InvecchiatIGP: Gaggioli - Vino da Tavola Rosso Bagazzana


di Lorenzo Colombo

Non ricordiamo precisamente quando ci siamo stati in quest’azienda situata a Zola Predosa, in provincia di Bologna, saranno però passati tranquillamente una ventina di anni, fatto sta che il vino che andiamo a degustare non ci aiuta molto a ricordare, essendo quello che anni fa veniva classificato come Vino da Tavola non poteva infatti riportare in etichetta l’annata di produzione, ma neppure il nome del vitigno o la zona di produzione. Abbiamo cercato a tal proposito di risalire dal numero del lotto, informazione questa obbligatoria sull’etichetta dei vini, ma anche questo non è che ci ha dato alcuna certezza, trattandosi di una serie di numeri e lettere.
Quello che ci pare di decifrare è infatti un 22, ultime cifre di una serie posizionata sotto il contenuto del recipiente. Potrebbe quindi trattarsi di un vino del 2002, perlomeno ipotizziamo, in quanto ai vitigni utilizzati, consultando alcune vecchie guide di vini, di fine anni Novanta/inizio anni 2000 abbiamo trovato 60% Cabernet sauvignon e 40% Merlot.


La bottiglia in questione era da tempo immemore posizionata sulla griglia della nostra cantina e tutte le volte che la vedevamo abbiamo sempre pensato che non fosse il caso d’aprirla aspettandoci che il suo corretto abbinamento sarebbe stato il lavandino, date le condizioni che trasparivano dalla sua capsula, con evidenti segni di muffa e di colatura di vino. Una domenica di febbraio ci siamo però decisi a metterla alla prova e dobbiamo dire che è stata una piacevolissima sorpresa.


La storia dell’azienda Gaggioli ha inizio negli anni Settanta del Novecento, quando Carlo Gaggioli recupera il Vigneto Bagazzana e negli anni Ottanta inizia a commercializzare il suo vino sfuso. Negli anni Novanta s’inizia ad imbottigliare ed attualmente Carlo Gaggioli, morto recentemente, e la figlia Maria Letizia producono circa 130.000 bottiglie all’anno suddivise tra una quindicina d’etichette, da 21 ettari di vigna.

Carlo Gaggioli

Naturalmente il vino che andiamo a degustare non esiste più, nel corso degli anni ha cambiato nome ed è stato aggiunto, nella sua composizione lo Syrah, ora si chiama Colli Bolognesi Rosso Bologna Doc ed è composto da 50% Cabernet sauvignon e 50% tra Merlot e Syrah, viene vinificato in vasche d’acciaio e s’affina sia in acciaio che in botti di rovere da 15 ettolitri per un periodo variabile dai 12 ai 18 mesi. Null’altro siamo riusciti a sapere da parte dell’azienda produttrice.

La degustazione

Come scritto in precedenza la bottiglia non si presentava molto bene, l’abbiamo quindi approcciata con parecchia diffidenza. Pulita la capsula, coperta di muffa e con chiari segni di colatura, ci siamo con cautela approssimati all’estrazione del tappo che per la verità è uscito senz’alcun problema, era però completamente intriso di vino e nell’estrarlo dal cavatappi s’è rotto in più pezzi.


Non dava però segni d’anomalie olfattive particolari, così, versato un piccolo quantitativo di vino nel bicchiere l’abbiamo assaggiato, non trovando nulla di strano.
E’ quindi seguita la decantazione, onde separare il possibile fondo creatosi negli anni, che però s’è alla fine rivelato minimo. Nel bicchiere troviamo un vino dal color tra il granato ed il mattonato, con unghia aranciata.


Mediamente intenso al naso, un poco chiuso, dopo qualche minuto s’apre su sentori di sottobosco, tabacco dolce, humus e dopo poco tempo ancora emergono note di marmellata di prugne, noci, nocciole ed accenni di vaniglia.
Discreta la sua struttura, il tannino è ancora ben presente ma s’è ammorbidito ed addolcito, ritroviamo netti i sentori di prugne, sia cotte che in confettura uniti ad accenni vanigliati e di fichi secchi, buona la sua persistenza. Un vino sorprendente e decisamente interessante, soprattutto alla bocca.

Feudo Montoni - Igt Terre Siciliane Nerello Mascalese “Rose di Adele” 2023


di Lorenzo Colombo

Vino fresco, sapido, succoso, agrumato, dal color rosa pallido che prende il nome dal roseto che Elio, padre di Fabio, attuale proprietario, ha dedicato alla moglie Adele.


Le uve provengono da un vigneto di 40 anni d’età frutto di piante selvatiche innestate a mano, situato a 600 metri d’altitudine.

