InvecchiatIGP: Poggio Antico - Rosso di Montalcino DOC 1993

di Stefano Tesi

Poiché sono vecchio del mestiere, nella sede odierna non voglio certo immischiarmi nelle polemiche e nelle dietrologie legate al recentissimo aumento del 60% della superficie della celebre doc montalcinese, sulle quali - e sulle logiche delle quali - andrebbe aperto un capitolo a parte. Agli attuali 519,7 ettari si potranno infatti aggiungere ulteriori 364 ettari (+60%), ma senza l’impianto di nuove vigne: “gli ettari aggiuntivi rivendicabili”, comunicano gli organi consortili, “fanno infatti parte delle mappe del territorio come quota di vigneti coltivati a Sangiovese ma liberi da albi contingentati. In termini di bottiglie, la produzione potenziale aggiuntiva del Rosso sarà di poco superiore ai 3 milioni che si andranno a sommare alla media attuale di circa 3,6 milioni di pezzi l’anno”.


Né voglio addentrarmi in definizioni più o meno surreali ascoltate qua e là a proposito di questo vino (si va dal “da piscina” a “contemporaneo”, termine oggettivamente insopportabile) che, un ventennio fa, grazie alla propria linearità e alla mancanza di “palestra”, rischiò seriamente di sostituirsi, nei gusti di una percentuale minoritaria ma non troppo di stampa e consumatori, al fratello maggiore Brunello. Men che meno desidero schierarmi a favore o contro chi, per ragioni anch’esse lunghe da spiegare adesso, vorrebbe o affossarlo del tutto, come una sorta di inutile e meno remunerativa brutta copia del principale vino ilcinese, oppure farne qualcosa di talmente “altro” da non avere quasi più nulla in comune, se non la provenienza geografica e il vitigno, col primo.


Sono qui invece perché - alla terza edizione di “Red”, la giornata che da qualche anno il Consorzio del Brunello di Montalcino dedica alla valorizzazione del Rosso e che nel 2024 coincideva col 40° anniversario della nascita della denominazione - mi sono imbattuto in alcune classiche “vecchie annate”, come si usa chiamarle, che mi hanno davvero sbalordito per longevità e spessore. Devo ringraziare il collega Riccardo Viscardi per averle selezionate con un approccio saggiamente laico e con l’aiuto, va detto, dei produttori. “Per individuare le bottiglie da portare oggi in degustazione – ha detto uno di quelli “storici”, Francesco Ripaccioli di Canalicchio di Sopra – abbiamo chiesto ai soci di portare annate a loro scelta, anche vecchie, e le abbiamo assaggiate alla cieca, cercando di farlo però mettendoci nei loro panni e nel loro gusto: perché il tal vignaiolo ha scelto proprio questo Rosso? Abbiamo insomma cercato di capire se e quale fosse la loro visione di questo vino”.



Si è trattato di un viaggio oggettivamente affascinante, capace di riavvolgere lentamente un film che, a causa dell’effetto-schiacciamento del tempo, tende a volte a sembrare troppo rapido e lineare. Ne è emerso invece il quadro potente di un vino che non ci è parso aver nulla di balneare o di contemporaneo ma al quale, nel lungo periodo, la mancanza di troppi riflettori addosso fa indubbiamente bene.


E si arriva così all’assaggio di questo Rosso di Montalcino di Poggio Antico, vendemmia 1993 (“annata fresca e tardiva”, ci ricordano). Naturale che ti aspetti un vino quasi decrepito, messo lì ad aprire il parterre dei roi un po’ per fare notizia e un po’ dimostrare, al massimo, in che modo un pur ottimo prodotto sappia invecchiare con dignità. Invece nulla di tutto questo. Il colore è ancora integro, al netto di una naturale e non eccessiva aranciatura che dà l’idea di senectutem sì, ma non certo molestam.


