I vitigni autoctoni dell’Italia meno conosciuta


di Lorenzo Colombo

Oltre 200 le aziende presenti alla seconda edizione della Fiera dei Vini svoltasi a Piacenza da sabato 16 a lunedì 18 novembre, evento nell’ambito del quale erano previste anche quattro masterclass dedicate al vino ed una all’olio. Noi ci siamo stati sabato pomeriggio ed abbiamo partecipato a quella dedicata ai vini prodotti da vitigni autoctoni a bacca rossa, degustazione assai interessante durante la quale si sono potuti assaggiare vini prodotti da vitigni rari e spesso difficilmente reperibili.


Sette i vini degustati, eccoli in ordine di servizio con nostri sintetici commenti.

Calosso Gamba di Pernice Doc 2022 – Cascina Comina

Sono tre i comuni del basso astigiano dove sussiste questa minuscola e recente denominazione nata nel 2011: Calosso che le dà il nome, Costigliole d’Asti e Castagnole delle Lanze, il disciplinare di produzione, approvato nel 2011, prevede tre tipologie di vino: Calosso, Calosso Riserva (anche con la menzione di Vigna) e Calosso Passarà (da uve appassite), dove il vitigno Gamba Rossa dev’essere presente per almeno il 90%. Gli ettolitri imbottigliati nel 2020 sono stati 295, ovvero meno di 40.000 bottiglie. L’utilizzo del vitigno, registrato col nome di Gamba Rossa (o Imperatrice della Gamba Rossa), ha un’estensione vitata limitatissima -si parla di 15 ettari suddivisi tra 14 produttori- ed è autorizzato unicamente nella Doc Calosso.


Vinificazione in vasche d’acciaio ed affinamento in botti per 20 mesi. Color rubino di media intensità. Intenso al naso dove cogliamo un sentore di ciliegia selvatica e leggere note floreali, note balsamiche e speziate, cannella, leggeri sentori di legno.
Mediamente strutturato, succoso, sapido, con bella vena acida, sentori piccanti di pepe bianco, lunga la sua persistenza. Un vino curioso, interessante e decisamente particolare. Ci è piaciuto assai.

Sardegna Alghero Cagnulari Doc “Ultimastella” 2022 – Gavino Delogu

Il Cagnulari è un vitigno presente soprattutto in una ristretta area sitata a Nord-Ovest della provincia di Sassari, predilige i terreni calcareo-argillosi, sciolti e ben soleggiati dove è spesso allevato ad alberello sardo o con basse controspalliere.
E’ uno dei vini da monovitigno della Doc Alghero e può inoltre essere utilizzato in una quindicina di vini ad Igt sardi. Nel 2022 se ne contavano 384 ettari, 363 dei quali in provincia di Sassari.


Le uve provengono da un singolo vigneto situato ad Usini esposto a Sud su suoli argillosi. Fermentazione ed affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta per sei mesi. Rubino profondissimo e luminoso il colore. Intenso al naso dove spiccano sentori di frutta rossa matura, nota alcolica importante, accenni di spezie leggermente pungenti. Strutturato, asciutto, piccante (pepe e peperoncino), frutta a bacca scura, trama tannica decisa ma ben fusa nell’insieme, buona la vena acida e lunga la persistenza. Altro vino decisamente interessante.

Toscana Igt Rosso “Le Voliere” 2022 – Tenuta di Forci

L’azienda, situata a Lucca, dispone di quattro ettari di vigne - condotte secondo i dettami della biodinamica - che presto diventeranno sette.


Blend di vitigni classici toscani, ovvero 80% Sangiovese, 10% Canaiolo e 10% Colorino, allevati su suoli ricchi d’argilla ma con presenza di sassi, limo e sabbia.
La pigiatura avviene con i piedi e la fermentazione s’effettua in piccole vasche, l’affinamento del vino si svolge per l’80% della massa in vasche d’acciaio e per la parte rimanente in piccole botti di rovere usate dove sosta per 10 mesi, dopo l’assemblaggio viene imbottigliato senz’alcuna filtrazione. Granato di discreta intensità. Bel naso, fresco, floreale, speziato, buon frutto rosso, balsamico ed elegante. Discretamente strutturato, fresco, asciutto e sapido, bel frutto, bella trama tannica e buona persistenza.