Cantina Menegola, elogio dei vini della Valtellina


di Lorenzo Colombo

Abbiamo conosciuto Walter Menegola nel 2011, quando visitammo la sua azienda in occasione della prima edizione della Guida Slow Wine, l’azienda allora era nata da poco –è nel 2006 che escono le prime bottiglie col proprio nome-, anche se la famiglia di Walter produceva uva e la conferiva sin dal 1850.
Ricordiamo ancora con emozione la visita al vigneto centenario, quello da cui, ancor’oggi provengono le uve per la produzione del Sassella Riserva.

Walter Menegola

Ci siamo ritornati una settimana fa e abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Walter mentre assaggiavamo i suoi vini. Ora l’azienda dispone di 5 ettari vitati, quattro dei quali in proprietà situati a Castione Andevenno, l’altro, in affitto, si trova a Berbenno, ci sono inoltre quattro conferitori, tre dei quali nella zona del Sassella. La produzione annuale s’aggira sulle 50.000 bottiglie il 30% delle quali vengono esportate, i principali paesi sono Stati Uniti, Giappone e paesi del Nord Europa, cinque etichette. Un poco atipico, sia per il vitigno che per la zona, il colore dei vini, sempre piuttosto intenso, Walter sostiene che non è vero che il nebbiolo abbia poco colore, “occorre solamente riuscire ad estrarlo dalle bucce”. 

Rotovinificatore

Atipica anche la fermentazione dei vini che avviene in un rotovinificatore fatto costruire appositamente, non ci risulta che altre aziende valtellinesi l’utilizzino.
Alla nostra domanda sul fatto che questo ci pare uno strumento del passato, legato agli anni ottanta-novanta del secolo scorso, Walter risponde che la notte “vuole dormire” e che questo strumento, utilizzato come fosse un follatore - ovvero le pale ruotano per pochi minuti ogni tre/quattro ore - glielo permette, senza snaturarne i vini né accorciandone la vita. A tal proposito l’assaggio dello Sforzato 2013, attualmente in commercio ce ne darà conferma.

Vigneti


Durante la nostra visita abbiamo potuto assaggiare l’intera produzione, ecco il nostro pensiero.

Vino rosato “Inciso”

Nato in maniera quasi casuale, nel 2013, quando si decise di intervenire sul mosto dello Sforzato, salassandolo, il nome del vino deriva dall’incisore, ovvero colui che ha inciso sulla roccia la figura riportata in etichetta. Prodotto -tramite salasso- da uve Nebbiolo dell’annata 2022. La tecnica del salasso, utilizzata per la prima volta nel 2013 nella produzione dello Sforzato, e che ha dato adito a questo vino rosa, ora viene applicata a tutti i vini aziendali. Al vino non vengono aggiunti solfiti in nessuna fase della lavorazione, la solforosa totale (dovuta alla fermentazione) è di 18 mg/litro.


Color tra il rosa antico ed il ramato, di buona intensità. Di media intensità olfattiva, vi cogliamo leggeri sentori di frutti di bosco macerati ed accenni di tabacco. Alla bocca è un’esplosione di frutta dolce, ciliegia, frutti di bosco macerati, sentori di caramella alla frutta, note d’agrumi. Il vino risulta un poco dolcino, il suo zucchero residuo è di 19 g/litro il che lo colloca tra i vini “amabili”, comunque la sua dolcezza è in parte mitigata dalla buona vena acida. 
Per evitare eventuali rifermentazioni il vino viene microfiltrato prima dell’imbottigliamento. Si tratta comunque di un vino che potremmo definire “poco valtellinese” dove si nota uno scostamento tra le sensazioni olfattive e quelle gusto-olfattive, adatto a quei consumatori poco smaliziati e/o cercano in un vino la semplicità e la facilità di beva. Ne sono state prodotte 8.000 bottiglie che vengono vendute in azienda a 12 euro.

Valtellina Superiore “Orante” 2018

Orante, ovvero l’oratore. Le uve provengono da vigneti con un’età media di 35 anni, situati a Castione Andevenno, tra i 400 ed i 500 metri d’altitudine. Affinato per 12 mesi in botti di rovere francese da 20 ettolitri ai quali seguono 36 mesi di sosta in bottiglia.


Color granato di buona profondità. Intenso al naso dove presenta sentori di radici, sottobosco e leggeri accenni balsamici. E’ caratterizzato alla bocca da un tannino deciso ed un poco asciugante che a tratti rimanda alla pellicina delle castagne crude, buone sia la struttura che la vena acida, sentori di legno. 17.000 le bottiglie prodotte il cui prezzo in azienda è di 17 euro.

Sassella “Rupestre” 2020

Le uve provengono da vigneti di 65 anni d’età situati tra i 400 ed i 500 metri d’altitudine a Castione Andevenno, vinificazione con macerazione di nove giorni, 24 mesi d’affinamento in botti da 20 ettolitri seguiti da due anni di sosta in bottiglia.


