InvecchiatIGP: quella Vernaccia di San Gimignano del '78 di Dino Monagnani che ci fa sognare!


di Roberto Giuliani

Per quanto mi riguarda ho speso sempre molte parole per tentare di sfatare l’idea che i vini bianchi italiani non siano in grado di competere con i rossi per longevità. Non ci provate nemmeno a dire “ma mica tutti i vini bianchi!”, perché tutti i vini rossi sì? Scremate le numerose tipologie di vino che nascono già senza la pretesa di saper invecchiare, possiamo dire con certezza quasi matematica che nel variegato mondo dei bianchi italiani c’è molta roba seria con quelle caratteristiche di cui stiamo parlando, non esiste una sola regione italiana che non possa offrire dei bianchi longevi, credetemi, dal Timorasso piemontese al Fiano campano, dal trebbiano abruzzese al verdicchio marchigiano, dalla ribolla friulana al vermentino ligure, potrei andare avanti a lungo. Ma forse, quello che meno vi aspettereste, è trovare bianchi dalla longevità sorprendente in una regione rossista per eccellenza come la Toscana.  
Ebbene, anche in questo caso sbagliereste, alla grande! Non c’è bisogno di finire su qualche famoso Chardonnay della terra di Dante e Leonardo, sarebbe troppo facile. Andiamo invece dall’unica DOCG bianca toscana, la Vernaccia di San Gimignano, che la maggior parte dei comuni mortali beve appena uscita o poco dopo. E no, non ci siamo! Quei poveracci come me e gli altri IGP che ogni anno devono spupazzarsi le nuove annate di Vernaccia, trovando vini prevalentemente acidi e citrini, scomposti e sgomitanti, sanno bene che ci vogliono almeno un paio d’anni per cominciare a sentire cosa ha da raccontare questo vino. Minimo. 

E se vi dicessi che, invece, si può andare indietro nel tempo in maniera inimmaginabile e scoprire che quel bianco in terra di rossi è uno che non sente le rughe nemmeno dopo 44 anni? Qualcuno potrebbe dire che giusto da Montenidoli può esserci un vino così. Sbagliato ancora una volta! 


La Vernaccia del ’78 che mi ha fatto ricrescere i capelli è quella di Federico Montagnani, dell’omonima tenuta. 
Ovviamente a quel tempo non era Federico a lavorare in vigna e cantina, ma il suo babbo Pietro, 32 anni non ancora compiuti e suo nonno Dino di 58. Erano già 12 anni che imbottigliavano i loro vini, infatti la prima vendemmia finita nel vetro risale al 1966. Il vino veniva fatto da sempre, ma venduto ad altre cantine, prima degli anni ’60 erano davvero in pochi a imbottigliare. Come dice Federico “La mia famiglia aveva come numero di registro d’imbottigliamento della provincia di Siena il 13. Tanto per fare un paragone, a me nel 2017 hanno assegnato il numero 9861”.
E continua a spiegarmi: “La vendemmia della ’78 fu fatta nel mese di ottobre, le giornate erano fredde e spesso piovose, oggi si vendemmia vernaccia nel mese di settembre, spesso in maglietta a mezze maniche. Le uve venivano portate in cantina, diraspate e messe in serbatoi di cemento e dopo circa 24 ore di macerazione, per gravità si separavano le bucce (più leggere in alto) e mosto (più pesante in basso), la cosiddetta alzata di cappello. Il mosto di sgrondo, ovvero il fiore, destinato a finire in bottiglia, veniva spostato in un serbatoio, mentre la restante parte era destinata alla vendita in damigiane a privati, molto richieste in quegli anni”. 


Federico mi fa notare anche che le gradazioni erano ben diverse da quelle attuali, infatti questa ’78 riporta in etichetta 12 gradi, ma arrotondati per difetto, l’esatto contrario di ciò che accade ora per via delle annate sempre più calde. Eppure questa gradazione così modesta non sembra avere minimamente condizionato l’evoluzione del vino, forse perché la vigna da cui veniva prodotta era recente, innestata in campo da babbo e nonno con quel clone di vernaccia che ancora oggi è utilizzato per la produzione dell’Assola, la riserva aziendale. 


La bottiglia stappata da Federico in occasione di una visita proprio il giorno della degustazione delle nuove annate, a detta sua non era neanche la migliore, ne aveva aperta un’altra in precedenza ancora più viva ed espressiva. Tanto di cappello, visto che questa mi ha mandato in brodo di giuggiole, soprattutto lasciata respirare a lungo nel calice, rivelando note di miele di castagno, un’affumicatura invitante, frutta bianca e agrumata in confettura, erbe aromatiche. Temevo di trovarla più che ossidata, soprattutto al naso, invece non è andata così, l’ossidazione è apparsa solo all’inizio, poi con l’ossigenazione il vino si è rinvigorito, un po’ come avviene alle piante in vaso quando gli manca l’acqua. E che vigore! L’acidità era ancora lì a dire la sua, il sorso non era debole e spento, al contrario succoso e vitale, sapido, davvero bello e complesso.

Ora sapete cosa vi siete persi in tutti questi anni che avete voluto stappare sempre bianchi giovani. Donna e uomo avvisati…

Cantina Sant'Andrea - Moscato di Terracina Amabile "Templum" 2019


di Roberto Giuliani

Quasi 50 anni che viene prodotto, nella veste più tradizionale, amabile, questo moscato dal colore oro caldo regala note di frutta secca, uva passa, albicocca, sfumature di zenzero. 


B
occa generosa, intensa e sapida, con un buon apporto di freschezza, tanto che la nota dolce quasi non si percepisce.

www.cantinasantandrea.it


Col Vetoraz cambia l'idea di longevità del Prosecco Valdobbiadene Superiore Brut DOCG


Di Roberto Giuliani

La forte ascesa, per ora inarrestabile, del Prosecco, ha spinto ad allargare sempre più l’area produttiva, basta farsi un giro in auto per accorgersi che ormai si trovano numerosi vigneti anche a valle, con sistemi di potatura standardizzati e mirati a fare quantità più che qualità. Con una produzione che continua a salire, forte di una richiesta al momento abbondantemente superiore all’offerta, non si può guardare tanto per il sottile e la qualità diventa un fattore secondario. Non è una scoperta il fatto che in gran parte del nostro Paese, l’aperitivo si fa soprattutto con il Prosecco, facile da trovare al bar come al supermercato, grazie a una mole produttiva che ha già abbondantemente superato il mezzo miliardo di bottiglie e a un prezzo medio davvero alla portata di tutti. 


