Cantina Coppola e l’anima bianca del Negroamaro


di Luciano Pignataro

Nell’immaginario collettivo la Puglia è rossa e il Negroamaro è il suo profeta. Battute a parte, resta il dato che l’attenzione generalizzata della critica corrisponde sempre meno alla realtà produttiva. Ma questo non vale solo per la Puglia. In Italia il rapporto fra la produzione di vini rossi e bianchi si è completamente rovesciato negli ultimi 15 anni: nel 2005 la proporzione era 53 a 47, nel 2020 siamo a 42 (rossi) e 57 bianchi. Anche nella Puglia che vanta il tridente rosso su cui sono concentrati tutti gli sforzi produttivi e narrativi, Primitivo, Negroamaro e Nero di Troia, le cose stanno cambiando: nel 2020 il vino bianco nel suo complesso cresce del 13% contro il calo del 12% del vino rosso e il bilanciamento storico si inverte con 5.2 m/hl contro 4.5m/hl. E stiamo parlando di una Regione che, con i suoi dieci milioni di ettolitri, è seconda solo al Veneto per produzione.


Dato atto doverosamente che questi numeri sono estrapolati dal sito "I numeri del Vino" (
www.inumeridelvino.it), torniamo a bomba, cioè come la lettura di gran parte della critica sia dislessica rispetto alla realtà che sta cambiando rapidamente sotto i nostri occhi a causa del cambiamento delle abitudini alimentari e anche perché, diciamolo, non esiste più il freddo di una volta a causa del global warming.
Questa premessa per dire che non sembri stravaganza la decisione di Cantina Coppola, una realtà che vanta un insediamento a Gallipoli dal 1489, di usare il Negroamaro vinificato in bianco per produrre un fermo secco, ormai dal 2004 e due spumanti con la regia dell’amico di famiglia Giuseppe Pizzolante Leuzzi di assoluto pregio.


Alt! Ricordiamo a noi stessi che la Puglia è stata all’avanguardia nella spumantizzazione metodo classico dal 1979, anno in cui a san Severo fu fondata D’Araprì, ancora oggi una delle pochissime aziende impegnate solo ed esclusivamente con le bollicine. Cogliamo l’occasione per ribadire che ogni paragone con lo Champagne, ma anche con le zone italiane che si propongono su questo segmento (Prosecco, Trento Doc, Franciacorta e Oltrepò) è assolutamente inutile perché, nella solita creatività anarchica italiana, ormai si spumantizza tutto e ovunque e dunque le bollicine devono essere lette solo come uno dei metodi di vinificazioni attraverso i quali si esprimono uve e territorio. Il bello dell’anarchia è che l’appassionato può trovare delle chicche inaspettate ad ottimo prezzo. Come queste della Cantina Coppola che abbiamo degustato nella nuova cantina al centro della proprietà nel corso di una presentazione sabato scorso.
La Cantina, poco meno di centomila bottiglie, ha da sempre un occhio di riguardo per il bianco, basti pensare che Carlo Coppola, papà degli attuali proprietari, fu il primo a piantare Vermentino nella tenuta di oltre 60 ettari in riva allo splendido mare di Gallipoli dopo un viaggio in Sardegna nel 1980.


Rocci 2020 Negroamaro Puglia IIGT

La prima etichetta risale al 2004. Il fatto che l’azienda creda in questo prodotto è confermato dalla decisione, ancora rara in Italia, di uscire un anno dopo la vendemmia per cui l’ultima annata in commercio è, appunto, la 2020. Il vino, vinificato in acciaio, ha un grado alcolico contenuto a 12,5 e questo favorisce la sua bevibilità. All’olfatto prevale ancora una sensazione citrica a cui si aggiungono la mela e note di macchia mediterranea e rimandi balsamici. Al palato la freschezza resta il tema dominante sin dall’ingresso del vino che conferma le piacevoli note di frutta migliorate da una marcata sensazione salina, sino alla chiusura amara, lunga, precisa, che lascia la bocca pulita.

Coppola 2015 Metodo classico 36 mesi

Passando adesso al primo dei due spumanti, dobbiamo anzitutto osservare una continuità olfattiva con il vino fermo. Certo. Le note agrumate portano al cedro più che al limone, le sensazioni balsamiche sono più accentuate e fa capolino un rimando fumè che allunga i profumi del vino. Il perlage è fine e persistente, mentre la decisione di pratica il Dosaggio Zero esalta le note di freschezza e regala al sorso un grande potenziale gastronomico, di possibilità di abbinamento poliedrico. Certamente non ristretto solo alla cucina di mare o ai piatti dei ristoranti giapponesi che ormai proliferano ovunque in Italia. Il sorso è lunghissimo, piacevole, fresco, dinamico, sapido, in equilibrio con una chiusura travolgente e piacevole, che invita subito a fare il bis e poi il tris. La produzione è di 3300 bottiglie.

Coppola 2016 Metodo Classico 60 mesi

Il protagonista della mattinata di degustazione nella bella cantina pensata per l’accoglienza è stato il 60 mesi: un investimento notevole per una piccola cantina, meno di mille bottiglie a 60 euro. In questo caso la linea di continuità che prima abbiamo rilevata tra il secco e la bollicina marca decisamente la terza tappa. Ai sentori agrumati subentrano note di frutta, mela, canfora, menta, mirto. I sentori fumé sono leggermente accentuati. Insomma, un naso più profondo che apre ad un sorso pieno, ricco ed energico che dal centro lingua occupa rapidamente tutto il palato. Anche in questo caso la vendemmia anticipata, il dosaggio zero e la mancata malolattica si sono rivelate a nostro giudizio te ottime mosse perché alla fine abbiamo uno spumante di grande bevibilità, anche in questo caso decisamente efficace.


CONCLUSIONI

Tre vini bianchi di grande pregio in terra di Gallipoli, capaci di essere abbinati a quasi tutta la cucina d’autore e a gran parte di quella tradizionale purché non sia eccessivamente "pomodorosa". Un impresa importante che ribadisce la volontà della cantina di specializzarsi e di surfare una tendenza profonda nl mondo dei consumi che ancora non è stata percepita completamente dagli addetti ai lavori e dagli appassionati. E questa la mette in una posizione di vantaggio commerciale e culturale.

Chianti Classico Collection 2022: focus sull'annata 2020


Dopo quasi due anni, dopo questa maledetta pandemia, sono tornato con grande piacere alla Stazione Leopolda di Firenze dove, dal 21 al 22 marzo 2022, si è tenuta la ventinovesima Chianti Classico Collection.


Appena entrato si è capito subito quale fosse il filo conduttore di questa edizione visto che, come potete vedere anche dalle foto, il tema alla base dell’allestimento della location è stato il territorio del Chianti Classico e la sua suddivisione in Unità Geografiche (UGA), il nuovo percorso che la denominazione ha deciso di intraprendere al fine di valorizzare al massimo delle caratteristiche distintive del Chianti Classico.