Color granato di buona profondità. Bel naso, di buona intensità olfattiva, frutto rosso maturo e dolce, note balsamiche, sentori d’erbe aromatiche. Dotato di buona struttura, buon frutto, bella vena acida e buona trama tannica, accenni di rabarbaro, buona la persistenza su sentori di radice di liquirizia.

Sassella Riserva 2018

Come sopra specificato le uve provengono da un vigneto di oltre cent’anni d’età situato a Castione Andevenno, il vino viene affinato in botti di rovere da 20 ettolitri dove sosta per 45 mesi ai quali segue un lungo periodo di riposo in bottiglia. La produzione è limitata a 3.000 bottiglie il cui prezzo in azienda è di 55 euro.


Color granato di buona profondità. Discretamente intenso al naso, elegante e complesso, leggeri accenni speziati note floreali di fiori essiccati. Dotato di buona struttura e trama tannica importante ma ben integrata, asciutto, bel frutto e buona vena acida, notevole l’equilibrio gustativo, lunghissima la persistenza su sentori di radice di liquirizia.

Sforzato di Valtellina “Duemilatredici”

Si tratta dell’annata attualmente in vendita, la 2015 (che abbiamo peraltro assaggiata) verrà presentata al prossimo Vinitaly. Il vigneto da cui provengono le uve ha 35 anni d’età. Affinato per 12 mesi in barriques nuove e successivamente in botti di rovere da 20 ettolitri per altri 12 mesi, seguono cinque anni di riposo in bottiglia prima della commercializzazione. 4.800 le bottiglie prodotte, vendute in azienda a 55 euro.


Color granato profondo. Bel naso, elegante, buona la sua intensità olfattiva, frutto dolce, ciliegia matura, note balsamiche. Fresco, sapido e succoso, con un bel frutto ed una buona trama tannica, lunghissima la sua persistenza.

Sforzato di Valtellina 2015 (non ancora in vendita – non l’abbiamo fotografato perché ancora senza etichetta).


Granato profondissimo. Più intenso al naso rispetto al vino del 2013, frutto scuro maturo, note floreali. Fresco, con tannino deciso, asciutto, sentori di ciliegia matura e prugna, lunga la persistenza

InvecchiatIGP: Terra di Seta - Chianti Classico 2009


di Stefano Tesi

Quella di Maria Pellegrini e Daniele Della Seta è la classica storia di un cambio di vita che approda nel mondo del vino. E che, sì, se imprime comprensibilmente una svolta netta all’esistenza dei due protagonisti rischia anche - se poi non corroborata da fatti concludenti - di tradursi in un po’ abusato argomento da mero storytelling, come in giro se ne leggono tanti.


Non mi addentrerò troppo, dunque, nella pur bella avventura di lei, vignaiola da generazioni, e di lui, romano di nascita ma con alle spalle un quarto di secolo vissuto da biologo all’Università di Siena, che nel 2000 comprano la proprietà e poi dal 2007, con la costruzione della nuova cantina, iniziano a produrre in proprio con l’etichetta Terra di Seta. Non indugerò nemmeno sul fatto che questa è l’unica cantina in Italia (e in Europa ce ne sono solo due) la cui intera produzione vinicola (circa 50mila bottiglie all’anno) dal 2008 è certificata kosher.


Mi pare molto più importante, in questa sede, sottolineare l’adesione subitanea dell’azienda al biologico, sotto l’ala protettiva di un agronomo-faro in questo settore come Ruggero Mazzilli, e il ricorso a un enologo di spessore come Enrico Paternoster. Siamo dunque in Chianti Classico, comune di Castelnuovo Berardenga, versante UGA “Vagliagli”: 46 ettari in tutto, accorpati, di cui 15 di vigneto, in stragrande maggioranza Sangiovese (“ne abbiamo messo 28 cloni diversi”, spiega Daniele) e un po’ di Cabernet Sauvignon, piantati su suoli di macigno, alberese e porzioni di galestro, dove la quota elevata (500 metri slm) tende a stemperare il tipico calore di certi versanti meridionali dell’area.


E’ in occasione di una bella verticale dei Chianti Classico e dei Chianti Classico Riserva aziendali che mi sono imbattuto in questo sontuoso 2009, che include un 5% di Cabernet Sauvignon. Presentatosi con un bel rubino caldo e l’unghia leggermente aranciata, al naso è penetrante, quasi pungente, con un marcato residuo di frutto, freschezza e screziatura che lo rendono perfettamente pimpante, ma non senza una composta soavità.