Sannio Dop Sciascinoso “Voscu” 2021 – Fosso degli Angeli

Lo Sciascinoso è un vitigno coltivato soprattutto in Campania ed in parte del Lazio, viene utilizzato nella produzione di cinque Doc campane ed in 13 vini ad Igt delle due sopracitate regioni. La sua superficie vitata s’è drasticamente ridotta negli anni, dal censimento agricolo del 1970 ne risultavano 2.600 ettari che quarant’anni dopo erano diventati unicamente 50.


Il vigneto, messo a dimora nel 2014, è situato a Castelvenere, a 200 metri d’altitudine su suolo argilloso calcareo, l’esposizione è Sud-Est, condotto a Guyot con densità di 3.500 ceppi/ha dà una resa di 60 q.li/ha. Sia la fermentazione-con lieviti indigeni- che l’affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta per circa sei mesi ai quali ne seguono altrettanti di riposo in bottiglia.
Sono circa 1.300 le bottiglie prodotte annualmente. Color ciliegia luminoso di media intensità. Discreta la sua intensità olfattiva, pulito, presenta sentori d’erbe aromatiche, timo essiccato, note floreali ed accenni balsamici. Fresco, asciutto, sapido, verticale, di media struttura, con buona trama tannica e bella vena acida, buona la sua persistenza.

Igt Toscana Mammolo “Il Legato” 2020 – Cincinelli Marco

Il Mammolo è un vitigno che non ha mai vissuto una grande diffusione -anche se viene citato sin dal 1622 dal Soderini-, la sua massima superficie vitata (147 ettari) è stata riscontrata nel censimento agricolo del 2000, ma già in quello successivo (2010) gli ettari vitati erano scesi a 52. Viene utilizzato in una decina di vini ad Igt tra Toscana e Umbria praticamente mai in purezza, è inoltre a volte impiegato, in piccole percentuali nella composizione del Vino Nobile di Montepulciano.


Le uve provengono da un vigneto di un ettaro d’estensione con età media di 15 anni, dopo la fermentazione il vino s’affina in botti grandi ed in barrique usate. Color granato poco intenso. Buona l’intensità olfattiva, note balsamiche e accenni floreali.
Fresco, succoso e asciutto, mediamente strutturato, sentori di radici, bella trama tannica e discreta persistenza.

Vallée d’Aoste Dop Cornalin 2018 – La Source

Vitigno raro il Cornalin, diffuso unicamente in Valle d’Aosta -nel Vallese svizzero è conosciuto come Humagne Rouge- dove nel 2010 se ne contavano unicamente 11 ettari. Il vitigno, che pare provenire dalla Borgogna, era molto diffuso in Valle d’Asta prima dell’avvento delle fillossera, alla fine degli anni ’80, l’Institut Agricole Régional di Aosta si è fatto promotore del recupero delle varietà autoctone minori, tra cui anche il Cornalin. Pare che attualmente in Valle gli ettari vitati siano poco meno di un trentina.


Le vigne si trovano a Saint Pierre dove Stefano Celi dispone di 6,5 ettari vitati. Vinificazione e affinamento si svolgono in vasche d’acciaio, segue quindi una sosta in bottiglia di sei mesi prima della commercializzazione. Profondo il colore, unghia violacea. Intenso al naso, balsamico, speziato, frutta a bacca scura, legno dolce, leggere note piccanti. Discretamente strutturato, asciutto, succoso, note piccanti, frutta a bacca scura, erbe aromatiche di montagna. Un vino di notevole qualità. L’azienda di Stefano Celi si trova a Saint Pierre, pochi chilometri dopo Aosta.

Provincia di Verona Igp Oseleta 2016 – Az. Agr. Zymè (non ancora in commercio)

Il vitigno, diffuso esclusivamente in provincia di Verona viene utilizzato in tre vini ad Igt del Veneto oltre ad entrare a far parte di un numero seppur limitato di vini della Valpolicella. Quasi scomparso è stato riscoperto negli anni Settanta del secolo scorso ed è stato ammesso nel Registro Nazionale delle Varietà di Uva nel 2000, se ne contavano, secondo il censimento agricolo del 2010, solamente 15 ettari.