Credit: Winenews

Questa nuova suddivisione del territorio di produzione del Chianti Classico in aree più ristrette e dotate di maggiore omogeneità, porterà a indicare in etichetta (in una prima fase solo sui vini Chianti Classico Gran Selezione) il nome del comune o della frazione, rafforzando la comunicazione del binomio vino-territorio, aumentando la qualità in termini di identità e territorialità, consentendo al consumatore di conoscere la provenienza delle uve e, non ultimo, stimolando la domanda attraverso la differenziazione dell’offerta.



Per questo sono state individuate e delimitate undici aree all’interno della zona di produzione del Chianti Classico, distinguibili in base alla combinazione unica di fattori naturali (composizione del suolo, microclima, giacitura dei vigneti, ecc.) e fattori umani (storia culturale, tradizioni locali, spirito di comunità): San Casciano, Greve, Lamole, Montefioralle, Panzano, Radda, Gaiole, Castelnuovo Berardenga, Vagliagli, Castellina, San Donato in Poggio.

Tutto questo recita il comunicato stampa che è stato dato a noi blogger\giornalisti per cui, appena entrato nella sala degustazione riservata, la prima domanda che mi sono fatto è stata: ”Siamo sicuri che 11 UGA riflettano davvero le reali differenze territoriali? Non saranno troppe e frutto di una decisione diplomatica volta ad accontentare un po’ tutti i “campanili”?

L’altro obiettivo di queste poche di ore di degustazione spese alla Stazione Leopolda è stato valutare l’ultima annata in commercio del Chianti Classico, la 2020, perché avendo sentito opinioni contrastanti volevo farmi una opinione assolutamente personale e scevra da ogni pregiudizio.

Giovanni Manetti - Presidente Consorzio Chianti Classico

Prendendo sempre spunto dal comunicato ufficiale del Consorzio si evince che, in questo millesimo particolare, il territorio del Gallo Nero non ha, per sua fortuna, sperimentato eventi climatici estremi come purtroppo si sono verificati in altre regioni d’Italia. A una primavera abbastanza fresca è seguita un’estate calda e lunga ma con buone escursioni termiche fra il giorno e la notte (le temperature minime sono state sempre contenute sia a luglio che ad agosto) consentendo il completamento ottimale del processo di maturazione delle uve. Da evidenziare anche l’assenza di stress idrico grazie alle piogge di giugno e di settembre. Tutti questi sono i presupposti per un’altra ottima annata di Chianti Classico, di grande struttura e di grande equilibrio.

Per capire se tutto ciò che ci hanno raccontato in termini di UGA e di caratteristiche di annata sia realmente tangibile nel bicchiere, ho degustato una sessantina di Chianti Classico “base”, da sempre i miei preferiti per espressività, al fine di testare sul campo l’esistenza di linee comuni e differenze tra i campioni prescelti.

Di seguito, suddivisi per territorio, i migliori vini degustati:

Castelnuovo Berardenga

Carpineta Fontalpino - Chianti Classico Fontalpino 2020

Bevuto già qualche tempo fa in azienda. Dopo qualche mese si conferma intenso, fruttato, materico ma con una bevibilità ed un equilibrio davvero notevole!

Vagliagli

Complicità – Chianti Classico “Assolo” 2020

Avvolgente e complesso, sa di mora, ciliegia ed erbe aromatiche. Sorso salino e godibile.

Radda

Istine - Chianti Classico 2020

Angela da tempo non sbaglia un colpo e con questo Sangiovese in purezza guida con orgoglio la bella truppa raddese interpretando la soavità del territorio in maniera impeccabile.

Gaiole

Riecine – Chianti Classico 2020

Il “timbro di fabbrica” di questa azienda lo adoro da tempo, soprattutto amo l’aspetto agrumato e sapido di questo Chianti Classico dal sorso teso, terso e profondo come pochi altri in zona.

Panzano

Monte Bernardi - Chianti Classico "Retromarcia" 2020

La bellezza di questo vino: interpretare il terroir di Panzano, che dà sempre vini ricchi ed carnosi, con armonia e definizione. La progressione di questo sangiovese è assolutamente dirompente.

San Casciano

Cigliano di Sopra – Chianti Classico 2020

Avvolgente, succoso, nitido. La componente acido-sapida e la sua scorrevolezza lo trasportano tra i Chianti Classico più beverini degustati.

Greve

Podere Poggio Scalette – Chianti Classico 2020

Tipicamente espressivo di visciola e agrumi con piccolo corredo di erbe aromatiche. Bocca di appagante freschezza, facilità e piacevolezza di beva.

Montefioralle


Maurizio Brogioni Winery – Chianti Classico “H’amorosa” 2020

Ricco di frutta al naso, al sorso manifesta struttura proporzionata e coesa che svela un finale sapido davvero appagante.

Lamole

Podere Castellinuzza – Chianti Classico 2020

Non c’è nulla da fare, quando bevo Lamole mi sento come se entrassi in un campo fiorito di iris che dona al vino una levità ed una rarefazione davvero entusiasmante. Terroir unico.

Castellina

Castello La Leccia - Chianti Classico 2020

Guido Orzalesi, pian piano, sta riuscendo nell’impresa di togliere al Chianti Classico di questa aziende tutte le inutili sovrastrutture del passato per portare, come in questo caso, il sangiovese ad una essenzialità chiantigiana che mi piace da morire.

San Donato in Poggio

Isole e Olena – Chianti Classico 2020

Vibrante e complesso, sprigiona intesi aromi di prugna e visciola, a seguire incenso, rabarbaro e fiori rossi appassiti. La bocca è emozionante, potenza e controllo vanno a braccetto rendendo tutto dannatamente armonico.

Foto: Ricasoli.com

Conclusioni

Quando tiro le fila di una degustazione così lunga e complicata cerco sempre di confrontarmi con qualche amico\collega e, come sempre, il primo che vado a cercare è il mitico Carlo Macchi che in tema di sangiovese toscano è una voce più che autorevole. Mi fa piacere aver letto su Wine Surf le mie stesse riflessioni sulla 2020 che si rivelata una annata “classica” dove il vino tende ad esprimersi nel bicchiere esaltando, a seconda del terroir, la florealità, la solarità, la freschezza oppure la “sana ruvidezza” del sangiovese. I 2020, pertanto, sono Chianti Classico dinamici, mai pesanti ed eccessivi in alcol e tannino, che rendono spesso e volentieri la beva succosa e godibilissima anche nel caso di affinamenti del vino in legno che non risulta quasi mai invadente.


Per quanto riguarda le UGA e la loro leggibilità nel bicchiere, ho notato che in molti casi, come ad esempio mi è accaduto per Radda, Lamole o Panzano, il vino effettivamente si esprime nel bicchiere con caratteristiche assolutamente uniche tali da giustificare la menzione territoriale. In altri casi, invece, queste sfumature non sono così nette e caratterizzanti. Non so, siamo sicuri che, ad esempio, dividere in Comune di Castelnuovo Berardenga in due UGA (Vagliagli e Castelnuovo Berardenga) sia realmente un valore aggiunto per la denominazione e non si rischi, invece di confondere il consumatore finale? 

Le risposte, come sempre, le darà solo il tempo.