Al naso questo Rosso è invece pieno e avvolgente, la sua evoluzione è solida, ben contenuta tra sentori terziari asciutti (cuoio secco, tabacco) e composti, con un frutto ancora presente e una morbidezza eterea, elegantissima, piena di sfumature. Altra sorpresa al palato: il primo impatto è di una potenza quasi spiazzante e di un corpo marcato che poi, piano piano, preso trascolora in una lunghezza avvolgente, fatta di tannini fini e di un’acidità che fa ancora capolino, sostenendo il sorso. In sintesi, una bottiglia sontuosa. Ma solo se degustata in tempo: dopo mezz’ora passata nel bicchiere la sua verve sembra appannarsi progressivamente e il gran vino diventa “solo” un grande vecchio dotato di una pur rispettabile e piacevolissima dignità. Comunque sia, non è poco.

Cantina di Cembra - Vigneti delle Dolomiti IGT "Zymbra" 2019


di Stefano Tesi

Non c’entrano i Talking Heads, ma il nome della valle: un taglio di Riesling, Chardonnay e Muller Thurgau vendemmiati sui terrazzamenti lungo l’Avisio. 


Vino dorato, screziato e cangiante con note di acacia, miele e pietra focaia che torna al palato, sostenuto da una bella vena acida, sapido e profondo. Bene.

Vinschgauer Weinpresentation 2024: il castello dove di scoprono i vini della Val Venosta


di Stefano Tesi

Di qualunque iniziativa si usa dire che, in genere, la seconda edizione è sempre più difficile della prima, perché deve scontare aspettative maggiori, un entusiasmo più basso e l’attenuazione dell’effetto-novità che connota ogni esordio. Non si può dire lo stesso, invece, della recente seconda Vinschgauer Weinpresentation, la degustazione di vini di grandi e piccoli produttori della Val Venosta organizzata nello spettacolare castello di Castelbello (BZ), da Sonja Egger, sommelier dell'anno della Guida Michelin per il 2021 nonché anima – col marito Jorg Trafojer e i figli, Kevin Nathalie e Julya – del ristorante stellato Kuppelrain (ove la sosta è suggeritissima, si capisce), che si affaccia proprio davanti al maniero arroccato sull’antica statale che da Merano risale fino a Resia.


È tra quelle mura, oggi pubbliche dopo un lungo restauro, che dall’anno scorso Sonja allestisce quest’interessante appuntamento avviato a diventare, a mio modesto parere, irrinunciabile: non solo per gli amanti dei vini venostani, produzioni spesso eroiche per dimensioni, quote e numeri, ma per chiunque sia desideroso di avventurarsi in assaggi di etichette poco reperibili fuori da quel contesto. Se a questo si aggiunge la presenza in loco di molti vignaioli in persona, ben lieti di scambiare quattro chiacchiere e di tirare fuori da sotto il banco qualche chicca fuori lista, non sarà difficile capire come e perché un paio di settimane fa, memori dell’ottima esperienza del 2023, ci siamo tuffati senza esitare tra le 22 aziende e le 99 (chicche escluse) bottiglie in catalogo.

Sonja Egger

Il tutto in un’atmosfera priva di retorica e ricca di familiarità che, ponendosi agli antipodi di certi eventi enomondani, onestamente riconcilia col mondo del vino e le manifestazioni ad esso legate. L’impresa di riuscire riunire un così ampio ventaglio di produttori di un contesto marginale, “valligiano” sotto ogni punto di vista, con tutte le dinamiche umane, anche localistiche, che ciò comporta, non va sottovalutata: si tratta di uno sforzo organizzativo e pure diplomatico che solo la tenacia, la diplomazia e l’indiscussa autorevolezza della Egger, estesa ben oltre i confini altoatesini, potevano premiare. Ed ora il timone è già rivolto, come confessa l’ideatrice, a un’ambiziosa edizione 2025.


Sugli scudi dei vini in degustazione quest’anno un ampio ventaglio di vitigni, dagli internazionali ai classici dell’Alto Adige, per passare da alcuni piwi e finire a varietà decisamente desuete alle latitudini mediterranee come il teutonico Scheurebe. Unico limite, troppo breve una giornata per poter assaggiare in modo approfondito quasi cento campioni. Abbiamo dovuto quindi limitarci ai bianchi e ai rosati (i migliori li segnaliamo qui sotto): i rossi li abbiamo solo “bevuti”. 

Ecco cosa ci è piaciuto di più.

Weinggut Befelhof, Riesling 2022 Sudtirol Vinschgau doc bio

Solo acciaio, colore oro pallido, al naso ha una varietalità marcata ma gentile e una bocca precisa, elegante, composta, col giusto conforto di acidità.