In bocca è sapido, ricco e ampio, molto diretto, niente affatto evoluto ed evocatore invece di uno certo stile un po’ antico, familiare, riconoscibile e rassicurante, che emerge soprattutto dai tannini gentilissimi, frutto di legni azzeccati. Quello che, in definitiva, si potrebbe chiamare i perfetto “fatto concludente” in grado di ridare senso e vigore ad una vicenda dove prevale la story e il telling è ai minimi termini.

Terre Margaritelli - Greco di Renabianca 2020


di Stefano Tesi

Il bello delle degustazioni davanti a banchi molto affollati è che puoi assaggiare rapidamente, approfondendo solo se trovi qualcosa di interessante.


Mi è successo davanti a questo Grechetto fermentato in barriques, di bella struttura ma nient’affatto invadente, anzi sapido, cangiante, sfaccettato.

Fattoria Varramista - Toscana IGT "Varramista" 2018


di Stefano Tesi

Non è la prima volta che su questa rubrica io e gli altri IGP ci occupiamo di Varramista, storica fattoria (già Piaggio-Agnelli) di Montopoli Valdarno, sulle Colline Pisane. Dove il vino-bandiera è fin dal 1989 curato e “cullato”, come ebbi a scrivere anni orsono, da Federico Staderini: il Varramista Igt Toscana Rosso, dal 2003 Syrah 100%. 


Il motivo per il quale quest’azienda mi è così cara è duplice. Primo, perché trovo che faccia vini eccellenti, mai banali. Secondo, perché in un enomondo sempre più chiassoso e drogato dall’apparenza come quello di oggi, la sobrietà e l’understatement che la contraddistinguono sono a mio parere un valore aggiunto da apprezzare. Così giorni fa a Cortona, quando in occasione dell’anteprima Sarà Syrah mi sono trovato in lista tra i vini non cortonesi il Varramista 2017, l’ho subito assaggiato volentieri e l’ho trovato tra i migliori del lotto.
Non mi aspettavo però che a cena la funambolica direttrice commerciale Francesca Frediani tirasse fuori dal borsone (un cilindro, viste le dimensioni, non sarebbe bastato) addirittura una magnum del 2018 e, con occhio giustamente scintillante, ce la servisse.

L'azienda vista dall'alto

Allora di colpo ho ricollegato le sinapsi e mi sono ricordato di averla già assaggiata nel 2021 quella bottiglia, quando, al termine di una memorabile verticale 1995-2019, così annotavo: “la magnum esalta la ruvida gioventù e la spigolosità del raspo”. Staderini invece aveva chiosato così: “In questo lavoro ci vuole umiltà e consapevolezza, bisogna fare un passo alla volta, con l’auspicio di ritrovarci nel 2041 per riassaggiare la 2018 e vedere quanto i raspi abbiano favorito l’evoluzione del vino”. Oggi al 2041 mancano 17 anni e l’attesa è un po’ lunga, ma il vino mantiene già alcune delle promesse fatte allora ed esprime anzi l’esuberanza di chi, alle soglie della maturità, ha una personalità già formata ma mantiene il sangue caliente di chi di strada deve farne ancora tanta.


Tradotto vuol dire un colore netto e denso, quasi cupo, un naso profondissimo ed elegante, di una varietalità composta, in qualche modo aristocratica, venato di spezie e fiori da balcone, pulito e asciutto, perfino imperioso nella sua alterigia. In bocca ha l’anima di un cavallo di razza che ha appena smesso il galoppo e si sta lanciando al trotto con passo ampio, di potente coordinazione, vigoroso e sicuro, fiero e nevrile. Una sontuosità che senza dubbio trae giovamento anche dal formato, capace di esaltare le prospettive e di rendere godibile il presente.
Prodotto in edizione limitata di 288 bottiglie, scopro sul sito aziendale si compra a 160 euro. Investimento garantito nel tempo.

Bar Liquid Experience, i fratelli Simeone lanciano il loro progetto di Cucina Liquida!


Bar Liquid Experience è un’attività nel settore Beverage a 360 gradi il cui progetto è portato avanti da due fratelli Alessandro e Sabrina Simeone: Alessandro, Barmanager con esperienza all’estero e in Italia, con un background di cocktail bar rinomati, hotel di lusso e contesti da stella Michelin, mentre Sabrina esperta sommelier e consulente per diverse cantine laziali.


Cosa fanno esattamente? Semplice, sono un
 Bar Catering, ma altresì si occupano anche di Consulenze, Eventi, Formazione e molto altro. Che si tratti di un matrimonio, un evento aziendale o privato, oppure di un evento in un ristorante o cocktail bar, l’obiettivo di questa realtà é quella di personalizzare la proposta drink sulle basi dei gusti e delle esigenze del cliente o del contesto, per far vivere attraverso i nostri servizi un esperienza unica e indimenticabile.