InvecchiatIGP: Manni Nossing - Valle Isarco Doc Kerner 2016


di Carlo Macchi

La Valle Isarco era considerata fino a poco tempo fa il confine nord per la produzione di vino in Italia e in effetti a pochissimi chilometri dalle vigne di Manni si trova la Plose, una delle più belle piste da sci d’Italia. Però è anche vero, e lo possono confermare tutti quelli che sono stati in Valle Isarco d’estate, che quando è caldo lì sembra di essere in un forno, magari ventilato, ma sempre forno.


Manni Nossing è stato uno dei primi a immaginare la Valle Isarco come la conosciamo oggi e sicuramente la sua testardaggine e lungimiranza ha permesso a questo territorio di crescere e di farsi conoscere. Questo grazie vini da vari vitigni ma se ce n’è uno che rappresenta questo territorio è certamente il Kerner. Di origine tedesca (incrocio tra trollinger e riesling) si è ambientato benissimo in Alto Adige ma spesso ha caratteristiche molto diverse a seconda del territorio, dell’altitudine e soprattutto della mano del produttore. Si passa da Kerner che sembrano dei riesling giovani con meno profumi, a Kerner che ricordano gli agrumi matura di un sauvignon in annate calde, ad altri che, forse a causa dell’uso scriteriato del legno, perdono ogni riferimento e potrebbero essere fatti in qualsiasi parte del mondo.


Questa bottiglia di Manni, invece, nonostante la vicinanza ad un piccolo mappamondo e forse la quintessenza del vero Kerner: intensi aromi di agrumi (limone, mandarino, arancia) mescolati a note di idrocarburo e di sensazioni mentolate. Un naso veramente perfetto, preciso ma di grande ampiezza. Bocca estremamente sapida, concreta, profonda, con una freschezza che tiene vivo il vino per tanti, tanti secondi ma che mai diventa amara e mostra grande eleganza finale.
Un vino che vale il giro del mondo (ora si che serve il mappamondo) per venire a berselo!

Riofavara - Terre Siciliane IGT "Nsajàr" 2019


di Carlo Macchi

Recunu, Cutrera e Rucignola: tre vitigni antichi siciliani per un vino che nasce tra Modica e Pachino, vicino al mare e unisce il nord alla Sicilia: aromi da Riesling giovane di grande livello, bocca sapida, calda avvolgente. 


Finezza e pienezza unite assieme. Nsajàr vuol dire provare e voi… provatelo

Sana Slow Wine Fair: occasione irripetibile per assaggiare vini italiani e dal mondo

Cantine biologiche e rispettose dell’ambiente, piccoli produttori, aziende agricole, vignaioli innovativi: sono 542 le realtà dall’Italia e dal mondo, scelte da Slow Food tra chi ha firmato il Manifesto del vino buono, pulito e giusto, che partecipano da domenica 27 a martedì 29 marzo 2022 alla prima edizione di Sana Slow Wine Fair. Conferenze online, masterclass, degustazioni e spazi di dialogo per appassionati e professionisti: non mancano le occasioni per incontrarsi - nuovamente in presenza - e condividere con gli esperti del settore riflessioni sul mondo vitivinicolo, le sue sfide e le sue opportunità. Un evento unico nel suo genere che offre ai partecipanti la possibilità di trovare in un solo luogo il meglio della produzione artigiana e sostenibile italiana e internazionale.


La prima edizione di Sana Slow Wine Fair è organizzata da BolognaFiere con la direzione artistica di Slow Food, in partnership con FederBio e Confcommercio Ascom Bologna, con il supporto di Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dell’ICE, con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna. Sana Slow Wine Fair 2022 è possibile grazie al supporto di moltissime realtà, pubbliche e private, che credono in questo progetto. A nome di tutte, ringraziamo i main partner: FPT Industrial, Reale Mutua, UniCredit.

«Sana Slow Wine Fair contribuirà a far crescere la vera grande comunità del vino che si è creata a partire dalla Guida Slow Wine e Bologna diventerà nei prossimi giorni la capitale del vino buono, pulito e giusto. I temi al centro della manifestazione sono fondamentali per andare incontro alle sfide che il momento di difficoltà attuale ci pone di fronte, a partire dalla crisi climatica e dalla siccità che in questi giorni è un vero dramma per i produttori. In questo, un ruolo importante è quello dei giovani che si fanno portatori della sostenibilità ambientale nelle loro scelte quotidiane, anche quando scelgono un vino in enoteca» sottolinea Federico Varazi, Vice Presidente di Slow Food Italia.

All’auspicio di Antonio Bruzzone, che ha sottolineato come «la crescita di un appuntamento di questa ambizione necessita che le istituzioni ci credano, non solo nella manifestazione ma anche nel ruolo che il territorio deve avere nel settore fieristico e vitivinicolo, secondo una visione di politica di sviluppo a lungo termine», hanno risposto gli assessori Alessio Mammi, per la Regione Emilia-Romagna, e Daniele Ara, per il Comune di Bologna, confermando l’interesse verso la fiera e invitando BolognaFiere e Slow Food a un incontro per lavorare insieme alle prossime edizioni.

Per Giancarlo Tonelli, Direttore Generale Confcommercio Ascom Bologna, questa manifestazione serve per far crescere anche la qualità intera del mondo dell’enogastronomia bolognese.

Il focus sugli espositori

Delle 542 cantine presenti, 63 sono quelle che esprimono una bella biodiversità internazionale. Oltre all’Italia, sono infatti 18 i Paesi rappresentati con i loro produttori nei padiglioni 15 e 20 di BolognaFiere: Albania, Austria, Argentina, Bosnia Erzegovina, Brasile, Bulgaria, Cile, Croazia, Francia, Grecia, Macedonia Del Nord, Montenegro, Perù, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia, Spagna, Uruguay.

«Sono cantine che hanno voluto fortemente far parte della Coalizione ed essere presenti alla Fair. E per i produttori che provengono dall’estero non è così scontato in questi tempi. Inoltre, si tratta di aziende di piccole e medie dimensioni che nella maggior parte dei casi non sono nemmeno distribuite in Italia. Un’occasione irripetibile quindi sia per i professionisti che potranno selezionarle che per il pubblico che potrà assaggiare etichette che nella maggior parte dei casi non sono state mai assaggiate in Italia, e spesso addirittura in Europa» sottolinea Giancarlo Gariglio, coordinatore internazionale della Slow Wine Coalition, che aggiunge. «I produttori emiliano romagnoli che sono presenti lavorano già seguendo i principi della Coalition, quello che speriamo è che Sana Slow Wine Fair rappresenti un momento di ritrovato orgoglio e una spinta a sostenere la produzione buona della regione da parte dei professionisti».

Più della metà degli espositori - in totale 302 cantine – ha una certificazione biologica o biodinamica o presenta etichette certificate. È un segnale fortissimo perché, come evidenziano i dati del Report Wine Monitor Nomisma, il mercato del vino bio si dimostra in grande crescita con un incremento dei consumi in Italia del 60% negli ultimi tre anni. Anche la produzione vitivinicoltura biologica registra numeri positivi. Dai dati Sinab Italia, con 117.378 ettari di vite bio, il nostro Paese conta un’incidenza sulla superficie vitata complessiva di oltre il 19%, la più alta in Europa e nel mondo. Negli ultimi 10 anni la produzione di vino biologico è aumentata quasi del 110% a testimonianza di una maggiore sensibilità dei consumatori verso prodotti di qualità, sostenibili e rispettosi dell'ambiente.