Le uve provengono da vigneti situati nei comuni di Illasi, Lavagno e Parona allevati su suoli calcarei, argillosi e alluvionali. La fermentazione si svolge con lieviti indigeni e l’affinamento del vino viene effettuato in barrique per un periodo di sei/sette anni ai quali segue almeno un altro anno di riposo in bottiglia. Molto bello il colore, profondissimo e luminoso. Molto intenso al naso, alcolico, pulito, balsamico, prugna matura, quasi in confettura. Decisamente intenso e strutturato, con tannino importante che rimanda alla pellicina di castagne, frutta a bacca scura, note piccanti, legno percepibile, lunghissima la persistenza.

InvecchiatIGP: IGT Toscana Monteverro 2008


di Stefano Tesi

Ciò che normalmente, in una qualunque azienda non necessariamente vinicola, si chiamano i tempi eroici, sono quelli degli esordi, pieni di entusiasmo, incognite, errori, aspettative e ingenuità. Ai quali, passato qualche decennio, si guarda di norma con nostalgia e qualche sorriso.
Nel caso del vino, le bottiglie dei tempi eroici svolgono invece una doppia funzione: quella di punto di riferimento per quanto riguarda il mutare degli stili e delle mani intercorsi nel frattempo e di parametro per valutare i progressi fatti nello sviluppo del “progetto” iniziale.


L’assaggio di questo Monteverro 2008, frutto della prima vendemmia della tenuta creata dal nulla nella macchia mediterranea della Maremma a cavallo tra Lazio e Toscana, anno 2005, dal bavarese Georg Weber e l’allora fidanzata Julia, mi pare assolva però anche una terza funzione: quella di restituire fedelmente, nel bicchiere, la natura selvatica dei suoli originari e lo sforzo di adattamento ad essi compiuto dalle viti messe a dimora ex abrupto laddove, per memoria condivisa, allignavano bene solo la macchia e i cinghiali. 
Cabernet sauvignon, Cabernet franc, Merlot e Petit verdot convivono insomma in questa bottiglia, a suo modo storica, e lì si fondono in modo quasi riottoso, come costretti a convivere dal giovane, anzi allora giovanissimo enologo francese Matthieu Taunay che, come le vigne, ha poi messo radici stabili da queste parti.


L’assaggio è affascinante: molto lontano dall’odierno Monteverro – un vino levigato, equilibrato, senza dubbio territoriale ma frutto di una lenta plasmatura e di una lunga messa a punto – questo 2008 vive invece di una toscanità maremmana, esplicita, un po’ ispida e un po’ burbera, e irradia la saggezza grave di certi anziani accigliati.


Così, all’occhio, tradisce un rubino caldo che non ti aspetti del tutto ed anche al naso toscaneggia assai, in bilico tra il maturo e l’evoluto, tra il brusco e il profondo, con accenni ipermaturi, lampi di calore, cuoio grasso, terra bagnata e un filo di resina che ricordano, chissà come, i Sangiovesi canuti e robusti. Tutta roba che si ritrova al palato, con un alcool importante, una struttura solenne, accenni dolciastri e un irresistibile richiamo ai vecchi di casa nostra. 
A me è parsa una bevuta intrigante, fuori passo. E mi è piaciuto moltissimo col sontuoso piccione alla brace laccato alle more fermentate ed aglio nero ammannitoci dalla sempre sorprendente Valeria Piccini di Caino, una che di Maremma se ne intende.

Collemattoni - Brunello di Montalcino Docg 2020


di Stefano Tesi

I buoni Brunello si assaggiano anche senza andare al “Benvenuto”: questo, sentito in anteprima, è di un bel rubino fitto, ha il naso elegante e appena caldo, la nota matura e la bocca gentile e equilibrata del vino pronto.


Ideale sui sedani di pasta all’uovo col ragù di faraona che ci siamo pappati.

Graziano Prà vince la sfida del tappo a vite


di Stefano Tesi

La querelle sul tappo di sughero contro il tappo a vite è probabilmente destinata a non chiudersi mai. Per il vostro e il nostro divertimento visto che, alla fine, è anche o forse soprattutto una questione di scelte, gusti, filosofie personali.
Negli ultimi anni la vita di chi assaggia spesso il vino è stata costellata del resto di ricorrenti degustazioni afferenti all’una o all’altra opzione, con risultati evidenti sotto il profilo della percezione della differenza ma anch’essi fatalmente soggettivi sotto quello della qualità finale.
E’ per questo che ho partecipato volentieri alla presentazione fiorentina dei vini di Graziano Prà, dal 2010 uno dei pasdaran del tappo stelvin (non a caso affianca Franz Haas, Jermann, Pojer e Sandri e Walter Massa nell’ormai celebre gruppo degli “Svitati”), con il quale, oggi, il nostro chiude tutte le bottiglie di sua produzione sia in Soave che in Valpolicella. Con l‘eccezione, ma solo per mere ragioni di disciplinare, dell’Amarone, del Ripasso e del Passito Igt.