Weinggut Befelhof, Jera 2023 (Fraueler) Mitterberg IGT bio

Il Fraueler è un antico vitigno altoatesino che nella circostanza dà un vino di colore paglierino, dal bouquet tenue ma al palato decisamente ricco, screziato, molto lungo, dal finale amarognolo.

Schlossweingut Stachburg, Partschins, Pinot Bianco 2023 Sudtirol Vinschgau doc bio

Colore paglierino, bouquet fragrante e ricco con sentori di pesca dolce, in bocca è invece è asciutto, composto, con un piacevole finale amarognolo.

Oberrieglhof, Schlanders, Sauvignon 2023 Stuanig Sudtirol Vinschgau doc

Un Sauvignon paglierino, dal naso delicato, ma più esuberante che varietale, molto gradevole anche al palato grazie a una vivacità quasi giocosa.

Oberschlossbauer, Juval, Muller Thurgau 2022

Da un vitigno a oltre 900 metri di quota un vino dorato, dall’aroma elegante e compostissimo che in bocca si evolve in pienezza, sapidità e complessità.

Castel Annenberg, Latsch, Aura 2021

Da uno dei pochissimi vigneti di Scheurebe presenti in Alto Adige (la proprietaria è tedesca), ha un bel tono di oro brillante e al naso ricorda un ricco pot pourrì floreale che si ripropone più ampio al palato, con ritorni di toffees e Quality Street.

Weingut Englberg, Schludern, Muller Thurgau IGT 2023

Colore oro pallido, al naso è varietale, verace, diretto e penetrante così come in bocca, ove pulizia, semplicità e piacevolezza prevalgono dando sensazioni di godibilità senza fronzoli.

Kellerei Meran, Vinschgau, Sudtirol Vinschgau Pinot Bianco Doc 2023

Tra l’oro e il paglierino, al naso ha una piacevole nota varietale di mela fresca, mentre in bocca è sapido, agile, pulito, appagante.

Imkerei Innerhofer Bert, Partschins, Honeygourmet 2023.

Questo “spumante” in realtà non è un vino: essendo il frutto del miele fermentato è formalmente una semplice bevanda, ma estremamente curiosa. Nato “per errore” in casa di apicoltori e prodotto in meno di mille bottiglie, è una bollicina dall’intensissimo e ovvio bouquet di miele e cera, ma che in bocca risulta asciutto, sapido, con un’effervescenza gentile e un delicato retrogusto di favo. Scoperta intrigante!

InvecchiatIGP: Sartarelli - Verdicchio dei Castelli di Jesi "Tralivio" 2013


di Luciano Pignataro

La mia passione per i bianchi invecchiati mi ha trasformato in una funicolare che sale verso il Verdicchio e scende verso il Fiano di Avellino. E viceversa. Intendiamoci, ci sono tanti (ma non tantissimi) vini bianchi italiani pensati per durare a lungo e che mi piacciono, altri che riservano inaspettate sorprese, ma la mia opinione è che queste due uve sono quelle veramente al top per evolvere con naturalezza anche se lavorate con grande semplicità, in acciaio per la precisione. Intendiamoci, acciaio o legno sono strumenti e non costituiscono di per sé un plus, almeno per chi ama il vino oltre le mode del momento.


Tralivio
non ha mai tradito e conferma anche un’altra mia idea: che cioè dietro i vini buoni c’è sempre il valore della famiglia italiana che li sostiene. I Sartarelli producono vino dal 1972, poco più di mezzo secolo e, dopo Ferruccio il fondatore, il figlio Patrizio con la moglie Donatella, sono alla terza generazione con i figli Caterina e Tommaso, ossia export e produzione.


Il Tralivio che vi propongo è del 2013, ha dunque dieci anni e benché nelle premesse aziendali ci sia la specifica di una bottiglia vocata al lungo invecchiamento, direi che è il caso di lavorarci con ancora più determinazione verso questo risultato perché il vino che ho avuto la fortuna di stappare in famiglia aveva energia da vendere, un vigore da esprimere, ancora per qualche anno.
Non è retorica dire che i buoni vini nascono da grande agricoltura come premessa, questo è uno dei sei di casa Sartarelli, nasce da una selezione di uve a Poggio San Marcello, nel cuore del Verdicchio di Jesi, a circa 350 metri su terreni di altezza su terreno calcareo di medio impasto e una produzione di circa 80 quintali per ettaro.