«Il vino biologico, che non utilizza pesticidi e sostanze chimiche di sintesi a protezione della fertilità del suolo e della biodiversità, conferma il suo ruolo centrale all’interno del processo di transizione ecologica verso un’agricoltura sempre più sostenibile. I tre pilastri del Manifesto Slow Food per il vino buono pulito e giusto – sostenibilità ambientale, tutela del paesaggio e crescita sociale e culturale delle campagne – sottoscritto anche da FederBio, contraddistinguono il vino biologico insieme al valore dell'identità territoriale delle denominazioni d'origine del nostro Paese con l'unico logo certificato dall'Unione Europea che premia il lavoro di tanti viticoltori», dichiara Maria Grazia Mammuccini, presidente FederBio.

E poi ci sono le storie. A partire da quella di Rita Babini, produttrice Ancarani Vini Faenza per cui «il buono pulito e giusto rappresenta identità territoriale e visione di un’agricoltura per cui vogliamo veder crescere il nostro lavoro oggi ma anche regalarlo a chi lo vorrà fare domani. Il riferimento al cambiamento climatico e al fatto che non piove ha una serie di ripercussioni concrete sul nostro lavoro sia per questa annata ma anche per la prossima. Questa fiera riassume tutti gli sforzi quotidiani che facciamo per cercare un equilibrio produttivo che ci permetta di fare il nostro lavoro in onestà e che questo accada in Emilia Romagna è un vero motivo di orgoglio. E infine un invito, è vino buono, pulito e giusto ma è anche buono da bere, noi saremo lì ad accogliervi con i nostri vini e con un bel sorriso».

Si potranno poi scoprire le storie di Ivana Simjanovska, co-autrice della guida Slow Wine per la Macedonia del Nord, di Marina Santos, produttrice brasiliana di vino naturale, o di Gregory Perucci, proprietario dell’Agricola Felline a Manduria (Taranto), che coltiva Primitivo all'ombra della vegetazione spontanea. Ma anche quella di Alexis e Jannis, greci di origine, che in provincia di Gorizia gestiscono la cantina Paraschos. E ancora: l'Enantio Riserva 1865 Prefillossera prodotto dalla famiglia Fugatti dell'azienda agricola Roeno, il Rubicone Rosso I.G.T. nato dallo scambio di tecniche e di esperienze fra produttori georgiani ed emiliano-romagnoli, il Cannonau di Mamoiada realizzato dai produttori dell'associazione sarda Mamojà.

Nove masterclass per 360 partecipanti

Nove le masterclass in programma che permetteranno ai circa 360 professionisti del vino e appassionati che parteciperanno di approfondire la conoscenza dei vini di alcune tra le denominazioni, i Domaines, le Maisons, gli Châteaux e i Weingüter più iconici, grazie alla voce di profondi conoscitori delle zone scelte. Ad esempio, per la prima volta nel panorama italiano, sarà possibile assaggiare i vini cinesi, rappresentati da cinque cantine, e ascoltare i racconti di Lan Liu, curatore della prima guida Slow Wine ai vini della Repubblica Popolare Cinese.

Nonostante alcune siano esaurite, c’è ancora la possibilità di partecipare a una di queste esclusive esperienze, acquistando i biglietti disponibili sul sito della manifestazione.

I momenti di approfondimento

La manifestazione, aperta virtualmente da una serie di convegni online - sempre disponibili sul sito della manifestazione - prende il via ufficialmente domenica 27 marzo alle 9 con la plenaria di apertura della Slow Wine Coalition, la rete internazionale, inclusiva e collaborativa che unisce i protagonisti del mondo del vino. Dopo i saluti delle autorità, apre la plenaria Giancarlo Gariglio, coordinatore internazionale Slow Wine Coalition, che presenta i paper dei tre convegni digitali di Sana Slow Wine Fair dedicati a sostenibilità ambientale, difesa del paesaggio e ruolo sociale delle cantine. Seguono il geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi che illustra gli effetti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura e sull’enogastronomia, Carlo Petrini, fondatore e presidente di Slow Food, che interviene sulla transizione ecologica e sul ruolo dell’agricoltura, e il presidente di Libera Don Luigi Ciotti che introduce il tema sempre attuale del rapporto tra produzione agricola e legalità. La plenaria è su invito, aperta ai delegati della Sana Slow Wine Fair e ai giornalisti. Il pubblico può assistere alla manifestazione attraverso il sito web slowinefair.slowfood.it

Momenti di approfondimento sono gli incontri nella Slow Wine Arena e nello Spazio Slow Food, che intendono fornire un quadro ampio e variegato del panorama vitivinicolo internazionale. Tra i numerosi temi affrontati, ad esempio, la biodiversità dei vitigni, il packaging sostenibile, le carte dei vini, le progettualità sociali e il turismo alternativo.

Partecipare a Sana Slow Wine Fair

I biglietti sono disponibili online sul sito della manifestazione oppure direttamente alle casse di BolognaFiere.

Sei un professionista del mondo del vino? Puoi partecipare da domenica 27 a martedì 29 marzo.

Sei un appassionato? A te è dedicata la giornata di domenica 27 marzo.

Se hai acquistato una masterclass in programma nelle giornate di lunedì e martedì puoi acquistare l’ingresso alla fiera anche in queste due giornate dedicate ai professionisti.

Il Parco di San Rossore e il suo miele di spaggia!


di Carlo Macchi

In tempi come questi, dove la tristezza e l’amarezza non possono che regnare sovrane, forse parlare di cose buone e dolci riesce a rendere meno difficile la nostra giornata, e cosa di più dolce e buono del miele? Ma oggi non vi parlerò solo di miele ma di un luogo bellissimo, il Parco di San Rossore. Siamo sulla costa toscana tra Pisa e Viareggio, dove una pineta secolare, casa di conigli, cinghiali, caprioli, e cervi, si affaccia sul Tirreno. Tra il mare e la pineta c’è la spiaggia e soprattutto le dune tra spiaggia e pineta, regno di altri esseri, più piccoli, come le api.


La pineta di San Rossore la conosco bene perché in passato ho organizzato bellissime manifestazione all’interno della Tenuta Presidenziale, che è nel cuore della pineta. Ho assistito anche alle acrobazie dei “folli” che, armati praticamente solo di corde, passano da un pino all’altro per raccogliere i pinoli del parco, di una bontà assoluta ma che oramai, giustamente, costano più dell’oro. Conosco così benissimo i silenzi del bosco, i suoi rumori soffusi e soprattutto i suoi profumi, dovuti a tantissime specie di piante e di fiori che, andando verso la spiaggia, aumentano d’intensità. Tra questi profumi ve n’è in particolare uno che solo nasi molto addestrati o antenne “professionali” come quelle delle api possono percepire, quello dell’elicriso. Magari molti di voi ne sentiranno parlare per la prima volta ma è una pianta che cresce tra le dune: verde-grigia per buona parte dell’anno, fiorisce da maggio a giugno mettendo in mostra dei fiori gialli dotati di pochissimo polline ma più che sufficiente per delle intenditrici come le api.
Se qualcuno adesso pensasse che il suo profumo sia un qualcosa di secondario sappia che diverse sostanze usate in cantina, come la gomma arabica, hanno al loro interno il profumo di elicriso, che nasi molto allenati possono riconoscere nel vino.