L’occasione era però resa ulteriormente ghiotta dal fatto che fosse previsto un assaggio parallelo di due bottiglie dell’annata 2017 del Soave Classico Doc Monte Grande (Garganega 70 % e Trebbiano di Soave), il cru aziendale prodotto a Monteforte d’Alpone: l’una chiusa col sughero e una col tappo a vite. Lo scopo era sì dimostrare le differenze evolutive determinate nel vino dalle diverse chiusure, ma anche la più generale vocazione del Soave all’invecchiamento. 

Graziano Prà

Un invecchiamento che, a giudizio del produttore, il tappo a vite rende più lineare e costante, consentendo anche in verticale l’apprezzamento del prodotto in sé, al netto di influenze potenzialmente volubili. “Lo stelvin supporta la longevità, permette al vino di evolvere correttamente e garantisce una chiusura perfetta”, ha sottolineato Prà. “Abbiamo preso questa decisione dopo tredici anni di osservazioni e degustazioni comparate di vecchie annate e oggi siamo certi che sia la scelta migliore”.

A bicchieri svuotati dobbiamo dire che, come previsto, la diversità è risultata marcata. 

Il campione “sugherato” si contraddistingue già all’occhio per un colore dorato più carico e cupo, molto intenso e un po’ tendente al rosso. Al naso, dopo un’iniziale idea di anice, rilascia note di idrocarburi, olio minerale, pietra focaia e una coda appena melata, dolciastra. In bocca è gentile, molto composto, maturo, molto elegante e certamente non deludente.

Differenze

Altra musica col campione “avvitato”: il colore è più giallo e brillante, l’olfatto è più acuto e vivo, quasi giovanile e vibrante, con la pietra focaia che emerge netta sul resto tutto con piacevoli punte di freschezza. Anche in bocca il vino è giovanile, molto gradevole, con un retrogusto cangiante e un intrigante finale amarognolo.
Difficile, tuttavia, esprimere una preferenza tra i due. Si tratta di “bevute diverse”, come si diceva tra commensali. Il tappo in sughero restituisce il Soave 2017 che ti aspetti, piuttosto evoluto ma non certo decrepito, in qualche misura rassicurante. Il tappo stelvin ti dà un Soave che, considerando il millesimo, trovi molto diverso dalle aspettative, coinvolgente, in piena forma e quasi esuberante.

Resta poi da dire degli altri vini (tutti, con le eccezioni dette, “svitati”). Assai godibile il Morandina Valpolicella doc 2023, un vino di Corvina, Corvinone, Rondinella e Oseleta coltivate a quasi 500 metri di altitudine: affinato in botti grandi, ha un bel naso fruttato, asciutto, vinoso, scalpitante ma senza esagerare, con un palato molto sapido e una sensazione dissetante.


Più a metà del proprio cammino, a nostro parere, il Morandina Valpolicella superiore doc 2020, un vino dal naso profondo, compatto, intenso, con un frutto screziati e potenti che in bocca si traducono in tannini ancora importanti e una vena acida che richiedono più tempo per essere ammansiti.


Decisamente bene l’Amarone docg 2017 la Morandina, che non rinuncia alla propria identità tipologica ma evita le facili e purtroppo ricorrenti caricature con un bouquet tipico di frutti maturi e un palato solenne, pulito, perfino beverino nella sua importanza.


La sorpresa della giornata è però stato il Passito Bianco delle Fontane 2021 Veneto Igt: una bevuta piacevolissima, leggera, ricca, senza alcuna stucchevolezza, assai fine e screziato all’olfatto, assolutamente godibile in bocca, quasi un vino da fuori pasto.