In questo contesto far comprendere al consumatore che questo vino non è tutto uguale, ma esistono fasce qualitative differenti, zone elette e zone meno o quasi per nulla vocate è impresa assai ardua. Potremmo fare un discorso analogo, ad esempio, nel mondo Chianti; anche lì, la zona storica ha rischiato di rimanere completamente schiacciata dal boom economico che ha portato a coinvolgere aree produttive differenti all’interno della denominazione riducendo il territorio classico a sottozona del Chianti. Successivamente le due denominazioni sono state divise, ma il Chianti Classico, per liberarsi dal fardello di sembrare una costola del Chianti, ha dovuto puntare sul simbolo del Gallo Nero, che dal 2005 è diventato il marchio esclusivo della denominazione, che lo accompagnava dal lontano 1924, quando fu fondato il “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca di origine”. Nel caso del Prosecco, il momento del salto definitivo è avvenuto nel 2009, quando le due denominazioni storiche e qualitativamente superiori Conegliano-Valdobbiadene e Asolo, hanno ottenuto la DOCG. 

Ma questo passaggio legislativo è bastato a modificare l’immagine collettiva del Prosecco? Certamente no, anche se la strada in qualche modo è stata spianata affinché si creasse un percorso d’elezione, fra comunicazione e qualità delle aziende trainanti, oggi possiamo dire che anche queste due DOCG stanno riscontrando sempre maggiore successo, in una fascia di prezzo medio-alta per la tipologia. 

E qui si apre un’altra questione, altrettanto spinosa: quanti possono dire di sapere cosa è capace di fare negli anni questo vino, da sempre destinato come gran parte dei bianchi, a essere bevuto appena uscito

Bene, nel caso del Prosecco, possiamo dire che è un’opportunità assai remota, perché non esiste una tradizione di storicizzazione, le aziende più “vecchie” possono avere un po’ di annate conservate, ma magari non hanno mai pensato che potesse interessare a qualcuno stapparle. 


La visita presso l’azienda Col Vetoraz di Santo Stefano di Valdobbiadene, che il nostro gruppo Garantito IGP ha effettuato sabato 23 aprile, su invito della brava Lorella Casagrande dell’agenzia Carry On di Conegliano, ci ha permesso di scoprire, attraverso una straordinaria verticale di ben 16 annate di Valdobbiadene Brut, che non solo è capace di invecchiare, ma addirittura diventa estremamente più stimolante e complesso. Chiacchierando con Loris Dall’Acqua, amministratore delegato ed enologo di Col Vetoraz, abbiamo avuto conferma dei nostri sospetti, una verticale di così tante annate, fra l’altro tutte in condizioni di assoluta bevibilità, al momento non è in grado di offrirla nessun altro. Se ci sbagliamo, saremo ben contenti di scoprire che qualche altro produttore ha uno storico del genere. 


Loris ci ha spiegato che un altro passo per liberarsi di un’immagine che sta un po’ stretta, è stato quello di avere eliminato la parola “Prosecco” dall’etichetta, possibilità che il disciplinare prevede. Si tratta di una decisione non senza qualche controindicazione dal punto di vista commerciale, il termine Prosecco è ormai conosciuto in tutto il mondo, ma l’azienda ha già conquistato un proprio spazio e, con una produzione di 1 milione e 250mila bottiglie annue, possiamo dire che è leader nell’area di Valdobbiadene. Fra l’altro l’azienda ha scelto di produrre esclusivamente Valdobbiadene Docg, un altro modo per comunicare il territorio, elemento cardine della sua filosofia. 


Il fatto di avere a disposizione un 20% di uve provenienti da propri vigneti e un 80% da 72 viticoltori fidelizzati, con visite in campo e quattro riunioni collettive all’anno per ottenere la massima qualità possibile, consente all’azienda di selezionare volta per volta, secondo l’annata, le migliori destinate ai propri vini, prelevate nella fascia pedemontana affinché il patrimonio acido e aromatico siano preservati. I terreni della fascia pedemontana del sistema collinare Conegliano Valdobbiadene si sono formati in era terziaria, periodo miocenico. Sono terreni calcareo-silicei ricchi di scheletro, ideali per ottenere eleganza e sapidità. I pendii molto marcati impongono lavorazioni manuali, vendemmia compresa, certamente più impegnativa ma con il vantaggio di poter fare una selezione accurata dei grappoli migliori senza rischiare di rompere qualche acino. 


Col Vetoraz si è strutturata per poter vinificare separatamente le uve di ogni vigneto. Questo consente di poter valutare le reali potenzialità di ogni singola partita, prima della costituzione delle grandi cuvée. Per questa ragione in cantina si trovano 128 serbatoi inox non di grandi dimensioni e numerose presse. Una volta effettuata la pressatura, il succo decantato viene sottoposto ad analisi organolettica. I vini non subiscono nessun trattamento, nemmeno chiarificante. Questo garantisce il mantenimento dell'integrità aromatica e strutturale del frutto di partenza, sviluppando un naturale indice di rotondità e un'espressione carbonica avvolgente e cremosa. 

Assaggiando quei 16 campioni è emersa evidente la filosofia dell’enologo: lasciar parlare il territorio e le annate, senza fare alcun “aggiustamento”, lasciando che il vino esprima esattamente ciò che la natura gli ha consegnato; per questo motivo nessun millesimo mancava all’appello, dalla 2006 alla 2021. Tutte le annate sono state prodotte con 8 g. litro di zucchero residuo. 

2006 – mostra un colore oro intenso, ma comunque vivo, luminoso, colpisce subito per il grande equilibrio tra profumi e trama gustativa; emergono note di miele di acacia, mango, uva passa, agrumi canditi. In bocca è sapido, ha mantenuto un’ottima freschezza nonostante l’ovvio calo di CO², più passano i minuti e meglio si esprime, rivelando una vitalità e una profondità inimmaginabili per questa tipologia di vino. 

2007 – qui, sulle colline di Valdobbiadene, l’annata è stata piuttosto fredda, ben diversa da gran parte delle zone viticole italiane. Se ne è giovato il vino, che rivela un colore simile al precedente, ma più acceso e profondo, manifesta note di pasticceria, crema, nocciola; c’è maggiore spalla al palato, un equilibrio ancora non pienamente raggiunto e un’acidità sorprendente con 15 anni sulle spalle. 