Ma torniamo al miele: in questo luogo bellissimo e profumato, la spiaggia e le dune della pineta di San Rossore , grazie alle api, alle molte piante e ai molti fiori nasce questo miele che mi ha letteralmente lasciato a bocca aperta. Dovete sapere che non sono un grande amante del miele e delle cose dolci in generale: in casa ho una sequela di barattoli di miele che mi hanno regalato in varie occasioni, aperti per l’assaggio e poi lasciati lì a morire.


Questo barattolino stava per fare la stessa fine ma il mezzo cucchiaino messo in bocca, oltre a bloccarmi come un cane da punta per la squisita sorpresa mi ha costretto a riprenderne subito un cucchiaio colmo e a godermelo come non ho mai goduto col miele. Di solito infatti riesco a percepire sol uno o due profumi ma in questo i fiori vengono fuori a vagonate ma con sussurante eleganza: inoltre in bocca risulta molto meno dolce e più complesso di qualsiasi altro miele abbia mai assaggiato. In via retronasale poi i profumi di elicriso, lentisco, pino, ginepro, diventano ancora più netti e potenti.


Insomma, una goduria! La cosa che mi ha veramente colpito è, come accennato, che questo miele è molto meno dolce, meno “stucchevole”, come diciamo noi toscani, della media e quindi ti permette (in realtà MI ha permesso) di mangiarlo a cucchiaini colmi, come non ho mai fatto in vita mia. Lo si capisce anche dalle fotografie , dove il barattolino è praticamente finito: mentre scrivo il “praticamente” è stato eliminato.

InvecchiatIGP: Castello dei Rampolla - Vigna d'Alceo 1997


di Roberto Giuliani

Quando uscì quest’etichetta, nel 1996, in un’epoca in cui la Toscana stava attraversando la fase dell’internazionalizzazione dei propri vini, fra barriques, tonneaux, vitigni francesi e non solo, nuove tecnologie in vigna e cantina, la guida Vini d’Italia 1999 (che a quel tempo era ancora condivisa Gambero Rosso/Arcigola Slow Food) gli assegnò d'emblée il premio come vino dell’anno.


Erano tempi in cui il prezzo di un vino poteva lievitare fortemente in base ai premi ricevuti, anche se era già in commercio. L’odore dei soldi è magico, manda senza esitazione l’etica a farsi benedire. Ma tralasciamo questo particolare, anche perché in questo caso il Vigna d’Alceo partì già con un valore piuttosto alto per quei tempi, ricordo che nelle pochissime enoteche romane che erano riuscite ad accaparrarsi qualche bottiglia, si vendeva attorno agli 80 euro. E questo non impedì che quelle poche migliaia di bottiglie prodotte sparissero in un battito d’ali.

Giacomo Tachis

Del resto l’arrivo di Giacomo Tachis nell’azienda di Alceo di Napoli Rampolla, era già una garanzia di successo, molti produttori avrebbero fatto carte false per poter avere la consulenza dell’enologo più famoso del momento. Fu proprio lui a convincere Alceo a impiantare cabernet sauvignon e petit verdot a Panzano in Chianti, non a Bolgheri! Ovviamente la prima rivoluzione avvenne tra i filari, con le rese che si abbassarono in modo repentino, fino ad arrivare a soli 300 grammi d’uva per pianta, con conseguenti concentrazioni di sostanze un tempo impensabili e vini dal colore violaceo-nerastro impenetrabile. In pratica l’emblema dei famosi “Supertuscans”, che per un buon numero di anni hanno spopolato, in molti casi con prezzi da capogiro, aprendosi molto bene al mercato estero (perché da noi chi se li poteva permettere…).


La seconda uscita del Vigna d’Alceo fu la 1997, dichiarata “annata del secolo” in un momento in cui il vino italiano era in pieno sviluppo: fu uno slogan perfetto dal punto di vista commerciale, tanto che favorì la diffusione dei cosiddetti vini “en primeur”, prenotati e pagati in anticipo prima di vederli in enoteca. La cosa per un po’ ha funzionato piuttosto bene, poiché il vino “en primeur” aveva il prezzo bloccato e ti proteggeva dai possibili aumenti in caso di successo. Il Vigna d’Alceo 1997, ad esempio, alla sua uscita in commercio si aggirava sui 100 euro, ma nel giro di un semestre, ammesso che fosse possibile ancora trovarne qualche bottiglia, ce ne volevano 130-150. Ma questa è storia…


Insomma, stappiamo questo ’97, 85% cabernet sauvignon e 15% petit verdot, conservato rigidamente in cantina climatizzata, al buio, coricato, in assenza di vibrazioni e di luce, ovvero nella condizione ottimale per durare nel tempo. Bene, posso tranquillizzarvi subito, il tappo ha tenuto in modo perfetto e il vino non presenta alcun difetto, né pericolose ossidazioni. Il colore ha ancora una tonalità vivace, cuore rubino che digrada verso il granato. Come è doveroso fare dopo oltre vent’anni di chiusura, lo facciamo respirare a lungo, molti minuti, non perché ne abbia particolare necessità, ma per farlo aprire il più possibile.


Basta fare un paio di immersioni olfattive per rendersi conto che il vino è vergognosamente in pieno vigore, a tal punto che i prevedibili profumi terziari spinti sono totalmente disattesi, non vi è alcuna traccia di funghi, cuoio conciato, ceralacca e quant’altro potrebbe denunciarne almeno una condizione da “brizzolato”.

Il colore del vino

Macché, più passa il tempo e più il frutto emerge potente, viscerale, ribes nero davanti a tutti, ma anche un tocco di ciliegia matura, senza cenni alla confettura. Avvincente nei successivi richiami a cacao, menta, tabacco, ginepro e leggera ematite, il tutto in un’atmosfera estremamente sobria e vitale; a volte la lunga ossigenazione può produrre improvvise regressioni, qui invece tutto è perfettamente in tiro, vibra come un diapason, un’onda armoniosa che si affievolisce molto lentamente.


Ne provo un sorso e trovo una sintonia perfetta, un’armonia di suoni che rasenta la percezione tattile, non ho mai pensato a un vino in senso squisitamente fisico, corporeo, ma qui è davvero il caso. Va detto per amor di cronaca che il tannino è pura seta e che, nonostante l’annata fu piuttosto calda, qui siamo a 13 gradi alcolici, un valore oggi quasi impossibile da ottenere con queste rese, a tutto vantaggio di un gusto intenso ma mai pesante, dal tocco dolce, affabile, ti circuisce con i guanti di velluto. Davvero sorprendente, forse il migliore supertuscan classe 1997, per tenuta ed eleganza, che mi sia capitato di assaggiare in anni recenti, e detto da uno che non li ha mai amati…

Nota a margine: in seguito il nome in etichetta è divenuto semplicemente “D’Alceo”.

