghi, non ha saputo resistere al richiamo bucolico (e monetario) della campagna di Montalcino, a pochi passi dall’Abbazia di Sant’Antimo, una delle chiese romaniche più belle d’Italia.


Proprio a pochi passi da questa meraviglia sorge l’azienda agricola San Giuseppe, un podere abbandonato negli anni ’40 che, grazie all’amore di Stella e di tutta la sua famiglia, oggi è un vero e proprio gioiello incastonato nella campagna ilcinese.
La voglia di abbracciare fin da subito il biologico (1996) e la grande intraprendenza giovanile di Stella di Campalto (aveva solo 25 anni quando ha iniziato) sono state le basi per porre in essere da subito una zonazione geologica del suo terreno individuando nei sei ettari di vigneto vari tipi di suoli con caratteristiche diverse. Nascono così sei singole vigne dove ognuna rappresenta uno specifico Cru.


Le vigne sono:

Vigna al Leccio: sud-ovest 340 s.l.m. iscritta D.O.C.G Brunello di Montalcino

Vigna Curva: sud-ovest 320 s.l.m. iscritta D.O.C.G Brunello di Montalcino

Vigna al Sasso: sud-est 290 SLM Iscritta D.O.C.G. Brunello di Montalcino

Vigna Bassa: sud 270 s.l.m. iscritta D.O.C.G Brunello di Montalcino

Vigna all'Ulivo: ovest 280 s.l.m. iscritta per 8000 metri D.O.C.G Brunello di Montalcino e per 5000 metri Rosso di Montalcino

Vigna al Bosco: sud 240 s.l.m. iscritta D.O.C. Sant'Antimo.

Convertendosi ai criteri biodinamici nel 2002, l’azienda ha inaugurato la moderna cantina nello stesso anno, una struttura situata su tre livelli con sistema a caduta - è stata concepita per valorizzare le potenzialità di ogni singola vigna: l'uva, raccolta a mano in piccole cassette una volta diraspata, cade nei sottistanti tini di legno da 30 qli. Nulla viene aggiunto prima, durante e dopo l'arrivo del grappolo eccetto solforosa in dosi minime.
Terminata la fermentazione alcolica, il "vino" scende nella sala di invecchiamento dove privilegiamo l'uso di piccole botti costituite da legni spessi; vengono anche usate barriques e tonnaux.
La sala di invecchiamento sui trova a 15 metri dalla superficie il che permette una temperatura costante e naturale; qui il vino riposa fino ad acquistare la sua maturità ottimale nel rispetto assoluto del nostro disciplinare di qualità.
Le bottiglie, colmate per caduta ad una ad una si mantengono in un ambiente con temperatura controllata, fino al loro migliore affinamento.


Stella di Campalto prima di uscire lo scorso anno col suo primo Brunello, annata 2004, non è rimasta con le mani in mano ma, anzi, ha dato vita ad una serie di Rosso di Montalcino di grandissima qualità, un vino frutto delle uve dei vari vigneti aziendali con l’eccezione dell’annata 2003 quando una piccola quantità di uve provenienti dal vigneto “Vigna Bassa” sono state vinificate ed imbottigliate in proprio dando vita al Rosso di Montalcino “Buontempo”. Dato che tutti questi vigneti (con l'eccezione della piccola fetta di Vigna All'ulivo) sono classificati per la produzione di Brunello, va da se che il Rosso di Montalcino di Stella di Campalto, se lo trovate ancora, sia uno dei migliori “second vin” prodotti in tutta Italia.

Tornando al Brunello di Montalcino, la mia attenzione si sposta sull’ultima annata in commercio, la 2005, un sangiovese di razza scalpitante dove ritrovo l’austera mineralità della ruggine, della ghisa, le sensazione ematiche, il tutto contornato da un abbraccio olfattivo più allegro, spensierato, dove i fiori rossi secchi, qualcuno direbbe da diario, la fanno da padrone insieme ad un frutto rosso ancora in fase di delineamento.
Al sorso c’è grande pulizia ed equilibrio, tornano le note ematiche e ferrose, i fiori secchi, un palato acceso da tutte le sfumature del rosso. Elegante e lungo il finale. Un Brunello da avere assolutamente.