Nota di merito finale al ristorante Konnubio, che ha ospitato la degustazione: molto riuscita la mezzamanica con crema di zucca, cinta senese e nocciole tostate abbinata al Soave e assai azzeccato anche il matrimonio tra l’Amarone e il saporito peposo di manzo con cime di rapa ripassate. Bravi.

Brunello di Montalcino 2020: vizi e virtù della nuova annata del re dei vini toscani. Bonus: la mia Top 10


È terminata da qualche giorno la 33ª edizione di Benvenuto Brunello, l’anteprima dedicata al principe dei rossi toscani del Consorzio del vino Brunello di Montalcino che da giovedì 14 a lunedì 18 novembre ha presentato in anteprima a giornalisti, buyer, operatori e wine lover il Brunello 2020, la Riserva 2019, il Rosso di Montalcino 2023 e gli altri due vini della denominazione, il Moscadello e il Sant’Antimo.


Come ogni anno, appena varcata la soglia del Chiostro di Sant’Agostino, che da qualche anno ospita la manifestazione, le prime domande che noi “addetti ai lavori” ci facciamo sono sempre le solite:” Come è stata l’annata 2020 a Montalcino? Come saranno i Brunello di questo millesimo?”


Stando a quanto riportato dal Consorzio, la 2020 è stata una vendemmia a 5 stelle, una valutazione di merito, anticipata, basata su parametri meteoclimatici, di consistenza e sanità delle uve che per l’ultima volta sarà usata per stabilire la qualità dell’annata. Infatti, e questa è la grande novità, quest’anno è entrato in vigore il progetto “Brunello Forma” che tenderà a valutare l’annata non secondo canoni quantitativi (le stelle) e autoreferenziali ma qualitativi e stilistici che derivano dalla forte interazione tra vitigno, cambiamento climatico e vino, considerando anche la grande eterogeneità del territorio in termini di esposizione, altitudine e suoli. Uno studio complesso che ha visto all’opera membri del Consorzio, un team di esperti climatologi e professionisti dell’high tech farming della società Copernico e un panel di degustazione internazionale, composto da 8 Master of Wine, tra cui spiccano i nostri Gabriele Gorelli ed Andrea Lonardi. Il responso, secondo questi esperti, è stato unanime: la 2020 è stato un millesimo accattivante, brillante, succulento, che ha prodotti vini versatili e vocati all’invecchiamento.


Andando a spulciare i dati meteo di Montalcino del 2020 si possono fare considerazioni ulteriori e più approfondite sulla qualità di questa annata e su come questa si rifletta poi nel calice. La stagione, esaminando i vari report del è stata calda, a tratti molto calda tra fine luglio e metà agosto (siamo arrivati quasi a 40° di giorno), intervallata solo raramente dalle piogge che sono scese, fortunatamente, copiose tra inizi giugno e fine settembre limitando lo stress idrico delle piante soprattutto durante il periodo della vendemmia creando, a mio giudizio, un divario importante a livello organolettico nel vino tra chi ha vendemmiato prima e chi dopo la pioggia di settembre.


Con le dovute eccezioni, che non sono poi così rare, generalmente posso anticipare che profilo del Brunello di Montalcino 2020 presenta i tratti di un vino che difficilmente tende a contenere la presenza di alcol che, in alcuni casi, specie se le uve provengono dalla zona sud, arriva a raggiungere se non oltrepassare i 15°. Se questo è vero bisogna anche sottolineare che solo pochissimi campioni da me degustati avevano un eccesso calorico fastidioso grazie ad una dotazione acida importante soprattutto per i Brunello provenienti dalla zona nord della denominazione. Infatti, e in questo caso sono assolutamente d’accordo con quanto riporta il progetto “Brunello Forma”, le note di degustazione riflettono una evidente diversità stilistica quasi sicuramente derivante dalla posizione del vigneto e dall’epoca di vendemmia che, come ho detto, risulta influenzata dalle piogge di settembre che, per chi ha raccolto dopo, hanno creato le condizioni per un miglior equilibrio in pianta. Tutto questo nel bicchiere si riflette attraverso una dicotomia tra vini misurati, floreali, dalle tonalità cromatiche scariche mentre altri, probabilmente provenienti da zone più calde, hanno profili organolettici più rotondi, voluminosi e dotati di ampia carica fruttata e graffio tannico.