2008 – siamo sempre su tonalità molto intense, dal punto di vista olfattivo ha più bisogno di ossigenarsi per eliminare qualche venatura gommosa; al gusto esprime ancora una volta una bella sapidità, che è un po’ il marchio del terroir. Il linguaggio è un po’ meno avvincente, non perché sia alla fine del suo percorso, ma probabilmente sono i tratti dell’annata, più severi e meno aperti. 

2009 – il vino più sorprendente, sia perché esprime ancora suggestive note floreali e di pesca, di albicocca e pera, miele; sia perché ha un sorso piacevolissimo, ampio, ancora una volta sapido, profondo, invitante, davvero suggestivo, in qualche modo ci porta oltralpe per eleganza e complessità. 

2010 – Scendiamo di tonalità al paglierino brillante, decisamente più chiaro, ha profumi da annata fresca, floreal-fruttati, un po’ meno ampi ma pur sempre piacevoli. Al gusto appare una sfumatura di nocciola tostata, c’è grande freschezza, altro vino che testimonia un percorso per nulla finito. 


2011 – qui i tratti espressi dalla 2010 sono ancora più marcati, non penseresti mai di avere di fronte un Valdobbiadene di 11 anni, le note primarie sono ancora molto evidenti, perde un po’ in complessità ma è del tutto logico vista l’estrema giovinezza. 

2012 – una versione a mio avviso più austera, ancora piuttosto chiusa al naso, molto meglio in bocca dove esprime un frutto dolce e piacevole, buona freschezza, da seguirne l’evoluzione. 

2013 – altro vino che mi ha molto colpito per intensità e freschezza, dinamico, in continuo movimento, non gli daresti più di un paio d’anni, esprime toni di fiore d’acacia e della vite, agrumi gialli; bocca freschissima, stimolante, ha tutte le carte per evolvere a lungo. 

2014 – anche qui è stata un’annata piovosa e difficile, il vino ha colore paglierino chiaro, naso dagli accenti floreali marcati, richiama la rosa e il biancospino; in bocca si sente un po’ di più l’evoluzione, sicuramente l’annata ha i suoi limiti, a mio avviso è l’unico che è meglio non aspettare ancora per berlo. Va bene ora. 

2015 – si torna a salire come intensità di colore, ma senza eccessi, siam sempre sul paglierino appena più intenso; molto agrumato al naso, ancora piuttosto chiuso e rigido. In bocca si sente un po’ l’annata calda, c’è un buon equilibrio ma gli manca un po’ di slancio che ravvivi il sorso. 

2016 – una bella annata, caratterizzata da intensità sia di profumi che di sapore, c’è energia e materia, lui merita di essere atteso, è solo all’inizio di un lungo percorso. 

2017 – da qui scompaiono i sentori più complessi a vantaggio di grande florealità e un frutto fresco; la freschezza si manifesta in modo evidente anche al palato, sembra un vino d’annata, anche di buona intensità. 

2018 – qui torna l’acacia, la pesca bianca, la susina, sorso fresco ma non pungente, si beve bene, con il vantaggio di non avere la spigolosità del vino appena uscito. 

2019 – attacca con sfumature di cedrata, poi emerge il biancospino, leggero gelsomino; bocca giovane e stimolante, siamo ormai su un vino tutto in formazione. 

2020 – questo millesimo si caratterizza per un’evidente nota di pera Williams, poi pesca e cedro, bocca assolutamente verticale, giovanissima, anche perché la carbonica è ancora integra. 

2021 - guarda caso ha il colore più chiaro in assoluto, quasi con tonalità verdoline, assaggiato per ultimo ha il solo limite di venire da una batteria che ha mostrato molte meraviglie, pertanto sembra solo buono; in realtà ha grande pulizia espressiva e una materia assolutamente coerente, sapido e succoso. 

La Chiosa 

Una verticale sorprendente, che ha ribaltato completamente l’immagine della tipologia, dimostrando che, partendo da una base eccellente, si possono ottenere risultati impensabili, gli anni permettono a questo vino di acquisire complessità senza avere cedimenti né stanchezze. Al momento io berrei con grande piacere la 2009, che ho trovato superba sotto ogni aspetto, e la 2006 che ha raggiunto una maturità e profondità ottimali, un vino intenso e di grande persistenza.

InvecchiatIGP: Villa Matilde – Falerno del Massico DOC Rosso “Vigna Camarato” 2006


Al confine tra Campania e Lazio, nella zona compresa tra il monte Massico, il fiume Savone e le pendici del vulcano spento di Roccamonfina, c’è una fascia di terra conosciuta con il nome di Ager Falernus. Questo territorio particolarmente fertile era già noto nell’antichità principalmente per la produzione dell’omonimo vino Falerno che può essere considerato come la prima vera DOC o il primo Grand Cru della storia. Infatti, già 2000 anni fa, esisteva un suo disciplinare di produzione che prevedeva: un rituale codificato di pigiatura al ritmo di musiche sacre; un’etichettatura, “pittacium”, che indicava luogo di origine e annata; un periodo di invecchiamento di numerosi anni, prima che il vino venisse consumato con aggiunta di acqua di mare, spezie e miele. 


Nonostante la fama ed il successo, con la caduta dell'Impero romano e con l’arrivo della fillossera verso metà ottocento ed inizi del novecento, del pregiato e costoso Falerno si persero le tracce. fino agli anni ’60, quando l’Avv. Francesco Paolo Avallone, appassionato cultore di vini antichi, incuriosito dai racconti di Plinio e dai versi di Virgilio, Marziale e Orazio, decise si riportare in vita la leggendaria bevanda. 


Il fondatore di Villa Matilde, coadiuvato da un gruppo di ricercatori universitari, riuscì ad individuare le varietà di uva con cui si produceva il mitico vino e a rintracciare pochi ceppi di quelle viti, dirette discendenti delle varietà coltivate nell' Ager Falernum oltre 2.500 anni addietro. I vitigni del Falerno, sopravvissuti miracolosamente alla devastazione della filossera di fine ottocento, vennero reimpiantati, con l’aiuto di pochi contadini locali, proprio nel territorio del Massico dove erano prosperati in antichità. 