Utilizzano ingredienti freschi e di stagione per le nostre preparazioni homemade, valorizzando così la materia prima e il suo stesso riciclo (zero waste), rispettando i principi di ecosostenibilità; così come i nostri banconi cocktail artigianali realizzati a mano con materiale di recupero, che fanno da cornice in qualsiasi tipologia di location. La vera identità di Bar Liquid Experience é quella di abbracciare il mondo della cucina attraverso il bar, due realtà in perfetta simbiosi che insieme possono regalare sensazioni ed un’esperienza unica nel suo genere.


Proprio per questo nasce CUCINA LIQUIDA: un format di abbinamento cocktail, vino & food (PAIRING), che vuole avvicinare le persone ad una nuova frontiera del gusto, a breve anche attraverso dei corsi di formazione presso la Flair Project di Roma. Non mancheranno anche corsi di avvicinamento al vino, sostenendo collaborazioni con piccoli produttori per dare importanza ai vitigni autoctoni della nostra regione, inoltre con l’arrivo della bella stagione organizzeremo anche degustazioni e pranzi in vigna con diverse cantine per vivere appieno un’esperienza sensoriale a contatto con la natura.


Il loro ultimo evento di “Cucina Liquida”, a cui ho partecipato, si é tenuto presso il ristorante NuAN, capitanato dagli chef Elvio Ferrelli & Luana Lesce, entrambi con un background in contesti stellati. Il ristorante non ha un menu fisso, bensì varia in base alla stagionalità e alla reperibilità dei prodotti sempre freschi e di ottima qualità, selezionando così la materia prima rispettando le sue proprietà.
In questa occasione hanno realizzato un menù di pesce, facendo un costante utilizzo di erbe aromatiche, così come nei vini e nei cocktail scelti per l’abbinamento, dove erbe e spezie hanno fatto da padroni, dando vita ad una miscelazione mediterranea e diventando così essi stessi l’ ultimo ingrediente che andava a completare il piatto.

Alessandro, al centro, e Sabrina a dx

Visitate il loro sito web: wwww.barliquidexperience.com e la loro pagina Instagram: @barliquidexperience per restare aggiornati su nuovi eventi e progetti legati al mondo del cocktail bar e del vino.

InvecchiatIGP: Gaja - Alteni di Brassica 2007


di Luciano Pignataro

Prima di encomiare la perfezione assoluta di questo bianco di Angelo Gaja devo raccontare le circostanze in cui l’ho bevuto. Ebbene si, non in uno stellato, non in una enoteca e neanche a casa di un collezionista: mi è stato servito in una pizzeria, precisamente l’Enopizzeria Via Toledo a Vienna di Francesco Calò.
L’ennesimo segnale di una rivoluzione in atto sotto il naso degli stanchi e routinier uffici stampa del mondo del vino che non hanno ancora capito che non solo nelle pizzerie è in atto una forte tendenza al recupero del vino, ma anche dei vini importanti, importantissimi. Basta fare un salto a Confine a Milano, oppure da Allegrio a Roma o da Vitagliano a Napoli per rendersene conto.
Così, per scherzo, chiedo un vino bianco invecchiato che sono da sempre la mia passione, qualcosa che in Italia, anche qui, è assolutamente sottovalutata dalla stragrande maggioranza dei produttori concentrati a fare il rosso più buono del mondo con un panorama ampelografico di uve a bacca bianca da far invidia.


Ed eccoci allora al bianco di Angelo Gaja, devo dire che mi diverte parlare di un vino bianco di un produttore rossista di una regione rossista nella percezione generale delle persone. Alteni di Brassica si chiama così dall’unione delle parole alteni, i piccoli muretti di pietra che delimitavano i frutteti a Barbaresco e brassica, fiore dal colore giallo brillante che fiorisce nei vigneti. Nel dare il nome ai propri vini Angelo è sempre stato un genio. Non solo in questo, ovviamente.
Parliamo di uno dei primi Sauvignon italiani, piantato nel 1983 in epoca pre-metanolo (ricordiamo che è il 1986 l’anno della tragedia). Una etichetta che si produce ancora oggi, sempre con la stessa uva in purezza.


Il vino si è presentato subito in grande spolvero a cominciare dal colore, uno spudorato giallo paglierino ancora vivo e brillante. Non è stato neanche necessario ossigenare il vino più di tanto grazie al suo perfetto stato di conservazione. Il naso ampio e complesso aveva sviluppato note piacevoli di agrume (cedro) ancora mela, della famosa pipì di gatto che fa ridere gli studenti alle prime lezioni da sommelier neanche una traccia. L’asso nella manica olfattivo sono state le note di affumicato e di idrocarburi che il vino ha sviluppato tutti questi anni in bottiglia. Ma è al palato che lo scatto è stato impressionante: non avrei mai detto che si trattasse di ben 17 anni anche perché ingannato dalla vista. 