Non un cru, dunque, ma una selezione. E che selezione. Il bianco, speso poi su una spigola al forno straordinariamente cucinata da mia moglie in casa, ha subito evidenziato il suo carattere regalando una sensazione di benessere a tutti quanti noi. Colore giallo paglierino carico e vivo, al naso presentava una decisa complessità aromatica capace di spaziare dalle note balsamiche alla frutta gialla sciroppata, alle note di macchia mediterranea sino ana buona declinazione di leggero fumè capace di esaltarne il sapore.


Al palato si presenta molto equilibrato, con una freschezza decisa ma che, dopo tutto questo tempo, più che un gioco di anticipo è impegnata nel sostenere una beva piena, appagante, che riporta integralmente le promesse fatte dal naso, sino alla chiusura lunga, pulita, assolutamente precisa.
Un altro aspetto riguarda il rapporto qualità prezzo: se fate un giro su Google, trovate le ultime annate ad un prezzo imbattibile, sui 16, massimo 18 euro. Ed è per questo che molti bianchi italiani costituiscono ancora una occasione di fare affari per chi compra, un po’ come avveniva negli anni ’90 per altre regioni. Con un po’ di pazienza, senza aspettare magari i dieci anni, se ben conservato, il Tralivio è un vino assolutamente competitivo e in grado di reggere qualsiasi paragone. Provare per credere.

Legras & Haas - Champagne Les Sillon 2012


di Luciano Pignataro

Può sembrare strano ma in realtà è sullo spaghetto con le cozze che abbiamo stappato Chardonnay, lavorato in rovere proveniente da una particella della Maison dei fratelli Legras impegnati nella produzione dal 1991 a Chouilly. 


Perlage fine e persistente, salino e austero al palato, un bicchiere che si ricorda.

Cantine dell’Angelo - Greco di Tufo DOCG "Miniere" 2020


di Luciano Pignataro

Uno dei miei bianchi preferiti di una delle mie cantine preferite. Chi avrebbe mai pensato di incontrarlo a New York? Invece è andata proprio così perché Giuseppe Di Martino, proprietario di The Oval al Chelsea Market, dedicato alla pasta che produce e porta il suo nome, è un grande appassionato di bianchi o, meglio, di Champagne e vini bianchi campani. La sua è una carta colta perché nasce dalla gioia di berli, prima condizione di una carta che abbia carattere e che si ricorda. E così, dalla Coda di Volpe di Perillo ai Fiano di Avellino, ecco spuntare, durante una serata, il Miniere 2020, il cru di Angelo Muto che prende il nome da una vigna piantata proprio sopra le antiche miniere di zolfo che all’inizio dell’800 fecero di Tufo un importante riferimento minerario nel Regno delle Due Sicilie.


Di tutto questo zolfo è rimasta traccia nei vini della piccola docg campana che declina dalle note di zolfo a quelle di frutta agrumata man mano che ci si allontana dall’epicentro da cui prende il nome il vino, un vero rosso travestito fa bianco.
La storia è recente, neanche vent’anni. Parte dalla vendemmia del 2006 quando la famiglia Muto, Angelo è la terza generazione direttamente impegnata nei filari, considerato il continuo abbassamento del prezzo delle uve, ha deciso di difendere il reddito agricolo vinificando in proprio, prima appoggiandosi a terzi, poi dalla vendemmia 2008 nella cantina garage di casa in collaborazione con il bravissimo Luigi Sarno, l’enologo che esprime il suo carattere deciso nelle bottiglie più che nella comunicazione. E per fortuna: i suoi bianchi, coda di volpe, fiano e greco, si ricordano sempre e hanno prezzi più che abbordabili.

Angelo Muto

Il sodalizio tra Luigi e Angelo è di amicizia oltre che professionale, il triangolo è completato dai ragazzi del Cancelliere con l’Aglianico di Montemarano e quello che mi piace di queste tre aziende è che hanno fatto quello che tutte le piccole cantine dovrebbero fare per essere credibili sul mercato degli appassionati e non su quello degli ignoranti: mettere insieme le loro specialità, in questo caso Greco, Fiano e Taurasi e presentarsi insieme invece di fare tutti tutto.