I Fratelli Avallone - Foto: Italia a Tavola

Il percorso di recupero del Severus, fortis, ardens continua oggi con Maria Ida e Salvatore Avallone che, con dedizione esclusiva, proseguono il sogno ed il progetto del padre portando avanti, dal 2009, anche interventi di sostenibilità ambientale condotti nella direzione del recupero delle acque e del risparmio energetico attraverso una revisione globale degli impianti e il ricorso ad energie alternative di cui tanto si parla oggi. 


Durante un recente pranzo con i fratelli Avallone ho potuto degustare il loro Falerno del Massico DOC Rosso “Vigna Camarato” 2006 (80% aglianico e 20% piedirosso) prodotto esclusivamente nelle migliori annate con uve raccolte nell'omonimo vigneto, uno dei più vecchi e meglio esposti della tenuta collinare di San Castrese. 


Il vino, dal colore leggermente granato, è ancora assolutamente integro nei suoi profumi che richiamano il terroir di appartenenza dove l’influenza del mare e del vulcano spento di Roccamonfina forniscono a questo rosso nuance aromatiche scure che richiamano il rabarbaro, la china, il mirto, la ciliegia matura, per poi vibrare su sensazioni di ferro e iodio. 


L’assaggio non manca di personalità, è ancora perfettamente bilanciato, fresco, con tannini “dolci” e ben estratti. Lunghissimo il finale su toni di erbe mediterranee e salgemma. Chapeau!

Flor, è il nuovo E-Commerce per ordinare vino naturale!

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A pochi giorni dall’apertura di Verona, Flor. | born to be wine annuncia il lancio di Florwine.com, la nuova piattaforma e-commerce dedicata al mondo del vino naturale. Una selezione di oltre 1200 etichette scelte con cura da un esperto team di sommelier, che entro la fine dell’anno supererà le 2000 referenze. 


Rispetto al precedente shop online,
il sito è stato completamente rinnovato e arricchito con schede prodotto esaustive e video-interviste dei produttori, offrendo un portale di facile navigazione che si propone come un vero collettore di informazioni, news e approfondimenti inerenti ai vini naturali.

Il portale si pone l’obiettivo di ampliare e integrare quanto offerto dalle enoteche di Milano, Genova e Verona e dal servizio di delivery presente nelle medesime città. Infatti, con il lancio della nuova piattaforma saranno previste non solo consegne in tutta Italia, ma anche spedizioni internazionali. Inoltre, per fornire un servizio etico e affidabile, Flor. ha selezionato una squadra di rider regolarmente assunti e i migliori vettori disponibili sul mercato, garantendo una consegna attenta, volta a salvaguardare lo stato delle bottiglie richieste dagli utenti.

Florwine.com non rappresenta uno spin-off – afferma Giuseppe Rizzo, ideatore e fondatore del progetto assieme al socio Federico Fiori – ma al contrario, e-commerce, bottiglierie e bistrot viaggeranno di pari passo con prezzi allineati tra online e offline, proponendo una versione phygital dell’enoteca. Per ora offriamo solo referenze enoiche naturali, tuttavia non escludiamo in futuro di presentare sulla piattaforma una selezione food, coinvolgendo piccoli produttori locali e dando visibilità a eccellenze enogastronomiche a km zero”. 

Far conoscere e approfondire il panorama del vino naturale attraverso le storie e l’impegno dei produttori: tutto questo spinge Flor. a diffondere la filosofia del bere e del mangiare bene. Una missione raccontata anche sul canale Instagram @flor.wine attraverso video interviste ai vignaioli, che descrivono e comunicano al pubblico ciò che rende unici i loro vini.

Il completamento del progetto e-commerce è stato possibile grazie a un nutrito gruppo di copywriter, sommelier e marketing specialist, nonché di social media manager, graphic designer e sviluppatori web. Il team ha saputo percorrere e rispettare una roadmap incentrata sull’accrescimento della presenza online della realtà nata a Milano, che oggi trova la sua sede a Genova. “Proprio a Genova abbiamo scoperto la nostra casa – dichiara Federico Fiori –, una tra le prime città italiane a promuovere i vini naturali e la filosofia che sta dietro a questo incredibile mercato. Il capoluogo ligure sta vivendo un importante momento di riscoperta, offrendo nuove prospettive di crescita e una qualità della vita in linea con i nostri valori aziendali”.

Zumbo – Bianco Terre Siciliane IGT “Pìnea” 2018


Nel solco di quanto fatto da nonno Salvatore, le sorelle Erica e Ramona portano avanti sull’Etna la tradizione di vini contadini che escono sul mercato solo quando veramente pronti. 


Questo blend di Inzolia, Carricante e Catarratto ha tutta la forza e la sapidità di un grande vino vulcanico prodotto, senza compromessi, a 750 metri di altezza!

Cantine Belisario e quel mito chiamato “Cambrugiano”


Considerato il bianco vestito di rosso e, secondo il New York Times, un vino assolutamente da scoprire, il Verdicchio di Matelica è una nicchia di qualità tra le denominazioni marchigiane tutelate dall’Istituto marchigiano di tutela vini (Imt). Doc dal 1967 e dal 2010 anche DOCG con la tipologia Verdicchio di Matelica Riserva, la denominazione si estende su 286 ettari, divisi tra 19 aziende vitivinicole, attraverso i comprensori di 8 comuni (Matelica, Esanatoglia, Gagliole, Castelraimondo, Camerino e Pioraco nella provincia di Macerata; Cerreto D'Esi e Fabriano in quella di Ancona), nel cuore dell’Alta Vallesina, la sola vallata marchigiana con disposizione Nord-Sud. 


Tra i produttori di Matelica la parte del leone la fa sicuramente Cantine Belisario visto che, più o meno, produce circa il 75% del vino di tutta questa piccola denominazione. L’azienda, nata nel 1971, è ancora oggi è una vivace realtà cooperativa che si estende su oltre 300 ettari vitati vantando una cantina di 30.000 Hl di capienza sapientemente gestita dall’enologo Roberto Potentini che vanta collaborazioni all’interno molte cantine marchigiane tra cui La Monacesca. 


Grandi numeri, vero, soprattutto per le Marche, ma sbaglieremmo se pensassimo a Belisario alla stregua di tante realtà cooperative, che si ritrovano spesso in Italia, dove si fanno solo numeri e poca qualità. No, avremmo un falso pregiudizio perché la cantina, negli anni, ha sempre mantenuto una qualità media decisamente importante andando a produrre, tra l’altro, quello che per molti è stato un vero e proprio “faro enologico” per tutta la denominazione ovvero il Cambrugiano”. 