Una clamorosa freschezza balsamica, tanta sostanza e una chiusura infinita, lunghissima, pulita e precisa. È un vero peccato non avere le parole adatte per descrivere precisamente le sensazioni, posso solo parlarvi dello stato di benessere che mi ha abbracciato e disteso sin dal primo sorso. Una bottiglia che ha accompagnato alla grande le pizze in assaggio, comprese quelle più ricche oltre naturalmente alle classiche.
La conferma che con i vitigni bianchi, autoctoni o internazionali poco importa si potrebbe fare un grandissimo lavoro alla pari di zone più famose, proprio come è stato fatto con i vini rossi. Non so se mai vedremo anche questa rivoluzione, nel frattempo li prendiamo, li conserviamo e li beviamo con le persone che ne capiscono.

Orlando Obrigo - Barbaresco Riserva "Rongalio " 2016


di Luciano Pignataro

Fuori piove, piove. E io mi faccio coinvolgere dalla finezza di questo Barberesco di una azienda storica, da uve della Menzione Meruzzano, da vigne di 40 anni, affinato 24 mesi in botti grandi. 


Solo nelle migliori annate e, come tutti sanno, la 2016 lo fu: viva, giovanile, finale preciso e lunghissimo.

Villa Agreste ad Ostuni, dove Enzo Iaia coccola i vitigni autoctoni pugliesi


di Luciano Pignataro

Tra Ostuni e l’Adriatico c’è la contrada Conca d’Oro. Villa Agreste è il riferimento di questo territorio segnato dalla presenza di centinaia di ulivi millenari, veri e propri monumenti vegetali che da soli valgono il viaggio e da cui si ricava olio spettacolare. Il proprietario, Enzo Iaia, commercialista, appassionato di cavalli con i quali potete anche scorrazzare in libertà, ha fatto le cose perbene senza lesinare nulla e creando un progetto coerente, culturale e colturale in cui la complessa semplicità della natura è la protagonista. A parte gli ambienti dedicati all’ospitalità, curati nei minimi dettagli, con tanto di piscina e palestra, il nucleo centrale è costituito dalla cantina dove si è recuperato un vecchio frantoio secolare che ha un valore didattico perché si capisce come abbiamo prodotto olio per millenni prima dell’introduzione delle nuove tecnologie in acciaio. C’è poi una bella e suggestiva sala eventi e una sala per le degustazioni dei vini, l’ultimo progetto che ha preso forma in collaborazione con l’enologo Simone Santoro.

Enzo Iaia - Credit: Citynews

Ed è proprio il progetto vino che ha candidato questa bella struttura a soli cinque chilometri dal mare in questa sciagurata rubrica gestita con passione. Perché passione chiama passione e in questo caso, parlo di Villa Agreste, diventa l’ingrediente fondamentale per fare le cose che durano. C’è, oltre alla passione, l’orgoglio per la propria terra, il proprio campanile, croce e delizia della nostra Italia, che per gli appassionati di vino e di agricoltura: Enzo Iaia ha voluto resuscitare la Doc Ostuni, una delle tante denominazioni rantolanti sparse qua e là, e il grafico lo ha seguito stilizzando Sant’Oronzo, protettore delle città bianca, sulle bottiglie.
Ma c’è ancora di più, molto di più. In una regione dominata dal tridente Primitivo, Nero di Troia e Negroamaro, ancora abbastanza confusa sul bianco nonostante l’eccezionale prova del bombino spumantizzato con metodo classico a San Severo, da più realtà vinicole, e l’evoluzione del Minutolo in Valle d’Itria, ecco una azienda che punta decisa sui vitigni autoctoni dimenticati, non ancora conosciuti dal grande pubblico, una scelta realizzata su cinque ettari di coerenza e che regala un senso compiuto a questo agriturismo dove produzione e ospitalità si incrociano.


Si dice che il turismo banalizza l’offerta, in questo caso è il contrario. Qui troviamo le uve a bacca rossa ottavianello, susumaniello, notardomenico e quelle a bacca bianca francavidda (al Sud spesso la elle diventa d direttamente dal latino), impigno e anche minutolo. E da queste uve vengono prodotti vini sinceri, amicali, non costruiti per sembrare altro, ma per capire il comportamento e l’evoluzione delle uve nel bicchiere. Si tratta di uve antiche, sopravvissute nella memoria dei contadini, in parte citate dal nobile piemontese appassionato di agricoltura Giuseppe di Rovasenda nel suo “Saggio di Ampelografia Nazionale” del 1877. Vitigni a cui bisogna costruire un percorso moderno rispettando le caratteristiche.
Ora in questo caso l’errore da evitare, perfettamente ripetuto negli anni ’90 in Italia e di cui ci si è per fortuna liberati progressivamente, è trattare le uve autoctone con protocolli sperimentati in altre uve già studiate e verificate.
Ecco, la butto lì, forse in questo caso l’approccio “naturale” può essere maggiormente d’aiuto nell’approccio perché non impone un cammino ma cerca di seguire il corso del vitigno, fermo restando l’assunto che è sempre la mano dell’uomo ad essere decisiva.