A prescindere da tutte le diverse sfaccettature, la degustazione di oltre 150 campioni suddivisi tra Brunello di Montalcino “di entrata” e “selezione”, ha messo in evidenza una qualità media che anno dopo anno si fa sempre più importante per un Brunello di Montalcino che, sintetizzando, in questa annata regala al degustatore una piacevolezza immediata e di facile lettura pur mantenendo doti di complessità, profondità e territorialità che solo pochi vini al mondo possono vantare.

Di seguito, come sempre, inserisco la mia TOP 10 indicando i vini che mi hanno emozionato di più.

Castello Tricerchi – Brunello di Montalcino 2020: impronta aromatica seducente di frutta croccante, fiori essiccati e spezie orientali. Sorso inizialmente ostico poi si distende e di dota di piacevolezza e raffinata sapidità.

Col D’Orcia – Brunello di Montalcino 2020: da sempre in linea con lo stile del produttore, questo vino ha classe ed eleganza innata, non può non piacere e non può che raccontare le colline di Montalcino anche se la sua evidente dote di austerità mi ricorda che avrà tempo per svilupparsi in tutte le sue sfaccettature.

Le Chiuse – Brunello di Montalcino 2020: se la prima bottiglia bevuta non mi aveva convinto, la seconda mi ha decisamente entusiasmato grazie ad un preludio speziato, balsamico che svela solo dopo toni di frutta fresca e ginepro. La bocca è fresca e dinamica sugellata da un finale lunghissimo.

Poggio alle Forche – Brunello di Montalcino “Scarnacuoia 288” 2020: questa è stata un po’ la mia scoperta perché Giuliana e Lorenzo Turchi sono entrati a Benvenuto Brunello in punta di piedi perché ancora poco conosciuti tra gli operatori vist che per 40 anni hanno lavorato per una grande azienda locale. Solo pochi anni fa hanno deciso di riprendere in mano la terra e la storia di famiglia e iniziare a dar vita al loro Brunello di Montalcino sia “base” che “selezione” prodotto in maniera artigianale in pochissime unità. Scarnacuoia 288 è un Brunello di Montalcino da vecchie viti orientate ad ovest di stampo tradizionale, sa di viola mammola, frutta, spezie ed è dotato di una bocca ricca e graffiante. Prodotto in meno di 900 unità. Perdonate la lunghezza di questo box ma ci tenevo a raccontare questa azienda in maniera più decisa.

Salvioni La Cerbaiola - Brunello di Montalcino 2020: ci sono sempre durante le Anteprime i vini che mettono tutti d’accordo perché sono dei veri e propri totem in grado di evocare sensazioni uniche in grado di far pace una volta per tutte col Sangiovese Grosso di Montalcino. La struttura solida e complessa, la sua profondità e quel pizzico di arroganza tannica lo fanno destinare a lunga, lunghissima vita. Morirò prima io!

Sanlorenzo – Brunello di Montalcino 2020: l’altro vino che ha messo tutti d’accordo durante Benvenuto Brunello è stato quello di Luciano Ciolfi nelle cui mani il sangiovese del versante sud-ovest di Montalcino diventa pura opera d’arte liquida dove struttura e soffio alcolico sono gestiti in maniera egregia riservando al vino una raffinatezza di rara fattura.

Tenuta Buon Tempo – Brunello di Montalcino 2020: altra azienda poco blasonata ma che da tempo, grazie anche ad Attilio Pagli, tira fuori prodotti notevoli così come questo Brunello che pure provenendo dall’estremo sud dell’areale di produzione ha una armonia, una rotondità e un “succo” davvero magistrale. Non era facile ma loro ci sono riusciti. Bravi!

Tiezzi - Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” 2020: i grandi saggi di Montalcino come lo è il buon Enzo Tiezzi possono sbandare quando la stagione richiede impegno ma, alla fine, tirano fuori sempre il coniglio dal cilindro. Prova ne è questo Vigna Soccorso, preferito al fin troppo giovane Poggio Cerrino, che si caratterizza per precisione e sostanza dotandosi all’assaggio di una “silhouette” di pregiata fattura e già perfettamente godibile.

Val di Suga – Brunello di Montalcino “Poggio al Granchio” 2020: la vigna Poggio al Granchio è situata in zona sud e gode di un clima continentale, abbastanza caldo, mitigato da una elevata escursione termica grazie alla vicinanza del Monte Amiata. Il risultato è un Brunello di Montalcino avvolgente, sinuoso, carnoso, morbido ma al tempo stesso elegante al gusto grazie ad una pregevolissima trama tannica ben integrata nella struttura del vino.

