di Carlo Macchi
Sembrava di un’altra epoca e lo era. Del resto tra il 1930 e il 1969, il
1974 o il 1977 ci son come minimo quasi quarant’anni e il vino il quel
bicchiere, almeno dal colore, sembrava fuori posto. Come se io entrassi in una
discoteca piena di ventenni.
E poi il 1977 (“solo” 47 anni
di differenza) non era certo il vino più giovane. A sua volta per lui erano
bambini il 1995, il 1998, per non parlare del 2006, 2010, 2016, 2017. Forse il
1977 si poteva “intendere” con i quasi coetanei 1981 o 1988 ma da una
degustazione che spazia per 90 anni della nostra storia non puoi aspettarti che
i vini parlino la stessa lingua e si capiscano (o si facciano capire) al volo.
Così quando da quei 12
bicchieri di Villa di Capezzana più che profumi hanno cominciato ad uscire voci
mi sono messo ad ascoltarle rapito.
1930: “Scusate giovane, ma quel 1969 che è scritto lì, a cosa si riferisce?
1969: “A cosa vuole che si riferisca, all’anno in cui sono nato! A proposito,
se quel
1930 è il suo anno di nascita lei è parecchio vecchio!”
2017: “Perché sarai giovane te! Nel 1969 la mi’ nonna era per strada a Parigi
e gridava a squarciagola - C'est ne qu'un début, continuons le combat- tanto
per farti capire.”
1930: ”Le barricate a Parigi? Me lo immaginavo! Quelli del Fronte Popolare
sono sempre stati pronti a creare problemi. In Italia con il Duce queste cose
non possono succedere!”
1988: “Il Duce? Sveglia nonno! Il fascismo è morto e sepolto da più di 40
anni e oggi l’Italia è una Repubblica.”
1930: “Una Repubblica? Davvero?”
1974: “Ma dove avete vissuto fino a ora? La guerra e il fascismo sono finiti da
quasi vent’anni e e ormai siamo un paese industrializzato.”
2010: “Industrializzato e internazionalizzato pure troppo, la crisi economica
mondiale dell’anno scorso c’ha messo in braghe di tela.”
1981: “Ma di che crisi stai parlando? Anche se l’inflazione è quasi al 20% con
Spadolini Presidente del Consiglio e soprattutto con Pertini Presidente della
Repubblica non siamo messi male.
2006: “ Pertini? Quello del mondiale del 1982? Ma chi se lo ricorda più! E
poi dopo il culo che abbiamo fatto a tutti quest’anno in Germania…Po popo
popopo po
1930: “Cosa? Abbiamo sconfitto la Germania? Lo sapevo! Quella Repubblica di
Weimar faceva acqua da tutte le parti”
2016: “Nonno, ma di cosa parli! A parte che tra vini parlare d’acqua non è
educato, ma basta andare 10 minuti su internet per capire cosa è successo in
questi anni.”
1930: “Al tempo giovane! intanto mi dia del Voi e poi dove dovrei andare a
vedere? Dov’è questo Internè, in Francia?”
Scusate se ho volato con la fantasia
ma ho pensato che il modo migliore per capire come affrontare una verticale che
copre un periodo temporale immenso sia provare, almeno un minimo, ad
identificarsi con ogni periodo toccato, con ogni epoca (termine non scelto a
caso) dove, anche se si parlava la stessa lingua, si hanno parametri sociali e
riferimenti storici diversi. Anche nel vino è così, perché se è chiaro che un
vino del 1930 non può essere stato fatto come uno del 2017 è forse meno chiaro
ma non meno vero che tra un 1969 e un 1981 c’è un abisso enologico, altrettanto
tra un 1988 e 2006 e forse il compito più difficile per un degustatore è quello
di essere il “pontefice” della verticale.
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La famiglia Contini Bonacossi |
Non il papa ma il pontefice,
termine di derivazione latina e che vuol praticamente dire “facitore di ponti”.