L'agricoltura di Angelo è a basso impatto, proprio come quella del nonno e del padre, molto attenta alla salubrità del suolo, viene da dire già di per se ricchissimo di zolfo. Il Miniere 2020 è il vino del lockdown, l’anno in cui non si trovava personale nelle campagne. Un problema che non riguarda Angelo Muto che fa tutto da sé nei suoi cinque ettari. Il vino sprizza energia nel bicchiere, a New York direi che è perfetto! Il naso gode dei rimandi di frutta e di zolfo, proprio la sensazione del fiammifero appena spento, al palato è ampio, di corpo, ancora freschissimo, lungo, maturando la giusta complessità che il tempo sempre regala ai grandi bianchi. Intendiamoci, il Greco non è il Fiano, sui tempi lunghi, diciamo oltre i sei, sette anni, è sempre una scommessa, ma sicuramente nel tempo medio esprime il meglio di sé, spendibile davvero su qualsiasi piatto. E sicuramente questo Miniere 2020 farà ancora parlare a lungo di sé.

InvecchiatIGP: Villa Saletta - Toscana IGT "Saletta Riccardi" 2015


di Carlo Macchi

Per noi toscani il detto “Peggio Palaia” (anche nella versione più tragicamente ironica “meglio Palaia”) è sinonimo di grande disgrazia, come quella, appunto, che capitò durante il medioevo al borgo fortificato di Palaia, dove assedianti e assediati fecero quasi tutto una brutta fine. Per gli amanti del vino, non solo toscani, però “vicino a Palaia” d’ora in poi sarà sinonimo di gioia e piacere, perché a pochi chilometri da quel piccolo paese si trova Villa Saletta, una cantina, pardon un borgo con cantina e molte altre “cosucce” agricole come silvicoltura, tenuta di caccia, oliveti, tartuficoltura che fanno di questa tenuta di 1400 ettari un progetto (nato nel 2001) a cui dedicare molta attenzione.


La parte vigneti conta circa 40 ettari, che vedranno futuri ampliamenti grazie all’acquisizione della tenuta di San Gervasio, il tutto sotto la giurisdizione dell’enologo toscano David Landini. Qualcuno potrebbe obiettare che un così grande dispendio di energie e fondi forse sarebbe stato meglio farlo in zone più famose, tipo Montalcino o il Chianti Classico, ma a questo qualcuno rispondo con un dato storico. “Solo” un secolo fa la situazione vitata in Toscana era molto diversa da adesso: la zona enoica del pisano, grazie anche alla situazione viaria, era tra le più importanti della regione, mentre Montalcino e le scoscese colline del Chianti Classico erano praticamente sconosciute dal punto di vista. Nobiltà fiorentina, pisana, lucchese facevano a gara per accaparrarsi questi terreni che, allora come adesso, producevano ottimi vini, cosa conosciuta e riconosciuta in precedenza anche dagli stessi Granduchi di Toscana.


Oggi gli ottimi vini di Villa Saletta nascono soprattutto da Sangiovese, anche se in azienda sono presenti diversi ettari di vitigni internazionali. E tra i Sangiovese che ho assaggiato ce n’è stato uno che mi ha veramente conquistato: sto parlando del Toscana IGT Saletta Riccardi 2015, un vino che non ha niente da invidiare ai più blasonati sangiovese toscani.


Si parte dal color rubino ancora molto giovane per passare subito ad un naso dove note balsamiche portano in alto sentori ancora fruttati. In bocca questa giovinezza porta ad una tannicità viva ma rotonda e gustosa, con un alcol importante (14.5) che però non incide, anzi accompagna il sorso. Chi mi conosce sa che amo moltissimo l’annata 2015, anche perché ogni volta che me la trovo davanti ne rimango profondamente soddisfatto. Anche questo Saletta Riccardi 2015, pur avendo trenta mesi di legno è perfettamente equilibrato ed ha quella “ruvida dolcezza” che contraddistingue i rossi toscani dotati di attributi. Un vino memorabile, una memorabile sorpresa, vicino a Palaia.