Prodotto a partire dal 1988, questo Verdicchio di Matelica è stato il primo ad essere prodotto nella tipologia “Riserva, vinificato solo con uve Verdicchio attraverso criomacerazione e da sempre segue un percorso di maturazione sia in acciaio che legno di rovere con successivo affinamento di almeno un altro anno in bottiglia prima di uscire in commercio. 


Per celebrare gli oltre trenta anni di produzione del Cambrugiano, al quale è stato anche dedicato un bellissimo libro, guidati da Roberto Potentini e dal Presidente Antonio Centocanti, si è organizzata a Matelica una bella verticale storica che, partendo dall’annata 2017, ci ha fatto tornare indietro nel tempo fino al millesimo 1994. Di seguito le mie note di degustazione: 

Belisario – Verdicchio di Matelica DOCG Riserva “Cambrugiano” 2017 (100% verdicchio): l’annata calda si fa sentire nei profumi di frutta gialla matura, spezie e cera d’api il cui impatto aromatico è simile alla struttura del vino, di tutto rispetto, ma che al sorso, fortunatamente, non si fa sentire visto che il vino ha una bella scorrevolezza che termina con un impatto di salina persistenza. 


Belisario – Verdicchio di Matelica DOCG Riserva “Cambrugiano” 2016 (100% verdicchio): in questa annata, che a livello di bianchi marchigiani ha dato vita a tanti vini emozionanti, il Cambrugiano non poteva non fare la parte del leone visto che è stato premiato con un meritatissimo tre bicchieri dal Gambero Rosso. Il motivo è semplicissimo: questo Verdicchio di Matelica Riserva incanta per complessità grazie a fragranti note di pesca, nespola, cedro, spezie orientali, mandorla, anice e sbuffi di pietra focaia. Bocca di sostanza e qualità visto che la vivace freschezza è in equilibrio con la morbidezza promettendo una più che importante dinamica evolutiva. 


Belisario – Verdicchio di Matelica DOCG Riserva “Cambrugiano” 2015 (100% verdicchio): rispetto al precedente, questo Verdicchio risulta più mansueto e lineare grazie ad una florealità che, via via che il Cambrugiano si apre grazie all’ossigenazione nel bicchiere, richiama la ginestra, la camomilla romana e la mimosa. A seguire, sensazioni di fieno appena tagliato e cenni salini. Al sorso si gode certamente, ma fino a centro bocca, poi il vino sembra scemare mancando di una spinta acida che avrebbe fornito lo slancio necessario per una lunga chiusura. 


Belisario – Verdicchio di Matelica DOCG Riserva “Cambrugiano” 2014 (100% verdicchio): l’annata fresca e piovosa a Matelica ha fatto sì che questo Cambrugiano si sia evoluto in maniera frettolosa visto che entrano in gioco quelle sensazioni ossidative che fanno virare la componente aromatica del vino verso sentori idrocarburici, di frutta secca e torrone. Gusto coerente, con richiami quasi di sherry. 


Belisario – Verdicchio di Matelica DOCG Riserva “Cambrugiano” 2012 (100% verdicchio): anche in questo caso l’evoluzione comincia a farsi sentire ma, rispetto alla 2014, non c’è nessun cenno di evoluzione spinta. Dopo dieci anni dalla vendemmia il vino comincia a virare lo spettro aromatico verso sensazioni di mela cotogna, erbe mediche, miele di castagno, mandorla tostata e sale aromatizzato al rosmarino. Gusto austero, elegante, appagante e pieno di richiami aromatici. 


Belisario – Verdicchio di Matelica DOCG Riserva “Cambrugiano” 2008 (100% verdicchio): profumi densi e profondi: pompelmo maturo, anice, nocciola tostata, zenzero, terra, rintocchi salini e balsamici. La struttura articolata mantiene ancora mirabile agilità in un assaggio coerente dove tensione gustativa e misurata sapidità donano al vino grande carattere svanendo molto ma molto lentamente! 


Belisario – Verdicchio di Matelica DOCG Riserva “Cambrugiano” 1995 (100% verdicchio): a sorpresa, arrivano al tavolo due doppie magnum senza etichetta ma con l’annata scritta a pennarello sul tappo. La prima di queste è la 1995, ultima annata dove la vinificazione si è svolta solo acciaio, la quale si presenta in perfetto stile ossidativo con un naso cangiante, odoroso di ruggine, the alla pesca, albicocca disidratata, polvere di caffè, iodio ed erbe mediche. In bocca l’evoluzione spinta fa perdere a questo Verdicchio di Matelica tensione e tenacia gustativa ma, dopo oltre 27 anni, tutto si perdona. 


Belisario – Verdicchio di Matelica DOCG Riserva “Cambrugiano” 1994 (100% verdicchio): anche in questo caso il vino viene versato da una doppia magnum abbastanza anonima e, quando ti aspetti un vino relativamente simile al precedente, ecco la sorpresa della giornata. Questo Cambrugiano, anche da punto di vista del colore, sembra essere molto più giovane dei suoi 28 anni di età, donandoti un’evoluzione misurata ma al tempo stesso di eleganza strabiliante. Il naso, almeno inizialmente, ancora sprigiona sentori di sambuco e tiglio, leggermente passiti, poi arriva la frutta, pesca ed albicocca ancora succose e non in confettura. Col passare del tempo il bicchiere comincia a diffondere lampi aromatici di erbe aromatiche, radici, zenzero, caramello salato e cenni di miele di castagno. Ma è al palato che il vino commuove con la sua spiazzante freschezza e la sua prorompente coda sapida che regalano tanto del terroir di Matelica e delle sue potenzialità. Dieci e lode!