Le Ragnaie - Brunello di Montalcino “Passo del Lume Spento” 2020: Riccardo Campinoti vede sempre oltre e non è un caso se ha piantato da tempo un bellissimo vigneto di sangiovese sul Passo del Lume Spento, ad oltre 600 metri s.l.m., il punto di più alto, ad oggi, dove si produce Brunello di Montalcino. Non sarà un caso, perciò, che questo vino ha una freschezza fuori dal comune, colpisce soprattutto la luminosità del suo scenario aromatico tutto giocato su piccole bacche rosse, fiori appassiti, muschio e felce. Brioso e dinamico il suo iter al palato, ricco di sapidità e con un finale che si allunga prepotente con una nitida scia minerale.

Casali del Barone - Barbaresco 2015


di Luciano Pignataro

Era ora di dare un senso al viaggio di questa bottiglia: la stappiamo su una grigliata di maiale allevato alla vecchia maniera e ci regala le dovute soddisfazioni grazie ad una buona e risolta trama tannica e ad una vivace freschezza. 


Il naso di frutta rossa e conferma l'eleganza assoluta del nebbiolo quando si fa Barbaresco. Lungo, con una chiusura pulita che lascia il palato in attesa del nuovo sorso.

InvecchiatIGP: Cantine Astroni - Piedirosso Campi Flegrei DOC "Tenuta Camaldoli" Riserva 2011


di Luciano Pignataro

L’unità di misura del fascino del vino è il tempo. C’è poco da fare, per gli appassionati e per gli esperti non c’è niente di più bello che viaggiare attraverso le verticali, oppure stappare qualche bottiglia vecchia conservata per l’occasione speciale o trovata per caso in un cassetto, in cantina, dietro un armadio. Come un vecchio libro di cui ti eri dimenticato. Sul rosso il valore del tempo è abbastanza acquisito, sul bianco inizia ad essere un valore anche fra gli addetti ai lavori italiani. Il tempo è importante perché è veramente la linea di confine fra l’industriale e l’artigianale: nel primo caso si punta in ogni modo ad accelerare la produzione, nel secondo si da all’oggetto la possibilità di prendersi cura di se senza ansia di ritmi produttivi esasperati.

Credit: L'Arcante

Ma cosa succede quando per una vita hai pensato che un vino da particolare vitigno non avesse bisogno di troppi anni per essere al massimo, al nadir della sua linea evolutiva e vieni poi contraddetto da una bottiglia tirata fuori da una cassettina di legno che avevi lasciato in un angolo? Succede l’ennesimo miracolo del vino, rimanere spiazzati e imparare nuove cose, perché poi è questo il fascino vero, il socratico sapere di non sapere. La persona colta usa condizionali e congiuntivi, l’ignorante l’imperativo e punti esclamativi.


Insomma, questo Piedirosso Tenuta Camaldoli 2011 come è stato? Per i giochi misteriosi della cabala, lo avevamo provato giusto dieci anni fa con molta curiosità perché si tratta della prima annata di questa etichetta. L’idea di Gerardo Vernazzaro è stata di riprendere ciò che di positivo c’era nella vinificazione del passato coniugandolo alle conoscenze moderne: un Piedirosso importante, con vigne affacciate su Agnano, le Isole e la città di Napoli, dentro la città, su suolo tufaceo di proprietà di Cantina Astroni. 
Così scrivevo nel 2014: “Vinificato in tino di ciliegio e affinato in legno di castagno usato in passato per la Falanghina Strione, poco più di mille bottiglie, il primo Tenuta Camaldoli ha il giusto bilanciamento tra l’esigenza di preservare i profumi e quella di avere un pizzico di struttura in più per una migliore stabilizzazione nel tempo. In queste prime battute il vino sembra aver centrato l’obiettivo, ma sarà il tempo a dirci se proprio questa è la strada da seguire”.


Bene, non immaginavo di aspettare tanto tempo, ma la prova è arrivata per caso in una notte cilentana davanti ad un buon fusillo al ragù di castrato. La prima notizia è che il vino ha retto benissimo, a cominciare dal tappo perfetto, ma già in passato avevamo fatto alcune verticali che si aveva dimostrato che il Piedirosso resiste al tempo se ben conservato anche se non può essere paragonato all’Aglianico per il quale dieci anni sono il tempo normale di attesa per lo stappo equilibrato.