La foto tratte da Porzioni Cremona, Top Toscana e sito ufficiale dell'Abbazia di Sant'Antimo

Antica Osteria l'Incannucciata, Dino De Bellis e il suo Sudafrica

I mondiali di calcio sono alle porte Dino De Bellis, chef dell'Incannucciata, ha pensato di creare una
serata speciale sul Sudafrica.
Lo chef non ha fatto altro che prendere e rivedere in chiave “De Bellis” alcune ricette tradizionali locali abbinando ad ogni piatto, grazie all’aiuto di Afriwines ed RGS, una selezione dei migliori vini sudafricani. Il risultato è tutto da scoprire.

Menù della serata

Quiche ai porri con panna acida abbinata a Gewurztraminer Belbon hill

Fusa zana al ragù di piccione abbinati a Rhino park Merlot Shiraz


Bobotie abbinato a Belbon Hill shiraz


Pollo soweto con patate ripiene abbinato a Rhino Park Merlot Shiraz


Budino di Riso e coulis di fragole abbinato a passito Belbon Hill


Costo euro 35 tutto compreso

Prenotazioni al 389 6726923

Il segreto per un olfatto bionico? L'irrigazione nasale, è ovvio!

Andando ogni tanto alle terme mi è capitato di leggere, tra i vari trattamenti proposti, questo: IRRIGAZIONE NASALE.


Incuriosito ed anche un pò impaurito dalla cosa ho cercato un po’ di notizie su internet e devo dire che quello che ho trovato mi ha svelato un mondo che non conoscevo e che potrebbe essere utile per tutti quelli che dicono di non sentire l’odore di banana nello chardonnay o l’odore di goudron nei vini invecchiati.

La parola d’ordine da oggi in poi è:
STURATEVI IL NASO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Per avere un olfatto da campione dovete farvi passare nelle cavità nasali soluzioni idrominerali, in genere soluzioni saline ipertoniche, attraverso un ampolla che viene chiamata lota neti (in inglese neti pot). Una volta riempito questo aggeggio con la soluzione salina, non dovete far altro che piegare la testa ed infilare il becco del lota nei nella narice superiore e, cercando di non strozzarvi, far uscire il liquido dall’altra narice ben aperta.



Dopo questa doccia nasale tutti i profumi saranno perfettamente nitidi e sarete dei campioni nel riconoscere esteri, eteri, alcoli e terpeni.

A me la tecnica fa ribrezzo solo a guardare la foto, mi tengo le mie allergie e la voglia di sparare stronzate quando tento di riconoscere il profumo del vino…

I terroristi del vino in Borgogna

Non c’è molto da scherzare perché di matti nel mondo ce ne sono tanti e la storia seguente ne è la riprova.

Un uomo, ex detenuto che aveva lavorato nei vigneti della Borgogna, ha inviato una serie di lettere minatorie al Domaine de la Romanée-Conti minacciando loro di avvelenare tutti i vigneti se non avessero pagato un milione di euro.
Secondo quando trapelato dalle agenzie di stampa la stessa tipologia di lettera è stata inviata anche al Domaine Comte Georges de Vogue che ha subito la stessa minaccia per il suo vigneto di Musigny.

Per dimostrar loro la determinazione, il ricattatore aveva scritto nella lettera di aver già avvelenato due vitigni particolari che, per precauzione, sono stati immediatamente estirpati e consegnati alle autorità dalla stessa proprietà. Stessa sorte è accaduta per due vitigni del Grand Cru Romanée-Conti che sono stati fatti analizzare per precauzione.
Fortunatamente, promettendogli un falso riscatto da versare presso il cimitero di Chambolle-Musigny, l’estortore è stato arrestato anche se la paura per Aubert de Villaine, condirettore del DRC, è ancora viva visto che questa sorta di terrorismo enologico può essere esteso a tutti i più grandi vigneti al mondo.