InvecchiatIGP: Tallarini - Bergamasca Igt Cabernet Sauvignon “Satiro” 2000


di Lorenzo Colombo

La data di nascita dell’azienda è il 1983, quando Vincenzo Tallarini acquista un piccolo borgo, il Fontanile, situato nel comune di Gandosso.
Vi si trova anche un piccolo vigneto col quale Vincenzo nel 1985 inizia a produrre un poco di vino anche se la sua attività principale è l’apicoltura. Il vino piace ed ottiene riconoscimenti in alcuni concorsi enologici.  Vincenzo decide quindi di dedicarvisi con maggior impegno, amplia i vigneti ed all’inizio degli anni 2000 costruisce una cantina. Attualmente l’azienda, gestita dalle nuove generazioni (Anna ed Angelo) dispone di 22 ettari a vigneto per una produzione complessiva di circa 250mila bottiglie/anno, suddivise in una quindicina d’etichette. 
Il vino che andiamo ad assaggiare appartiene alla Collezione Tallarini, composta da vini destinati, come scritto sul sito aziendale “alle ricorrenze, alla ritualità, ai momenti che meritano di essere festeggiati, e ricordati, a momenti di gioia”.  Le uve provengono da vigneti situati su suoli calcarei, marnosi e con presenza di selci, la resa è molto bassa e non superai 50 q.li/ettaro, la vinificazione prevede una lunga macerazione sulle bucce ed un affinamento del vino per circa due anni in botticelle di quercia bianca. 


Presa dalla cantina dove riposava da molti anni le bottiglia aveva entrambe le etichette intatte ma staccate dal vetro, alla stappatura troviamo un tappo integro e questo ben ci predispone, decantiamo il vino, temendo una buona dose di residuo, che in realtà è poi minimo, nel bicchiere il colore è granato profondissimo e compatto, ricorda una prugna secca, con unghia che vira leggermente verso l’aranciato.


Buona la sua intensità olfattiva, si colgono sentori terziari che rimandano al cuoio, al sottobosco, con ancora ben presenti le note fruttate di ciliegia matura, prugna secca e prugna in confettura, note balsamiche e di spezie dolci ed accenni vanigliati, di cannella e di chiodi di garofano rendono amplio ed elegante il suo spettro olfattivo. 

Dotato di buona struttura, fresco, con tannini ancora decisi e buona vena acida, riconosciamo leggere note tostate, sentori di radici amare, di rabarbaro, di china, buona la sua persistenza. Un vino ancora integro a ventidue anni dalla vendemmia.

Casula Vinaria - Colli di Salerno Igp Rosato “Primavera” 2020


di Lorenzo Colombo

E’ proprio primavera quando ti trovi nel bicchiere un vino simile che già dal colore mette allegria, che poi diventa appagamento per la sua succosità e piacevolezza di ciliegia fresca e d’agrumi, sapido e dalla buona persistenza. 


Proprio un bel bere.
Viene prodotto con uve Aglianico e… può essere bevuto tranquillamente in tutte le stagioni.

Scopriamo la viticoltura in Moldova bevendo il Fetească Neagră “98 Hectares”


di Lorenzo Colombo

33.850 Km² incastonati tra Romania ed Ucraina, questa è la Moldova, paese costituitosi nel 1991, dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica.  Situata a cavallo del 47° parallelo vanta la stessa latitudine delle migliori zone viticole europee, la natura del suo territorio è assai frammentata, con basse colline, altipiani e pianure, è attraversata da due grandi fiumi, il Prut ed il Dniester, il primo è un affluente del Danubio mentre il secondo sfocia nel Mar Nero, la vicinanza con quest’ultimo ha una notevole influenza sul clima della regione tendenzialmente continentale.
In Moldova ci sono 112 mila ettari a vigneto e sono oltre una cinquantina i vitigni presenti, sia internazionali che locali, Il 70% dei vitigni sono a bacca bianca, presenti prevalentemente nella parte centrale del paese, mentre quelli a bacca rossa si trovano nelle regioni meridionali, oltre un terzo dei vigneti sono allevati con varietà aromatiche. 


Sono quattro le regioni viticole: Balti, situata nel nord del paese, Codru, nella sua parte centrale, Ștefan Vodă a Sud-Est e Valul lui Traian che si spinge a Sud-Ovest sino al Danubio, le ultime tre si fregiano della IGP. 

Il 50% dei vitigni appartengono ai cosiddetti “internazionali”, ovvero varietà francesi diffuse in tutto il mondo, tra i principali vitigni troviamo: Cabernet Sauvignon (8.169 ha), Merlot (7.689 ha), Aligoté (7.765 ha) e Chardonnay (4.133 ha). 


Tra i vitigni locali i più diffusi sono: Rkatsiteli (3.898 ha), Kodryanka (1.143 ha) e Fetească Alba (954 ha), però, quello più coltivato in assoluto è la Moldova, uva da tavola che a volte viene anche vinificata e che, coi suoi 12.375 ettari occupa oltre il 10% del vigneto del paese. 

Il vino che andiamo a degustare proviene dalla regione di Valul Lui Traian (Vallo di Traiano), che a sua volta è suddivisa in 7 distretti: Leova, Cantemir, Cahul, Comrat, Ceadâr-Lunga, Taraclia e Vulcanesti per un totale di 43.300 ettari di vigneti.
Qui si producono principalmente vini rossi (60%) ma la regione è famosa anche per i suoi vini liquorosi. Il clima in genere è caldo, influenzato dal Mar Nero e dai Monti Tigheci. 

La Feteasca Neagră 

La Feteasca Neagră è un vitigno autoctono della Romania, dove se ne trovano 2.845 ettari (oltre l’87,5% della superficie mondiale), i rimanenti 400 ettari sono situati in Moldova.  Il vitigno produce grappoli di dimensioni medio-grandi, con buccia violacea scura, resiste bene sia al gelo che alla siccità, come pure al marciume ma produce poco, necessita quindi di una potatura che preveda molte gemme. 


E’ in grado di raggiungere elevati quantità di zuccheri, pur mantenendo una buona acidità, i grappoli però non hanno una maturità uniforme e questo comporta molta attenzione durante la vendemmia. Vi si ricavano sia vini rossi - in molti casi destinati all’invecchiamento - sia vini rosati. 

L’azienda 

L'azienda "Vinuri de Comrat" si trova nel sud della Moldova, nella regione autonoma "Gagauzia" che ha come capitale Comrat. E’ stata fondata nel 1895, quando il ministro delle finanze dell'Impero russo, S.I. Witte, emanò un decreto per la costruzione di 14 depositi di vino, di proprietà dello Stato, nella provincia della Bessarabia per la produzione di vodka. Una di queste fabbriche è stata costruita a Comrat e consisteva di quattro diverse sezioni, una per la produzione di vodka con una cantina per lo stoccaggio delle merci, un magazzino, un alloggio per l'amministratore ed un fabbricato per i lavoratori. Nel 1897 iniziò la produzione di vino da tavola e per il trasporto delle merci è stata realizzata una scuderia. 


