di Stefano Tesi
Ho un’età per la quale posso vantarmi (o lamentarmi) di avere una certa memoria storica. E, come accade spesso, il ricordo delle cose lontane risulta assai più vivido di quelle recenti. Parlando di vinsanto, quindi, rammento alla perfezione quelli che in Toscana si facevano fino a quarant’anni fa. C’erano i vinsanti di fattoria, più impegnativi ma comunque agili, vini da commiato e da benvenuto, un po’ da salottino, insomma, le chiavi della vinsantaia dei quali il padrone teneva in tasca come una reliquia, vietando l’accesso perfino alla consorte. E c’erano quelli più ruspanti del contadino, giovani, chiari, un po’ acquosi e acidini, fatti per essere bevuti a veglia nell’aia o dopo cena al tepore del focolare. Delle due categorie ce n’erano di ottimi e di pessimi, ovviamente, e anche in ciò stava il bello.
Le due tipologie erano molto diverse. Ma anche e soprattutto erano diversi i vini tra loro. Ognuno aveva un tratto caratteristico, che prescindeva pure dall’annata e dalla migliore o maggiore qualità e che quasi si identificava col produttore, finendo per esserne una sorta di ritratto, di profilo caratteriale parallelo.
Quasi nessuno dei vinsanti di allora era dolce come quelli di oggi. Più spesso era secco, al massimo abboccato (caso in cui lo si diceva “da donne”, sperando che negli odierni tempi di politicamente corretto nessuno si offenda) e la dolcezza non era a priori un parametro di bontà, ma casomai una precisa caratteristica e a volte un limite.
Poi i gusti si sono evoluti, le mode hanno fatto il loro corso e compiuto il loro effetto, lo zucchero e i cantucci della propaganda hanno prevalso sul resto e quindi oggi nella mente del consumatore medio gli standard del vinsanto sono diventati appunto la dolcezza e l’inzuppabilità.
Niente di male: così va il mondo e, per fortuna, le preferenze personali non sempre sono un’ideologia. Per tutte le ragioni dette finora, in ogni caso, i vinsanti di prima raramente venivano venduti se non localmente e in modeste quantità e comunque rappresentavano una voce irrisoria dei ricavi (nessuno si prendeva la briga o aveva il coraggio di calcolare, invece, i costi). Ancora più di rado venivano invecchiati oltre una certa soglia. E trovare quelli vecchi davvero era una rarità, una curiosità da centellinare in casa, più come esperienza da affabulazione serale che come una semplice, piacevole bevuta.
Tutto questo mi è tornato in mente quando, qualche settimana fa, alla degustazione di vini dolci toscani organizzata dalle Donne del Vino della Toscana alla fattoria del Colle, ho assaggiato il vinsanto 2004 della Tenuta Il Corno, storica azienda dei conti Frova in quel di San Casciano Val di Pesa. Tra i molti, a volte ottimi assaggi, questo si distingueva per una complessità e una personalità fuori dall’ordinario. E non solo in virtù di un’età – quasi vent’anni - abbastanza venerabile anche per un vinsanto.
So che, per questa sua scarsa conformità al modello, alcuni colleghi non l’hanno apprezzato.
A me invece è piaciuto moltissimo proprio per il suo essere fuori passo.
Al di là del colore ambrato scuro e un po’ velato, mi ha colpito subito il potente, penetrante impatto olfattivo, con una sequenza cangiante e intrigante di caramelle al rabarbaro, china, liquirizia, Caffè Borghetti e toffees che non ti aspetti, capaci di provocare un tuffo nel passato e un immediato effetto madeleine. Tutte articolazioni che, poco a poco, ho ritrovato al palato, e a ondate anche nel retrogusto, con un finale pastoso ma niente affatto stucchevole, lunghissimo e lievemente amaro, suggeritore pure di un uso “da fumo”.
In un’ottica contemporanea si tratta un vinsanto senza dubbio inusuale, ma per questo ricco di una identità che non si dimentica e che riconcilia con l’idea della biodiversità del vinsanto, oggi spesso smarrita in modo troppo frettoloso nel nome di una qualità più tecnica e asettica, ma spesso banalizzante.
La produttrice, Maria Giulia Frova, ci fa sapere che è prodotto con uve proprie di Trebbiano, Malvasia, San Colombano e Colorino, raccolte la prima settimana di settembre e lasciate sui cannicci fino a dopo Natale. Una volta torchiato, il vino resta in caratelli nel sottotetto della fattoria per cinque anni mantenendo la storica madre aziendale. Quindi avviene il primo assaggio, per valutarne l’ulteriore permanenza in caratello da 7 a 11 anni. Ne fanno mediamente 4mila bottiglie da 0,50 cl in vendita al prezzo di 18 euro l’una. Io ne ho prenotato un cartone, così potrò meditare tutto l’inverno…
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