La varietà colturale ha origine anche nella diversità del suolo che cambia radicalmente a poche decine di metri, più in basso quello limoso, argilloso e fertile dove sono allevati i vitigni a bacca rossa mentre i bianchi sono un po’ più sopra su terreno di natura calcarea e ghiaiosa. Ma godiamoci gli assaggi

Botto 2022 Spumante Brut Salento igt

Ottenuto da uve impigno e francavidda (25%) realizzato con metodo charmat. Una vera sorpresa: sapido, minerale, freschissimo, teso, dissetante. Da bere direttamente dal collo della bottiglia abbinando alla Mozzarella di Gioia del Colle.


Morellina 2022

L’ultimo nato a Villa Agreste, parliamo dello scorso ottobre, ottenuto da ottavianello vinificato in bianco. Voglia di sperimentate e percorrere strade nuove. Vinificato in acciaio e poi elevato in bottiglia, è un bianco di carattere, dal naso timido ma dal palato di carattere, da spendere anche su piatti strutturati.


26 Agosto 2022

Un rosato che nasce nel 2020 e porta il nome del giorno in cui si celebra Sant’Oronzo a Ostuni. La particolarità è nell’aver ripreso il costume antico dei contadini di ottenere il rosato unendo bianco e rosso. In questo caso ci troviamo, appunto, impigno, francavidda, minutolo, ottavianello, susumaniello e notardomenico. Setoso al palato, fresco, lunghissimo.


Ottavianello 2021 Ostuni doc

Integrato con una piccola percentuale di uve susumaniello e notardomenico. Ci colpisce la modernità della interpretazione di questo rosso, lontano dalla voglia di fare il classico vinone, è bevibile, dai tannini risolti, fine ma di gran carattere.


Conclusione

Il pregio di questa chicca d’amore è quello di essere stata pensata in una regione dai numeri enormi, la seconda d’Italia dopo il Veneto. Sarebbe un esempio virtuoso da seguire in Vulture in Irpinia e in certe zone della Calabria dove piccole aziende si ostinano a presentare la stessa proposta delle cantine più grandi. A parte queste considerazioni, il mio consiglio è prenotarvi una bella vacanza qui e bere una Puglia come non l’avete mai bevuta, interessante e divertente. Non saranno certo i vini più buoni del mondo, ma li ricorderete con simpatia e nostalgia quando saranno terminati.

Ps: grazie al patron Enzo Saia e alla sommelier Ilaria Oliva, brand ambassador di Villa Agreste per il tempo trascorso insieme, purtroppo troppo poco, e complimenti alla mamma di Ilaria, grandissima cuoca!

InvecchiatIGP: Petrolo - Vino da Tavola di Toscana Torrione 1994


di Carlo Macchi

Petrolo si trova ai confini sud-est del Chianti Classico e questo “confine” lo si può percepire meglio salendo sulla Torre di Galatrona e guardando verso ovest, dove austere e ripide colline bloccano adesso lo sguardo e nei secoli passati il passo a che voleva addentrarsi in quel territorio, allora per niente ospitale.


Luca Sanjust, figlio della indimenticabile Lucia, mi ha accolto in azienda per un revival all’insegna di Giulio Gambelli, di cui sto curando una nuova e molto più completa edizione della sua biografia e che da queste parti ha dato il suo imprinting a diversi vini, primo fra tutti il Torrione, un Supertuscan che per me ha sempre rappresentato una delle massime vette del sangiovese toscano. Ma Petrolo è anche famosa per il Galatrona, un merlot la cui vigna mi assicura Luca, volle far piantare proprio Gambelli.


Ma veniamo al Torrione, prima annata nel 1988 e allora sangiovese praticamente in purezza (forse ci “cascava” una barrique di merlot): oggi invece il merlot è arrivato a più del 15% e il cabernet sauvignon al 5%. Il Torrione nasceva in una vecchia vigna di sangiovese piantata addirittura nel 1952 e da qualche anno espiantata e ripiantata, sempre a sangiovese, ma che in buona parte va a finire nel Boggina, oggi il cru aziendale di sangiovese in purezza.