Dopo la seconda guerra mondiale, accanto ai locali esistenti fu costruito uno stabilimento per la lavorazione dell'uva, questo diede nuova vita all'azienda, vennero rimodernati i vecchi edifici e iniziò la produzione di vino.
Nel 1969 fu organizzato uno stabilimento agroindustriale, con sede nella cantina di Comrat, che comprendeva 15 aziende agricole e 8 cantine, questo impianto agroindustriale era in grado di lavorare sino a 80.000 tonnellate di uva a stagione.
Nel 1995, a seguito della privatizzazione, la cantina di Comrat è stata riorganizzata in JSC "Vinuri de Comrat".


Oggi l'azienda possiede di oltre 300 ettari di vigneti unitamente a cinque aziende agricole situate nella regione vinicola "Valul lui Traian", lavora 5-6mila tonnellate di uva e imbottiglia circa 3 milioni di bottiglie di vino all'anno e dà lavoro a 160 dipendenti.
L'azienda produce più di 50 tipologie di vini, sia varietali che frutto di blend, utilizzando sia uve di varietà europee sia autoctone, storicamente coltivate solo in Moldova e Romania, vini che vengono esportati in oltre 20 paesi, soprattutto nell’Europa dell’Est, ma anche in Cina e Giappone, dispone inoltre di una propria rete di negozi aziendali. 


Fiore all'occhiello dei vignaioli della fabbrica “Vinuri de Comrat” sono i vini delle linee “Plai Moldova”, “98 Hectares”, “Provincia della Bessarabia”, “Detox Cabernet-Sauvignon” e la linea locale “Folklore”, maturati in botti di rovere e prodotti secondo tutte le moderne tecnologie di vinificazione. Attualmente, dei 14 depositi di vino di proprietà statale, costruiti nel XIX secolo, nella provincia di Bessarabia sul territorio della Repubblica di Moldova, è stato conservato solo il deposito di vino Comrat. 
Il JSC "Comrat Wines" è uno dei più antichi monumenti storico-architettonici ed industriali dell'Ottocento in Moldova. 


Il vino che andiamo a degustare è l’IGP Valul lui Traian Feteasca Neagră 2017, appartenente alla linea produttiva “98 Hectares”. Viene prodotto con uve selezionate e raccolte a mano, la fermentazione si effettua tramite l’utilizzo di lieviti selezionati e l’affinamento si svolge in botti di rovere francese dove il vino sosta per almeno sei mesi. 


Si presenta con un color granato profondo. Discretamente intenso al naso, ampio, vi cogliamo note autunnali, di sottobosco, funghi, foglie umide, prugna matura, con accenni balsamici e mentolati, spezie dolci e tabacco dolce, cacao, accenni di caffè. Media la sua struttura e buona l’eleganza, succoso e balsamico, con tannini morbidi, vellutati, delicato, armonico, equilibrato, con sentori di cioccolato alla menta, vaniglia, ciliegia, buona la sua persistenza. 

InvecchiatIGP: Cantine Ornina - Vallechiusa Toscana IGT Bianco 2018


di Stefano Tesi

Togliamoci subito il dente, anzi i denti, e facciamo tre confessioni.

La prima è che, prima di aprirla, su questa bottiglia avevo qualche perplessità: l’età considerevole e l’inquietante colore carico mi facevano temere marsalature epiche.

La seconda è che del vino, oltre all’annata che vedete, avevo anche la 2012 e la 2013: erano destinate a una verticale che, coi produttori, da luglio scorso ci eravamo reciprocamente promessi di fare insieme ma che poi, per le solite contingenze, è slittata sine die. E, siccome da un mesetto Marco e Greta Biagioli, così si chiamano i proprietari, sono alle prese con la nuova arrivata Flora (congrats!), ho pensato che per un altro un po’ di tempo avranno ben di meglio a cui pensare che a degustare con me.

Mi ero così risolto, terza confidenza, a procedere da solo. Ma stappata e assaggiata la 2011, ho deciso di mettere da parte le altre due per poterle davvero condividere con gli amici di Ornina o almeno con altri amici, nella speranza che fossero come questa.

La storia della cantina e del cammino che ha portato alla nascita dell’azienda è bella e divertente, eccentrica come (almeno in accezione vinicola) è del resto il Casentino, l’area il cui il tutto si trova. Biodinamici e steineriani, così come l’architettura e i principi a cui si ispirano, Marco e Greta puntano però al sodo, non si nascondono dietro il marketing dell’esoterismo e non puntano affatto sulla vera o presunta stranezza che spesso pubblico e critica attribuiscono a certe scelte ritenute a priori troppo radicali.

Basta fare un salto in loco - e io lo feci - per capire invece la linearità della loro visione e comprendere anche il rapporto simbiotico che i nostri hanno col luogo, che è pure dove vivono e ospitano. Cominciarono nel 2008 con la vigna del babbo, nel 2014 hanno costruito la nuova cantina: “Al momento produciamo 7 etichette, ma considerando che ogni anno ci dedichiamo almeno a una quota esperimento, la lista è sicuramente destinata a crescere”, ammettono in rete.


A maggio scorso avevo assaggiato il loro Vallechiusa Bianco, un IGT Toscana a base di Trebbiano, Malvasia e una punta di Moscato, e mi era piaciuto. Macerazione non troppo lunga, mi avevano spiegato, fermentazione spontanea in acciaio e maturazione di 15 mesi in cemento.

“Chissà come si evolve nel tempo”, chiesi.

Da qui l’idea della verticale delle annate più vecchie superstiti: 2011, 2012, 2013.

Ed eccola la 2011, bottiglia impietosamente (o a sommo studio?) bianca. Tappo integro. L’etichetta rivela che, accanto a Trebbiano e Malvasia, dentro all’epoca c’era anche un po’ di Sauvignon Blanc.

Del colore abbiamo detto. Mi aspettavo una botta di trebbianone evoluto e invece, sorpresa, il ventaglio si apre tra fiori di campo appassiti, fieno, sassi bagnati e roccia spezzata, ondate di resina, mirto, macchia marina e una lunga scia quasi salmastra, elegante, che non satura e torna a folate.
La gradevolezza continua in bocca, con una sapidità agile che smorza l’alcool (13,5°) e fa dispiegare con lentezza il lungo retrogusto delicatamente amarognolo. Disorientato dal divario tra le aspettative e l’assaggio, ho ritenuto opportuni riassaggiare e riassaggiare, così se n’è andata mezza bottiglia.