Mani di Luna - Sangiovese "Checcarello" 2018


di Roberto Giuliani

Un 15% di barbera in un vino che ti introduce nella “visione” di Rocco Trauzzola, tradizionalista fino al midollo, che schiaccia l’uva con i piedi, fa fermentazione con i lieviti indigeni e maturazione in cemento. 


Il Checcarello ha l’anima contadina, puro e diretto, succoso, fresco, fruttatissimo!

Agriturismo Il Casaletto a Grotte Santo Stefano: un posto del cuore a due passi da Roma


di Roberto Giuliani

Siamo nel Viterbese a due passi da Vitorchiano, bellissimo borgo noto per l’estrazione del peperino, una roccia magmatica di colore grigiastro utilizzata per la produzione di lastricati, scale, zoccolature e molto altro. Grotte Santo Stefano fino al 1927 era un comune della provincia di Roma, l’anno dopo Mussolini riformò le province laziali e questo borgo fu aggregato a Viterbo che divenne provincia, da cui dista poco più di 15 km. Poco fuori dal paese, sulla strada Grottana, si trova l’agriturismo Il Casaletto, un punto di riferimento per tutta la provincia, dove Marco Ceccobelli, oste come Dio comanda, porta avanti l’attività iniziata dal padre Sauro.


Ci troviamo nella campagna della Tuscia, ovvero il territorio dove anticamente abitavano i Tusci, cioè gli Etruschi, che hanno lasciato non poche meraviglie della loro permanenza fra l’alto Lazio, la bassa Toscana e l’Umbria occidentale. Basta guardarsi intorno e, fra magnifici borghi, vallate, fiumi, boschi, un agriturismo dove poter mangiare, dormire e attrezzarsi per esplorare la zona arriva proprio a fagiolo. L’azienda è nata alla fine degli anni ‘60, oggi dispone di un orto e cura un allevamento di suini allo stato brado, fa ristorazione e pizzeria (e su questa specialità vanta i 3 spicchi del Gambero Rosso), non a caso Marco preferisce definirlo “Osteria Agricola”.


L’attività è sempre rimasta a conduzione familiare, Marco in cucina, il fratello Stefano e il babbo Sauro si occupano dell’orto, della campagna circostante e dei suini, mentre Donatella Baccelliere gestisce il lavoro di sala. Come potete immaginare le carni e i salumi sono elementi imprescindibili del Casaletto, ma qui si lavora così bene e la qualità trasuda in ogni aspetto che diventa davvero difficile, se si arriva nel fine settimana, scegliere se provare le numerose pizze o la fantastica cucina. Io vi consiglio di andarci minimo due volte, perché sono ambedue da provare assolutamente!


Questa volta, con un gruppetto di vecchi amici, ci siamo concessi un pranzo, non completo come avremmo voluto, perché vi assicuro che se partite dagli antipasti e prevedete di arrivare al dolce, l’unico modo è saltare i primi o i secondi; noi abbiamo deciso di saggiare i primi, e non siamo rimasti delusi.


Non voglio scegliere troppo nel dettaglio dei piatti, ma è importante capire quanto le materie prime facciano la differenza, c’è poco da fare, come avviene con il vino che tutto parte dalla vigna, qui la materia prima ha un ruolo fondamentale, tutto è selezionato con cura, dalle farine alle carni, dalle verdure (tutte provenienti dall’orto) ai formaggi locali. Aggiungiamo poi che Marco Ceccobelli di esperienza ne ha da vendere, ed ecco che ciascuna portata assume dignità di “leccornia”, con il vantaggio che qui le dosi non son mai risicate, ce n’è abbastanza per godere alla grande, in un’atmosfera tranquilla, seguiti con attenzione. La carta dei vini poi va ben oltre la media di quelle che si trovano nella maggior parte degli agriturismi, con un’ampia selezione di vini bianchi, rosati, spumanti e rossi della zona e del resto d’Italia, ma anche uno spazio tutt’altro che risicato agli Champagne.


Visto il menu, ci siamo subito resi conto che non provare qualcosa era davvero un peccato, essendo in sei abbiamo optato per prendere tutte cose diverse (tranne in un paio di casi), in questo modo abbiamo assaggiato un po’ di tutto; fra le cose che hanno lasciato un segno indelebile ci sono a furor di popolo la “Zucca laccata all’amaro di rabarbaro su fonduta di caciofiore delle campagne romane e sottobosco autunnale”, un antipasto davvero delizioso, equilibrato ma dai sapori ben definiti; anche il “Fritto misto di quinto quarto di manzetta maremmana” ci è piaciuto per la perfetta doratura, ogni elemento era perfettamente asciutto, la parte oleosa si sentiva solo una volta assaggiato e la qualità sia della carne che delle verdure d’accompagno era eccellente.


Sui primi l’ovazione è arrivata con i “Cannelloni ripieni di manzetta maremmana, ricotta di pecora e pecorino Pira”, semplicemente spettacolari, con una gustosissima crosticina nella parte superiore del cannellone, uno di quei piatti che in molti casi sfuggono di mano, diventando pesanti, troppo carichi, qui invece era tutto perfetto. Altro primo piatto riuscito è “Gnocchi al ragù, antica ricetta alle tre carni”, in seconda posizione solo perché mancava una spolverata di parmigiano a dargli più slancio, problema prontamente risolto.


I dolci si sono rivelati un’altra carta vincente, sono la cartina di tornasole di un ristorante e qui sono andati alla grande, a partire dal commovente “Quasi un tiramisù con biscuit di mandorle, cremoso al caffè, praline al cioccolato Valrhona e mousse al mascarpone”, da applauso! Buonissima anche “La nostra versione di zuppa inglese scomposta”, un dolce divertente che ti permette di assaporare ogni singolo componente e poi percepire tutta la sua espressività mettendoli insieme. La “Torta al cioccolato fondente Valrhona con mousse allo zenzero e cannella” ha riscosso molte approvazioni, unica nota a margine: se avesse avuto un po’ più di cremosità e grassezza sarebbe stata perfetta.


Infine si è rivelato splendido lo “Zuccotto di mele cotte nello strutto, con crema inglese alla vaniglia e sciroppo ricavato dal torsolo e la buccia della mela”, l’idea della mela cotta mi aveva creato una certa diffidenza, invece l’assaggio ha stravolto ogni mia immaginazione, un dolce davvero superbo.


I vini che hanno accompagnato antipasti e primi hanno fatto la loro figura, sia l’Olevano Romano Cesanese Superiore Silene 2020 del mitico Damiano Ciolli che il Cortona Syrah 2017 dell’altrettanto mitico Stefano Amerighi.


Ah! Elemento non trascurabile, qui non si paga pane (ottimo fra l’altro) e coperto. Quanto abbiamo speso? Meno di 50 euro a persona vino compreso. Aspettatevi un secondo articolo dedicato alle pizze…

InvecchiatIGP: Casal Pilozzo – Dedo 2000


Non sono un grande patito, come altri colleghi sommelier, delle c.d. degustazioni alla cieca sia perché, a volte, mi piace contestualizzare ciò che sto bevendo, sia perché, diciamolo tranquillamente, spesso nel tentativo di riconoscere il vino che ho nel bicchiere sparo delle grandissime cavolate. Ripensando a certe serate, però, non posso non riconoscere il valore educativo di questo tipo di wine tasting soprattutto se, come ha fatto il mio amico Simone Di Vito di Intravino, ti versano nel bicchiere vini talmente inaspettati ed emozionanti da rivoluzionare il mio concetto di estetica del vino.