Gerardo Vernazzano

Il vino ha conservato sentori di frutta fresca, ciliegia soprattutto, in una cornice fumé leggermente accentuata rispetto ai Piedirosso della zona più giovani. Non avendo problemi di tannini come l’Aglianico, la beva è stata piacevole, equilibrata con un allungo finale amarognolo molto gradevole ed efficace nel ripulire il palato. Ottima la freschezza che ha regalato al bicchiere una buona tonicità. Il messaggio che possiamo lasciare nella bottiglia svuotata è che se lo dimenticate potete goderlo lo stesso acquisendo un pizzico di complessità in più. Pensato per durare quattro, cinque anni, a tredici anni dalla vendemmia si è presentato compatto ed energico.

InvecchiatIGP - Torre a Oriente - Campania IGP Falanghina "Liéo" 2017


di Luciano Pignataro

Che la Falanghina abbia possibilità di invecchiamento è una di quelle frasi che qualche anno fa il generale del “verso giusto” avrebbe inserito fra gli esempi del “mondo al contrario”. Se ne beveva tanta e con voluttà a pochi mesi dall’imbottigliamento e ancora oggi gran parte della produzione tende ad essere venduta prima che inizi la vendemmia successiva. Ma non sono pochi i produttori che si stanno dedicando al viaggio nel tempo con questo vitigno, al pari di quanto ormai si fa con il Fiano di Avellino e, in misura minore, con il Greco di Tufo. Il suolo vulcanico e le escursioni termiche sono comunque due precondizioni per ottenere vini capaci di affrontare questo tema.


Dopo Fontanavecchia a Torrecuso, ecco allora un’altra azienda, Torre a Oriente di Patrizia Iannella, siamo sempre nello stesso comune alle falde del Taburno in provincia di Benevento, che propone un Falanghina con tempi più lunghi. Per la verità lo fa da tempo con una etichetta, il Biancuzita, nome dialettale della stessa uva: viene infatti proposta a un anno dalla vendemmia. Adesso il salto di qualità, l’occasione per la presentazione è stato un progetto chiamato Triodiversità che ha messo insieme il tridente della nostra cultura gastronomica mediterranea: vino, grano e olio in collaborazione con Masseria Roberti e la Cantina Pietrefitte.


Ma torniamo alla nostra Falanghina. Partiamo dal prototipo chiamato 20+1+1 così chiamata perché parte da una vasca della calda vendemmia 2011 lasciata riposare a lungo in via sperimentale per vedere l’evoluzione nel corso degli anni. Noi l’abbiamo provata e dobbiamo dire che è semplicemente perfetta e pimpante come una persona che ha 11 anni che si affaccia al mondo. A parte il prototipo, il nuovo vino, chiamato Lieo, si affaccia in commercio con l’annata 2017: fresca, ricca, con sentori di frutta croccante e di note balsamica, al palato piena di energia, ampia, lunghissima e con una piacevole e precisa chiusura amarognola. Poco più di tremila in commercio per un bianco di sette anni e che sarà replicato solo in alcune annate particolarmente favorevoli.


Insomma, l’ultimo capitolo della bella avventura enologica di Patrizia Iannella, fortemente sorretta dal marito Giorgio Gentilcore, impegnato nel vicino Fortore nella la coltivazione di legumi e delle olive da cui ricava olii extravergine di oliva di pregevole fattura che rientrano nella produzione dell’azienda. Patrizia, agronoma è una donna tenace. E con tenacia oltre venti anni fa riuscì ad imporsi per dare una svolta alla storia di famiglia, decidendo di coltivare i vitigni storici Aglianico e Falanghina secondo le moderne forme di allevamento, riadattando anche gli antichi sistemi di coltivazione. All’inizio fu scontro, soprattutto con papà Mario. Quel papà che piano piano ha finito di abbracciare pienamente la nuova filosofia, continuando a prendersi cura delle vigne fino al giorno della prematura scomparsa.
Una tradizione che Patrizia ha deciso di rendere protagonista anche a tavola, affiancando alla cantina una bella struttura ricettiva che costituisce una tappa gastronomica sannita da non perdere.