Foto tratta da Il Giornale del Vino

I mondiali di calcio e i vini del Sudafrica

I mondiali di calcio sudafricani mi danno lo spunto per parlare un pò di questo paese che, assieme al Cile, all’Australia e alla Nuova Zelanda, rappresenta una della nazioni emergenti nel panorama vitivinicolo mondiale.
Avente quasi tre volte la superficie dell’Italia, in Sud Africa oggi 4000 aziende agricole coltivano circa 102.000 ettari di vigneto con una prevalenza di vitigni a bacca bianca (Chenin Blanc o Steen in dialetto locale ) rispetto a quelli a bacca rossa dove la fanno da padrone i vitigni internazionali come cabernet sauvignon, shiraz, merlot e pinotage.
La viticoltura in Sud Africa si sviluppa prevalentemente a latitudini comprese tra 27° e 34° nell'emisfero sud, dove prevale un clima di tipo mediterraneo temperato.
Le zone costiere atlantiche, ad ovest e sud-ovest del Capo, risentono del beneficio della corrente del Benguela, proveniente dalle regioni antartiche, che permette di ottenere temperature relativamente più fresche, se riferite alle latitudini del luogo. Durante la primavera e l'estate, inoltre, le coste a sud-ovest del Capo vengono spesso lambite da un vento secco proveniente da sud-est, il Cape Doctor che, oltre a ripulire l’aria di Cape Town, provoca anche un processo di inibizione nei confronti di alcune malattie tipiche della vite, in particolare funghi e muffe.
Il suolo del Sud Africa è molto vario e diversificato, e questo appare come uno dei principali motivi che contraddistinguono la personalità e l'unicità dei vini prodotti nelle diverse aree del paese. Per voler fare un esempio, il solo distretto di Stellenbosch, divenuto oggi il più famoso ed importante produttore di vini di qualità del Sud Africa, è caratterizzato da terreni prevalentemente sabbiosi nel fondovalle occidentale, che divengono invece più pesanti se ci si sposta verso le catene montuose (Stellenbosch Mountains, Simonsberg Mountains, Helderberg Mountains, Jonkershoekberge Mountains ecc.), dove prevalgono terreni composti da detriti granitici. Questo fa si che vini prodotti nell'ambito di una stessa area viticola, così come accade appunto anche al distretto di Stellenbosch, presentino note organolettiche caratterizzate spesso da una spiccata personalità.

Il Sud Africa gode di un sistema a denominazione d'orgine dei vini e dei prodotti derivanti da fermentazione alcolica, che ricalca in buona parte i sistemi già adottati da lungo tempo in molti paesi europei, come le A.O.C. francesi (l’Appelation d'Origine Controlée, ossia Denominazione d'Origine Controllata) o le D.O.C.G. italiane. La certificazione "Wine of Origin", identificata come W.O., fu istituita ufficialmente nel 1973, in base ad uno schema che non protegge solamente la origine delle materie prime, ma anche le cultivar e le annate di produzione (vintage). L'organo di controllo per la W.O. è il Wine and Spirit Board, o Comitato dei Vini e delle bevande Alcoliche, costituito da 12 membri.

La certifica
zione della origine dei vini si basa fondamentalmente sulla identificazione di due fattori principali nella determinazione dei caratteri e della qualità dei prodotti, ossia: fattori naturali come il suolo, il clima, la posizione; fattori derivanti dall'uomo come la scelta della cultivar, la pratica viticola, le tecniche di vinificazione ed affinamento.
I confini che delimitano una W.O. sono definiti per legge, così come sono definite per legge le cultivar ammesse all'interno di ognuna delle unità di produzione.
In totale, sono oggi ammesse circa 75 tipologie di vitigno differenti nell'ambito delle W.O., tra le quali troviamo anche tre uve di origine italiana: Nebbiolo, Barbera e Sangiovese. Il nome del vitigno può essere menzionato in etichetta se presente per almeno il 75%, oppure per un minimo del 85% se il prodotto è destinato all'esportazione in Europa o per tutti i vini prodotti dal 1 gennaio 2006.
Discorso analogo si ottiene per il termine Vintage, che indica la provenienza di almeno il 75% delle uve – oppure l' 85% per i vini esportati in Europa - dalla vendemmia dell'anno specificato in etichetta.
Infine, se il termine Wine of Origin viene associato in etichetta al nome geografico – ad esempio Stellenbosch – è automaticamente certificata la totale provenienza delle uve dalla zona in cui il vino è stato prodotto.