Come potete vedere anche voi dalla foto, alla vista il colore è di un rosso rubino trasparente e vivissimo tanto che, tra gli ospiti, già qualcuno ipotizzava fosse un nebbiolo di Valtellina o un grande sangiovese.

Al naso rivela già qualcosa in più. Ha un profumo vegetale percettibile, profondo, elegante, non invaso da eccessi pirazinici che spesso rendono pesante e monocorde il quadro aromatico complessivo che in questo vino, cangiante minuto dopo minuto, si arricchisce di sensazioni di pepe, rosa canina, ribes i cui effluvi sono ben racchiusi, come doni preziosi conservati nel tempo, all’interno di uno scrigno sapido che fornisce ulteriore personalità ed equilibrio a questo liquido rosso ancora sconosciuto. Odori terziari? Non pervenuti!

“E’ un cabernet sauvignon in purezza!!!

“Ma no, è un taglio bordolese italiano!!!!

“Sì, è un San Leonardo!!!!!

“Macchè, la veste cromatica è troppo trasparente!”

“E’ francese, di sicuro!!!

Tutto la tavolata, compreso il sottoscritto, a discettare su ogni molecola odorosa che si elevava dal bicchiere per poi tracollare dall’emozione una volta bevuto. Già, tracollare, è il verbo giusto, perché questo vino è un gioiello di armonia, eleganza, spinta acida e progressione sapida. Perfetto nella sua nitidezza e contemporaneità. Nulla, ancora una volta, che faccia presagire un affinamento importante del vino. Nulla!

“E Loira, è Loira!”

“Ma no, è un Loredan Gasparini Montello Venegazzu Superiore!!!”

“ Nooooo, è Francia!, magari una zona poco famosa”

“Qua sento “odore” di grande Toscana”

Simone toglie la carta stagnola dalla bottiglia e arriva il mutismo completo delle sala.


E’ un Dedo 2000, merlot e cabernet franc , prodotto da quel visionario di Antono Pulcini, proprietario di Casal Pilozzo. E’ un vino del Lazio, precisamente prodotto da vigne piantate a Monteporzio Catone, località dei Castelli Romani, dove lo stesso Pulcini, nel lontano 1987, piantò 13 ettari di vigneto su terreno di origine vulcanica. 


Il Dedo 2000 è una della tante perle che potete trovare all’interno della lunga cantina scavata nel tufo che, ancora oggi, conserva migliaia di bottiglie di diverse annate di quelli che lo stesso vignaiolo chiama “Vini da Invecchiamento”. Vorrei scrivere tanto della visione enologica, ormai quasi irripetibile, dei vini di Pulcini ma, mentre scrivo questo articolo, il vino è ancora nel calice e me lo vado a godere. Basta con i rimpianti, almeno per stasera….

Caccia al Piano - Bolgheri Superiore DOC 2018


Questo Bolgheri Superiore, taglio Cabernet Sauvignon (70%) e Cabernet Franc (30%), è stato prodotto da Tenuta Caccia al Piano, di proprietà della famiglia Ziliani, e la 2018 è stata la prima annata prodotta.


Vino di personalità, suadente nei profumi di macchia marina e frutti rossi che regala, cosa per nulla scontata per la denominazione, una beva succosa, equilibrata e dinamica.

Francesco Panella:”Festeggiamo i 100 anni dell’Antica Pesa con un libro”!


Cento anni sono un traguardo importante, storico, e vanno festeggiati nel modo migliori possibile, soprattutto se a compierli è uno dei ristoranti più storici di Roma come l’Antica Pesa gestita da quattro generazioni dalla famiglia Panella. Questo locale, situato nel cuore di Trastevere, è una vera e propria istituzione tanto che la sua storia inizia nel secolo XVII, dove nell’attuale Via Garibaldi c’era un punto di riscossione doganale sul grano. Qui, si usavano strumenti come pesi e bilance per distribuire il cibo portato dagli agricoltori locali e sempre in questo luogo, per i più bisognosi, i doganieri realizzarono una vera e propria taverna, luogo di accoglienza e solidarietà.



Bisogna arrivare al 1922, con la prima generazione dei Panella, alla vera e propria svolta per questa taverna che venne riconvertita in autentica e verace trattoria romana con l’obiettivo di continuare a sostenere i contadini locali utilizzando le produzioni della campagna romana per cucinare i piatti della tradizione. Quando la trattoria cominciò ad essere apprezzata in città i Panella scelsero per il locale un nome emblematico in onore alle loro origini: Antica Pesa.


Ma è negli anni Cinquanta, con la Dolce Vita, che l'Antica Pesa diventa un punto di riferimento, una tappa obbligata per tutti coloro che desiderano immergersi nella vera romanità, nello spirito autentico di una città unica al mondo. Artisti, scrittori, attori, registi, ma anche gente comune, turisti e non, si danno appuntamento alla Pesa per gustare i piatti della tradizione in un'atmosfera "verace" e caratteristica. E negli anni seguenti, grazie a una gestione fortemente radicata nel territorio ma capace di aprirsi alla sperimentazione, l'Antica Pesa, gestita oggi dai fratelli Simone e Francesco Panella, si conferma depositaria della tradizione, che reinterpreta e innova alla luce della propria storia che oggi viene raccontato in questo libro “100 anni di cucina romana nelle ricette e nella storia dell’Antica Pesa” (Newton Compton, pg 192, 16 euro). Il libro è diviso in due parti, una storica, in cui attraverso ricerche effettuate in più archivi hanno tracciato il passato del locale il cui primo riferimento scritto risale al 1871 quando all’interno de “Il Volontario di Pio IX”, scritto da Antonmaria Bonetti, si narra di come l’autore avesse ritrovato il collega e amico soldato seduto alla tavola dell’Osteria della Pesa, a “mangiare mezzo pollastro arrosto”.

La Carbonara dell'Antica Pesa

La seconda parte, invece, è dedicata prettamente alla cucina dell’Antica Pesa raccontata attraverso 40 ricette, tutto spiegate nel dettaglio per replicarle a casa, che rappresentano i piatti più rappresentativi che si sono susseguiti nel menù del ristorante nel corso di questi cento anni. Un libro, perciò, che racconta non solo la passione per la cucina della famiglia Panella visto che, attraverso tante le tante foto e gli aneddoti presenti nel volume, rappresenta un piccolo grande racconto della storia italiana la cui sublimazione è avvenuta anche all’interno delle sale dell’Antica Pesa che oggi, a distanza di cento anni, rappresenta un polo di cultura italiana dai caratteri unici ed inimitabili.

Simone e Francesco Panella

Per parlare di questa nuova pubblicazione, ma non solo, ho intervistato Francesco Panella che ho letteralmente rapito per qualche minuto mentre era ad accogliere gli ospiti nelle sale dell’Antica Pesa.

Francesco, cosa è per te questo ristorante?