In questo caso i ponti da creare sono storico-enologici e servono per capire e
far capire come sia cambiato e perché il modo di fare il vino negli ultimi 90
anni, a Capezzana, a Carmignano e non solo. Quindi questa degustazione,
organizzata in maniera ineccepibile dalla famiglia Contini Bonacossi, oltre ad
avermi fatto degustare vini indimenticabili (del 1930 dirò alla fine… ve lo
dovete meritare!) mi ha anche conferito l’onere e l’onore di cercare di
presentare a volo d’uccello i grandi cambiamenti enoici avvenuti in questi 90
anni.
Partiamo da oggi, con Villa di
Capezzana che potremmo definire muscolari se non fossimo, appunto, a Capezzana,
dove storicamente Sangiovese e Cabernet Sauvignon convivono 2017, 2016, 2010,
2006 hanno lo stesso uvaggio (80% sangiovese, 20% cabernet sauvignon) ma
soprattutto li accomuna un periodo di “riscaldamento globale” che li porta
tutti a parametri analitici praticamente identici, con gradazioni alcoliche sui
14.5°, Ph prossimi a 3.50 e acidità totali vicinissime a 5.50.
Se sono così simili cosa li
differenzia allora? Prima di tutto la mano dell’uomo e poi l’andamento vendemmiale
che in alcuni casi non ha avuto bisogno di “frenate”, mentre in altre, vedi
2017, ha visto interventi mirati (non solo vendemmie anticipate ma gestione
della chioma, diradamenti etc.) per evitare di fare vini troppo rotondi e poco
freschi. Tutti infatti hanno estratto secco prossimo a 33 g/l (il 1930 ha 24
g/l…) con delle corpulente batterie di tannini, sempre più rotondi e armonici
mentre si viene avanti con gli anni. Per esempio, la 2006 l’ho definita
“dinamica con tannini importanti ma distesi e quasi pungenti” mentre la 2017 è “corposa,
con grande concentrazione di tannini dolci e rotondi.”
Se proviamo ad andare qualche
anno indietro nel tempo, arrivando al 1995 e al 1998, dal punto di vista
analitico notiamo una diminuzione del grado alcolico di quasi un punto e mezzo
e infatti la prima annata ufficialmente calda è targata anni 2000. Negli ultimi
anni del millennio (e poi per almeno altri 5-6 anni) erano di moda vini molto
estratti e concentrati e, specie in Toscana, lo stile “Supertuscan” portava a
prodotti dove il legno accompagnava spesso vini figli di una grande estrazione,
con tannini grossi come cavalli, acidità relegate in cantina e notevole
“mangiabilità”.
Per fortuna Capezzana ha
sempre avuto il suo stile, che per definizione è l’opposto della moda, e questi
due vini, un 1995 molto dinamico e un 1998 setoso ma deciso al palato, ne sono
la dimostrazione mostrando (anche analiticamente) una freschezza notevole. Si
incomincia a capire che lo stile Capezzana è basato sull’equilibrio e
sull’eleganza, uniche armi che possono garantire una vita lunghissima al vino.
Dal punto di vista dei profumi si notano ancora bei sentori di frutta ma
affiancati da china, cuoio, liquirizia e qualche bella punta di cassis. Li ho
definiti vini “educati” se confrontati a tanti che in quegli anni colpivano
solo per rozza potenza. Non per niente Capezzana era difficilmente premiata
dalle guide vini di allora, proprio perché i modelli erano altri. Questo non ha
fatto mai spostare il tiro alla famiglia Contini Bonaccossi, dove allora il
Conte Ugo era ancora il patriarca incontrastato.