Le aree di demarcazione delle W.O., più propriamente definite unità di produzione, possono essere:
Single Vineyard Unit (Vigneto Singolo): normalmente appartenenti ad una unica azienda, con estensione del vigneto sempre inferiore a 5 ettari;
Estate Wine Unit (Unità Aziendale): unità di produzione normalmente più ampia di 5 ettari, che può comprendere una o più aziende (estates). Se viene indicato in etichetta il termine "Estate Wine", è certificata la provenienza delle uve dalla unità di produzione stessa;
Ward (Circoscrizione): combinazione di più aziende vitivinicole, a volte appartenenti ad un distretto, come la ward Franschhoek del distretto di Paarl, altre volte no, come accade ad esempio alle wards Cederberg e Costantia;

District (Distretto): unità distrettuali, come Paarl, Stellenbosh o Robertson;
Region (Regione): regione vitivinicola, come Klein Karoo o Coastal Region.
Dal 2 aprile 1993 è stato integrato lo schema delle W.O. con l'aggiunta di due Geographical Unit: Western Cape e Northern Cape.
Le due aree di produzione più importanti del Sud Africa sono oggi Paarl e Stellenbosch, entrambi distretti inseriti all'interno della Coastal Region.

LA DEGUSTAZIONE

Ci troviamo nell’area vitivinicola di Stellenbosch dove il pinotage, varietà ottenuta dall’incrocio tra due Vitis Vinifera europee, pinot nero e cinsaut (detto anche hermitage), nacque nel 1925 grazie ad Abraham Perold, ricercatore universitario che volle unire l'eleganza e la finezza del primo vitigno, con la resistenza alle malattie del secondo.
L’azienda Delheim, di proprietà della famiglia tedesca Sperling, di estende per 364 ettari di grande bellezza di cui 150 vitati e produce tutta una serie di vini dallo stampo marcatamente internazionale.

Il Pinotage 2007 che ho bevuto durante il Vinòforum di Roma è un vino dalla facile beva che può essere usato da un neofita come base di partenza per capire pregi e difetti di un vino prodotto per i mercati mondiali. E’ ruffiano ma non troppo visto che dispone di una adeguata complessità, è intenso, giocato su note di frutta di bosco, ciliegia matura, spezie scure e un tocco di goudron. Purtroppo la vaniglia e, in generale, l’uso della barrique si fa sentire anche se devo dire che non è così marcato come ho sentito in altri vini sudafricani. In bocca è piacevole, equilibrato, di buona persistenza, è tutto al suo posto anche se forse manca di quell’anima che lo renderebbe speciale. Al pubblico costa circa 11 euro, una base di partenza non troppo costosa per capire da che parte state.

Fonte: winecountry.it e
Wosa (Wine of Sud Africa)

Radda in Chianti è nel MIO bicchiere!


Radda in Chianti è un altro angolo di paradiso toscano circondato da vigneti, gli stessi che, nel bene o nel male, hanno prodotto quelle uve e quel vino che sabato scorso ha girato e rigirato nel mio bicchiere in cerca di una sua identità e di una sua collocazione nel firmamento, a volte un po’ nebuloso, del Chianti Classico.
Radda in Chianti, un fazzoletto di terreno dove puoi trovare di tutto, grandi e piccole proprietà, vignaioli dalle mani tatuate di terra o wine maker in giacca e cravatta, sangiovese o merlot, colorino o syrah, tutti assieme per formare un caleidoscopio di filosofie enologiche che fai fatica a dipanare quando ti approcci al sorso.
Durante Radda nel Bicchiere ho cercato, nel mio piccolo, di comprendere, discernere e valutare da che parte della barricata sta il mio gusto, se deve mettere l’elmetto da combattente o viaggiare in prima classe, biglietto di sola andata. Questi sono i miei appunti sparsi. Fatevi un’opinione.


Brancaia – Chianti Classico 2007 (85% Sangiovese, 15% Merlot): prescindendo dalle polemiche che si sono accese in questi giorni su questa azienda, direi che il vino ha una espressione territoriale non dissimile alla gentile donzella che versava il vino allo stand: minigonna e scollatura e tanta gente attorno.

Castello di Radda – Chianti Classico 2007
(100% Sangiovese): un vino abbastanza fresco, fruttato e poco altro. Ho trovato ancora tanto legno da assorbire, forse due anni di barrique sono troppi oppure è da aspettare ancora un po’ anche se la struttura del vino non è da grande invecchiamento. Per dodici euro compro sicuramente altro.