Del resto lo diceva anche la pulzella Amanda Sandrelli a non distaccatissimo messere Massimo Troisi in una scena cult di “Non di resta che piangere”, no? Bisogna provare, provare, provare, provare…

Rottensteiner - Alto Adige Gewurtztraminer "Cancenai" 2021


di Stefano Tesi

Ti balocchi a lungo e piacevolmente con Hannes e Judith, inseguendo il filo delle loro riuscite interpretazioni della Schiava, e verso la fine ti colpiscono a tradimento con questo Gewürztraminer fuori passo, anomalo, asciutto, pulito, ricco e complesso, coinvolgente, da cercare col lanternino.

Il Lady F di Donne Fittipaldi e quell'Orpicchio dimenticato!


di Stefano Tesi

La mia passione per le cose strambe e fuori passo, per le tecniche dimenticate, i piatti desueti, le coltivazioni abbandonate, le varietà soppiantate e, in particolare, per i vitigni rari e perduti è nota. Si tratta di una curiosità, anche sotto il profilo organolettico, prima di tutto culturale. Quasi archeologica. Se poi, oltre che antica, la cosa è pure buona, meglio.


Nello specifico del vino il mio interesse è aumentato molto quando, anni fa, coi colleghi dell’Aset abbiamo fatto una bella degustazione di microvinificazioni di alcuni antichi vitigni toscani recuperati dal benemerito Crea di Arezzo. Si trattava ovviamente di produzioni sperimentali. Fu però in quella circostanza che il direttore dell’ente, Paolo Storchi, ci parlò del fatto che alcune aziende avevano reimpiantato un po’ di quelle uve e avevano avviato una produzione di vino destinata al pubblico.
Tra i vitigni che più mi avevano colpito c’era l’Orpicchio. Leggo dalle mie note di allora: “Varietà bianca coltivata nel Valdarno Superiore fino alla metà del ’900, poco vigorosa, piuttosto precoce. Giallo paglierino con riflessi verdastri, profumo piuttosto intenso di fiori bianchi, buon frutto, in bocca è altrettanto intenso, piacevole e lungo. Una tipologia certamente interessante in chiave reinterpretativa“.


Sono stato perciò ben lieto di ritrovarlo oggi in produzione sotto forma di IGT Toscana: è il “Lady F“, annata 2019, di Donne Fittipaldi, l’azienda tutta al femminile (la mamma Maria Fittipaldi Menarini e le figlie Carlotta, Giulia, Serena e Valentina) nata nel 2004, quando la famiglia Fittipaldi Menarini decise di impiantare a Bolgheri alcuni ettari di Merlot, Petit Verdot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc (dal quale si ricava Magnetic, un interessante Bolgheri Rosso affinato in cocciopesto), Malbec e, per l’appunto, Orpicchio.


Racconta l’enologo, Emiliano Falsini: “Lo sovrainnestammo nel 2013 su 8mila metri di un Sangiovese di cui non eravamo soddisfatti. Cercavamo qualcosa di particolare e Stefano Dini, l’agronomo, ci consigliò la Volpola o l’Orpicchio. Ma la prima non si trovava, mentre il secondo era disponibile presso un’azienda di Vinci che lo usava come uva da taglio. Prendemmo le marze e la storia cominciò. Si tratta di una varietà che a Bolgheri non ci ha dato troppe difficoltà, salvo soffrire un po’ le annate umide per via del suo grappopolo molto compatto e quindi soggetto alla botrite. Anche le prove di vinificazione furono subito soddisfacenti. All’inizio lo facevamo solo in barrique, alternandone di vecchie e di nuove, dal 2017 per metà lo mettiamo invece in acciaio. E’ un vino particolare, da un punto di vista organolettico somiglia al Pinot bianco ma sembra adatto anche all’invecchiamento: abbiamo bottiglie di quattro anni fa ancora ottime. La produzione è piccola, massimo 3000 pezzi l’anno, ma ne siamo molto orgogliosi, anche perchè siamo solo due aziende a farlo“.


All’assaggio il Lady F si presenta di un bel colore dorato e brillante. Al naso il primo impatto è di pesca matura e di frutti estivi, poi si stempera a ventaglio e ricorda il biancospino, la pietra focaia e una nota quasi lapidea. In bocca è abbastanza intenso, lungo ma non troppo complesso, con un accenno di legno e una coda sapida che lo rende godibile.

InvecchiatIGP: Rivera - Castel del Monte Rosso "Il Falcone" Riserva 2000


di Luciano Pignataro

Durante la cena a palazzo Rospigliosi a Roma organizzata dall’Istituto Grandi Marchi abbiamo apprezzato moltissimo la decisione di Sebastiano Rivera di proporre una vecchia annata di Falcone, il top dell’azienda, che ha accompagnato la viticoltura pugliese praticamente da sempre.
Una magnum 2000, annata sulla quale noi siamo sempre stati perplessi, il primo vero campanello d’allarme del global warming che spesso ha colto le aziende divino impegnate in quel periodo a preparare vini materici e sovraestratti per un pubblico più abituato all’alcol che all’arte di bere. Ne sono usciti vini poco distesi, contratti, in cui spesso la freschezza ha dovuto cedere il passo.


Sarà stata la versione in magnum, o comunque la frescura dei venti delle Murge che accarezzano il futuribile castello di Federico II, primo e ultimo esempio di costituzione di uno Stato Unitario in Italia. Fatto sta che il bicchiere si è rivelato sorprendente. Prima dobbiamo però aggiungere che il Falcone un blend di Nero di Troia, di cui l’azienda Rivera è stata sinora l’interprete più convinta e autorevole e di Montepulciano d’Abruzzo, un saldo del 60 per cento che sostanzialmente tende a rendere il vino più morbido e bevibile.


A distanza di oltre 20 anni il rosso è puro, ricco di energia e pimpante, il colore è granato ma vivo, il naso regala frutta rossa in conserva, carruba, note fumè e di cenere, rimandi di foglie di tabacco e lieve tostatura di caffè. Il palato è un piccolo grande capolavoro, lungo piacevole, assolutamente in linea con lo spirito moderno, non lascia alcun segno di stanchezza. Un piccolo grande capolavoro che, tra gli altri, ha segnato l’ingresso dei vini pugliesi nella moderna enologia italiana.