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Le 12 bottiglie
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Bastano pochi anni indietro per
domandarsi, come nella canzone di Raf (chi se la ricorda?), cosa è restato di
quegli anni ‘80. Lo capiamo dal 1988 e dal 1981, figli della prima vera
internazionalizzazione del vino italiano e toscano in particolare. In quegli
anni il mondo si rese conto che anche da noi si facevano grandi vini, anche se
spesso grazie a annate toccate dalla grazia di dio, come la 1988 che, dal punto
di vista agronomico e enologico, è sicuramente molto più vicina non solo alla
1981 ma alla 1977 e alla 1974 che non alle vendemmie degli anni ’90, dove si parlava
di concetti allora inesistenti, come diradamenti in vigna e controlli di
temperatura in cantina. La 1988, anche se la bottiglia non era al top, ha
mostrato appunto quella perfezione che solo poche annate possono avere. In
bocca, mi ripeto, rasentava la perfezione con seta al posto dei tannini e tutte
le cose al loro posto. Un sogno di vino (scusate il gioco di parole) che si è
potuto mantenere così grazie appunto allo Stile Capezzana che, anche senza le
moderne tecnologie, prediligeva vini dove il sangiovese, il cabernet sauvignon
e il canaiolo (che è stato tolto a partire dal 1998) portavano allora a vini
magari un po’ ruvidi nei primi anni ma sempre equilibrati. Con il 1988 si
cominciano a sentire aromi che non solo vanno su note speziate (menta,
liquirizia) ma puntato a sentori terrosi, fungo e tartufo soprattutto. Il 1981
mette subito in campo un’acidità importante e netta (una delle gambe del vino,
si diceva un tempo) che, con una gradazione sotto ai 13°lo rende freschissimo,
ma sempre armonico e sapido. Il naso è cangiante e addirittura dal tartufo
iniziale punta verso nota di frutta matura e floreali, con sambuco e lavanda in
primo piano. Un vino di una vendemmia non certo eccezionale ma che ha trovato
in una certa “leggerezza iniziale” la strada per maturare alla perfezione.
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I bicchieri |
Arriviamo agli anni ’70, che
ci portano in quella che potremmo definire la “preistoria” dell’attuale vino
toscano. Annate più fredde, rese più alte, maturazioni più lunghe (quando la
maturazione c’era) portavano a vini sicuramente (usando un parametro odierno)
più diluiti, dove l’acidità marcava il vino e il tannino non aveva certo la
rotondità di un vino moderno. Una viticoltura che sembra lontana anni luce (non
era finita da molto la mezzadria!) anche se stiamo parlando di nemmeno 50 anni
fa. 1977 e 1974 sono figli di questo periodo ma ne escono alla grande.
Invece ne esce alla
grandissima il 1969, che accomuno ai due precedenti come periodo e che è stato
il vino che mi ha più sorpreso, addirittura più del 1930. E’ stata la prima
annata della DOC Carmignano e porta altissimo il blasone della denominazione
grazie a una incredibile potenza e freschezza al palato, a una profondità
gustativa immensa e una dinamicità scorbutica ma comunque armonica che mi hanno
lasciato di stucco. Un vino da cui imparare e sicuramente a Capezzana l’hanno
fatto.
Arriviamo al 1930 con un salto
temporale che impressiona. In quell’anno, tanto per dirvi, si sposò la figlia
di Mussolini con Galeazzo Ciano e il partito Nazionalsocialista di Hitler
ottiene un’importante vittoria alle elezioni tedesche. Quel 1930 che mi guarda
con tono fintamente dimesso dal bicchiere non è un vino ma un libro di storia! Pare
che venne fatto da Alessandro Contini Bonaccossi, nonno del Conte Ugo, con
l’aiuto di un esperto di agronomia che aveva un cognome molto particolare:
Gattamorta. Un vino che è stato “sepolto vino” per evitare che gli invasori
tedeschi lo trovassero, un vino che, anche se non lo faccio spesso, devo descrivere
attentamente. Aranciato leggero, anzi ambrato ma ancora abbastanza brillante,
anche se il colore è un po’ diluito. Al naso una sensazione tostata e poi più
chiaramente un incredibile profumo di croccante alle mandorle seguito dal
profumo di nocciole, di erbe officinali e fiori. Un’acidità netta e quasi
metallica che sembra rimbalzare sui denti porta a sapidità e a un corpo leggero
ma per niente arrendevole.
Chiudo questo libro di storia
con il rimpianto di non poterlo aprire più, ma poi penso che forse, in futuro,
la famiglia Contini Bonaccossi mi inviterà per stappare un’altra bottiglia del
centinaio (centinaio!) che hanno ancora in cantina.
Finisco con tre
ringraziamenti: alla famiglia Contini Bonaccossi per essere da anni un esempio
di come produrre grandi vini, a Franco Bernabei (enologo della cantina e caro
amico) per avere analizzato tutti i vini così da averci fornito informazioni
importantissime per capirli e infine ai vini che ho degustato, dodici lezioni
su cosa di bello può riservarti la vita e la vite.