L’Antica Pesa non è solo un ristorante ma è un luogo che ha trasmesso ospitalità fin dalla metà del 1800 e quando siamo entrati noi Panella nel 1922 non abbiamo fatto altro che apprendere l’uno dell’altro il miglior modo per dare ospitalità a chi passa a trovarci. In questi cento anni abbiamo passato momenti belli, meno belli come due guerre e tre pandemie ma noi non abbiamo mai mollato per tanti motivi.

Quali sono?

Noi siamo una famiglia che ha avuto ed ha nel DNA un forte spirito di accoglienza, questo è ben più che un lavoro perché abbiamo anche un forte di responsabilità, anche morale, con chi ci ha preceduto. Sai quanto gente viene qua e mi dice: ”Mio nonno si è sposato qua, mio papà anche e io mi sposerò qua…..”. Ecco, quando senti dal cliente queste cose non puoi avere motivi per mollare un’attività che va oltre la ristorazione pure e semplice.

Tornando ai vostri inizi, che tipo di ristorazione fornivate? C’era un piatto tipico del ristorante?

Dai racconti di mia nonna noi eravamo specializzati in “fagottini” dove c’era la pasta che veniva preparata col formaggio, il pepe macinato. I pastori, poi, la andavano a mangiare su per il Gianicolo, un colle di Roma che dista poco dal ristorante. Si lavoravano sicuramente prodotti freschi, genuini che, al tempo, ovviamente, avevano i loro problemi di conservazione….

Quali sono le caratteristiche del cliente abituale dell’Antica Pesa di oggi?

E’ un cliente che cerca rassicurazioni, che cerca un ambiente casalingo e si fida totalmente del nostro servizio e dei nostri consigli. E’ una persona che vuole passare due ore in serenità celebrando occasioni importanti. Non di rado vengono coppie che si sono sposate qua e che, dopo anni, celebrano il loro anniversario in queste sale. L’Antica Pesa non è solo un ristorante ma è anche un luogo della memoria dove si rivivono emozioni.

Questo ristorante, alla fine, per voi non solo un luogo di lavoro. E’ una vera e propria seconda casa…

Quando sei figlio di ristoratori e vivi il lavoro come una passione il ristorante non può non essere casa tua. Lo vivi a 360°, anche da piccolo, quando magari la mattina presto, prima della scuola, andavo con mio padre a comprare le materie prime ai Mercati Generali. Desideravo farlo, quello era il mio Luna Park. Non scorderò mai le cassette di legno che volavano, i profumi, i colori di un luogo magico che era animato poi da personaggi incredibili alla stregua di quelli che poi si vedono, per finta, all’interno dei parchi giochi moderni.

Cosa hai imparato in quegli anni?

Ho imparato sicuramente la contrattazione, che negli anni ’70 e ’80 all’interno dei Mercati Generali, era qualcosa di assolutamente folkloristico e, poi, ho imparato anche a riconoscere la genuinità e la freschezza del prodotto dal suo odore. Ah, ho imparato anche il romanesco stretto!

Antica Pesa Brooklyn

Insieme ai tuoi fratelli Simone e Lorenzo, nel 2012, la famiglia ha aperto il suo primo avamposto di successo internazionale a New York, precisamente Williamsburg. Quali sono le principali differenze enogastronomiche tra Italia e Stati Uniti?

A New York, non avendo una cultura di cucina casalinga, le persone spesso vanno a mangiare fuori avendo anche tantissimi ristoranti di grande qualità dove possono mangiare italiano, indiano, giapponese, cinese, spagnolo, etc... In questo modo, a mio parere, non si riesce a dare un peso culturale elevato a ciò che si ha nel piatto per cui, dal punto di vista enogastronomico, la clientela media dell’Antica Pesa di New York ha una competenza generica, a tratti mostruosa, sulla cucina internazionale, ma non ce l’hanno specifica come per esempio in Italia dove, ad esempio, possiamo non conoscere cosa sia il curry ma magari sappiamo tutto di come si cucina la lasagna e delle sue variazioni regionali.

Visto che vai spesso negli States, esiste ancora la vera cucina italo-americana?

Esiste ancora, assolutamente, è una cucina che abbiamo esportato come elemento di valore prendendo dagli Stati Uniti l’opportunità di fare business. La cucina italiana, con le sue ricette tradizionali, ha unito questi due Paesi per sempre e questo simbolo di amicizia tra popoli diversi, ovvero la cucina italo-americana, dovrebbe essere raccontata all’interno di un museo come elemento di socializzazione unico nel suo genere.

Il Made in Italy, pertanto, è ancora una carta vincente?

In un periodo difficile come questo, dove ogni Paese sta cercando di tirare su il proprio PIL, il made in Italy potrebbe essere troppo totalizzante, invadente, per cui sarebbe meglio trasformare il made IN Italy con il made WITH Italy. Si vince con l’Italia e non in Italia. Ti faccio un esempio: se a New York porti un pastaio italiano e adoperi un pomodoro del New Jersey che, credimi, è eccezionale, si fa sistema con lo Stato che ti ospita che, a suo volta, ti aiuta a ripartire.

Torniamo alla tua vita privata e parliamo di un argomento che a me interessa particolarmente: il vino. Quanto è importante per te, anche da ristoratore?

Per me è un elemento fondamentale perché lo lego, visto il mestiere che faccio, al termine della mia giornata lavorativa quando, finalmente, mi rilasso e posso permettermi un calice. Non solo, il vino per me importante anche quando non lavoro perché amo condividere una bottiglia mentre sono in compagnia di un amico o di un famigliare. Un calice di buon vino, inoltre, me lo bevo anche solo mentre magari leggo o vedo un quadro. Insomma, non potrei vivere senza, è un partner irrinunciabile.

L’Antica Pesa ha una cantina fantastica con dei vini molto ricercati. Il cliente medio del ristorante che vini ordina?

Adesso mi chiedono molto vini naturali e la cosa mi piace parecchio perché penso siano prodotti assolutamente godibili e dal buon rapporto qualità\prezzo. Questi vini sono assolutamente stimolanti per chi fa servizio in sala perché sono prodotti che spesso vanno comunicati e per certi versi “spiegati”. E’ facile vendere, ad esempio, i vari Supertuscan ma, se mi permetti, nel corso del tempo, soprattutto nei confronti dei clienti meno esperti, ritengo che più di qualcuno abbia approfittato del loro blasone fornendo prodotti magari non all’altezza o, comunque, dai ricarichi eccesivi.

Cantina dell'Antica Pesa

Quello dei ricarichi, soprattutto nell’alta ristorazione è un problema….

La vera sfida, infatti, è fare i giusti ricarichi perché dobbiamo dare a tutti la possibilità di bere un sogno, anche fosse solo un calice. Oggi ci sono tanti strumenti per arrivare a questo obiettivo e un ristoratore capace deve regalare sogni realizzabili.

Ultima domanda: oltre che essere grande ristorate sei anche un personaggio televisivo conducendo da anni “Little Big Italy”. Visto la tua esperienza, quale è il posto dove si mangia peggio al mondo?

Premesso che ormai la cultura enogastronomica è arrivata a buoni livelli in tutto il mondo, se parliamo di cucina italiana penso che il centro America non sia il posto migliore per noi italiani. Troppe salse, mamma mia!!!