Castello di Volpaia – Chianti Classico Riserva 2006 (100% Sangiovese): concentrato al colore, ha profumi complessi di marasca, frutta di rovo, humus, grafite. In bocca entra potente, la nota alcolica si fa sentire un po’ troppo per i miei gusti, poi il vino va scemando in un finale che sembra andare in direzione opposta. Non mi fa impazzire. Bello senz’anima canterebbe Cocciante un po’ sconsolato guardando il bicchiere.


Castello d’Albola – Chianti Classico 2007 (Sangiovese e Canaiolo): lo ammetto, mi aspettavo un vino più piacione ed invece questo Chianti “made in Zonin” mi ha sorpreso per pulizia e, soprattutto freschezza. Pecca un po’ in ampiezza e complessità però è un vino che si lascia bere senza problemi. Dieci euro spesi bene.

Valdellecorti – Rosè 2009 (VdT) (Sangiovese 100%): non si parla di Chianti in senso stretto in questo caso, però voglio segnalare a tutti questo rosato da sangiovese, freschissimo e bevibilissimo nonostante la tanta ciccia che lo caratterizza. A sei euro è uno dei rosati con il migliore rapporto q/p che abbia bevuto. Il Chianti Classico 2005, invece, è una piccola opera d’arte di Roberto Bianchi che, nonostante l’annata difficoltosa, è riuscito a dar vita ad un vino di grande finezza e tipicità. Se amate il vino piacione non passate da queste parti. Piccola nota di servizio: il Chianti Classico 2007 di Valdellecorti è risultato uno dei migliori durante la degustazione alla cieca di tre Sangiovese e tre Nebbiolo nel refettorio del Convento di Santa Maria al Prato con la guida di Carlo Macchi.


Caparsa – Chianti Classico Doccio a Matteo 1999 (Sangiovese 100%): della verticale degustata a Radda ritengo che l’annata 1999 di Doccio a Matteo sia la migliore in assoluto perché dà vita ad un vino integro, intenso, a tratti ancora ruvido, che trasmette senza compromessi territorio e carattere del produttore. In bocca stupisce per persistenza e sapidità. Plauso a Paolo Cianferoni che, tra l’altro, ha anche un interessante blog!


Montevertine – Pergole Torte 2007
(Sangiovese 90%, Canaiolo 5%, Colorino 5%): so che sarò deriso da molti ma per me rappresenta la migliore versione degli anni duemila e una delle migliori di sempre. Mi ha ricordato nei tratti il Brunello di Montalcino Biondi Santi Riserva 2004, un vino di grande complessità ed equilibrio nonostante le sue durezze e che, col passare del tempo, non potrà che evolvere in maniera divina. Metterà d’accordo veramente tutti in futuro. Da segnalare uno stratosferico Pian del Ciampolo 2008 che mi ha ricordato molti village della Borgogna. Un vino che non ha paragoni come rapporto q/p.


Monteraponi – Chianti Classico 2007 (Sangiovese 90%, Canaiolo 10%): Michele lo sa, questo è davvero il mio coup de coeur, un Chianti che a berlo di manda in estasi, un velluto rosso sangiovese leggero che entra nell’anima e non la molla più. Lontano mille miglia dall’America. Il Chianti Classico Riserva 2006 Il Campitello è un vino più orizzontale del precedente, ha la saggezza del fratello maggiore, profondo e intellettuale è secondo solo al Pergole Torte 2007 nella mia classifica personale anche se, compulsivamente, non smetterei di bere la versione giovane del Chianti di Monteraponi.

Il premio della VERGOGNA internazionale del vino

Poche righe che dovrebbero far vergognare un'associazione che si dice promotrice della cultura del vino. Mi spiace ma stavolta per l'AIS Roma e Franco Ricci il pollice è decisamente all'ingiù!

Il Premio Speciale della Giuria 2010 è stato assegnato dal patron Franco Ricci a John e Cristina Mariani per l’azienda vitivinicola Castello Banfi di Montalcino (Siena) con la seguente motivazione: “Pionieri e protagonisti dell’ambizioso progetto italiano mirato al mercato internazionale del vino di qualità hanno contribuito in maniera determinante al successo del nostro paese, fino a renderlo il primo assoluto nel mercato americano. In Italia le loro sperimentazioni e ricerche, in vigna e in cantina, hanno fatto scuola alla nuova enologia nascente. Un’azienda nata con un sano rapporto con l’ambiente e sviluppata attraverso importanti investimenti nella cultura che hanno prodotto un fondamentale arricchimento del territorio”.