InvecchiatIGP: Lungarotti - Rubesco "Vigna Monticchio" 1997


di Luciano Pignataro

Chi segue il mondo del vino dagli anni ’90 ricorda bene la 1997: unanimemente definita grande, fantastica. I giornali allora, sotto la spinta di Bordeaux e Montalcino, non esitarono a proclamarla “l’annata del secolo” — anche se poi ci si è fatta l’abitudine. Al di là delle esigenze mediatiche, non ci sono dubbi: ovunque si beva un rosso di quella vendemmia, si ricava una bella soddisfazione, grazie a una stagione regolare, da manuale, di quelle che si studiavano alle scuole elementari prima che nascesse il detto “non esistono più le mezze stagioni”. In particolare, uno straordinario settembre portò a compimento la maturazione in modo perfetto.


Anche a Brufa, frazione di Torgiano, in Umbria. Qui, su un agnello arrosto con zucchine alla scapece scelto nel menu di Olimpia, il bel locale dei fratelli Vittorio e Gregorio Valloni, Chiara Lungarotti decide di stappare il Rubesco Vigna Monticchio 1997: il momento clou di una giornata trascorsa tra i vigneti piantati dal padre Giorgio, pioniere visionario della viticoltura di qualità, la cantina e lo splendido Museo del Vino, la cui visita consiglio a tutti almeno una volta nella vita per capire quanto profondo sia il legame di questa bevanda sacra con le arti, i mestieri, la psicologia e la cultura mediterranea dello stare insieme a tavola — dagli Etruschi ai giorni nostri — prima che i servi delle multinazionali delle oncologiche bibite gassate ed energetiche finanziassero le campagne anti-alcol, segno evidente del regresso e della crisi della nostra civiltà occidentale, per la banalizzazione del tema.


L’etichetta ha ormai più di 60 anni: questa bottiglia di Sangiovese incrocia le tradizioni delle due regioni che premono da nord sulla piccola Umbria, riuscendo a darne un’interpretazione ben distinta e caratterizzata. La prima annata è del 1962, e fu proprio Giorgio a volerla, puntando su questo vitigno e anticipando i tempi in maniera incredibile: Torgiano divenne DOC nel 1968 e DOCG nel 1990. La 1997 è, tra l’altro, la penultima vendemmia firmata dal grande imprenditore, scomparso nel 1999. Insomma, l’avete capito: aprirla è stata una grossa responsabilità, densa di significati e di temi che si incrociano. E lo stappo, oltre a rivelare un vino in perfetta forma e vitalità, esprime anche la modernità con cui già all’epoca era lavorato in botte grande, senza cedere alla moda della barrique — allora mantra inevitabile in ogni cantina — oggi invece oggetto di condanna secondo una vulgata commerciale neopauperista molto in voga.


Il rosso esprime subito frutta al naso, ancora fresca, senza cedimenti né suggestioni ossidative. La freschezza rilassa il naso e accompagna la beva in modo appagante. Vive da solo ma anche ben accompagnato da questa carne, preparata e servita dai fratelli che hanno dedicato il ristorante alla loro mamma. Ed è in questo contesto — con questo vino pensato da un grande uomo, con Chiara, degna figlia di tale padre — che la serata si apre e ci convince che non tutto, in fondo, è perduto, se esiste ancora un’Italia capace di offrire queste meraviglie.

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