Ma il 1994 che Luca mi ha stappato è nato nella vecchia vigna e non vi nascondo che un po’ di emozione, nell’assaggiarlo, l’ho avuta. In primo luogo, perché mi ha riportato a bellissimi momenti trascorsi con Giulio e Lucia SanJust e poi perché ero di fronte a un vino di 30 anni, che dal punto di vista enologico sono un’eternità. Però, se ho imparato una cosa da Giulio, è che i suoi vini invecchiano, anzi maturano, molto lentamente. Il Torrione 1994 è stato figlio di un’annata difficilissima, all’interno del periodo 1991-1995 che ho definito più volte “della piccola glaciazione”, anni in cui pioggia e freddo non sono mai mancati, creando allora vini magari ruvidi e difficili ma, se assaggiati oggi, ancor giovani e dinamici. Il vino fermentava in vasche di cemento e poi affinava in barrique, molte delle quali usate.


L’abbiamo aperto e assaggiato quasi subito, anche se sapevamo che lasciandolo all’aria per qualche ora sarebbe sicuramente migliorato.
Anche così però il vino si è dimostrato ben presente a se stesso: colore ancora rubino con unghia leggermente aranciata e naso dove accanto a sentori balsamici schizzano fuori note fruttate lo stanno a dimostrare. Se proprio vogliamo essere pignoli la scelta dei legni usati non l’ha avvantaggiato, ma adesso queste note un po’ più cupe gli conferiscono solo carattere e complessità.
In bocca ha sapidità e ancora bella potenza, accompagnata da un tannino ruvido, figlio dei tempi e del tempo meteorologico. L’acidità è ben presente e affianca il tannino in una dimostrazione di giovinezza e austera eleganza. In bocca è molto lungo ma soprattutto ha grande equilibrio. Non solo non dimostra trent’ anni ma sono convinto che potrà andare avanti benissimo come minimo per altri dieci.

Un pezzettino della bella storia enoica scritta da Giulio Gambelli

Podere Casanova - Rosso di Montepulciano DOC 2019


di Carlo Macchi

Questo Rosso di Montepulciano 2019 in commercio da poco, dimostra freschezza e piacevolezza innate ma soprattutto una giovinezza che sorprende.


Il tannino è soffice e l’acidità è ben bilanciata. Sangiovese in purezza di bella finezza ha un solo difetto: se aperto finisce alla svelta. 13 euro in cantina.

18 Chianti Classico dell’ UGA San Donato in Poggio : logiche diversità e buona qualità in un territorio ancora da scoprire


di Carlo Macchi

Sostengo da sempre che uno dei principali pregi delle 11 Unità Geografiche Aggiuntive (UGA) del Chianti Classico sia stato quello di aver stimolato i produttori ad unirsi, conoscersi meglio, apprezzarsi e presentarsi come gruppo.
La riprova è stata la degustazione che nei giorni scorsi si è svolta all’Enoteca Innocenti a Poggibonsi, con i 18 produttori (e altrettanti vini) dell’UGA San Donato in Poggio.

Foto di gruppo

Se oggi si pensa al territorio del Chianti Classico le prime immagini che vengono in mente all’appassionato sono quasi sempre quelle delle vigne che fanno corona a Radda in Chianti, o la Conca d’Oro di Panzano o magari lo skyline di Castellina in Chianti. San Donato in Poggio (con una parte non secondaria del comune di Poggibonsi) è sicuramente un territorio meno conosciuto ai più e quindi cercherò di presentarvelo forte di una frequentazione di più di 65 anni, quelli della mia vita.


La caratteristica principale di questa UGA è l’esaltazione della grande diversità chiantigiana: diversità di terreni, di altitudini, di esposizioni, di clima, di tipologie di bosco e quindi, di conseguenza, anche di vini.


Ammetto che anche nelle altre UGA il bosco è sempre preponderante sul vigneto e sul seminativo, ma una bella fetta boschiva dell’UGA di San Donato in Poggio ha composizione diversa rispetto alle altre zone (per esempio per la presenza del cipresso, di moltissimo leccio, mentre invece sono in minoranza querce e castagni) e questo perché anche il terreno è diverso e in molte zone mostra dei pH piuttosto bassi, che da una parte porta a vini molto serbevoli anche senza grandi acidità, ma d’altro canto li rende meno pronti da giovani rispetto ad altri territori.
Comunque, per capire quanto poca vigna ci sia rispetto al bosco basta dare un’occhiata alla cartina, qua sotto, che parla da sola.


Non siamo certo si fronte ad un UGA “di montagna”, dato che si va dai 200 metri ai quasi 450, ma, come detto sopra, il terreno permette di ottenere dei sangiovese con ottima tenuta nel tempo. Altra cosa importante sono le esposizioni dei vigneti, che visto l’andamento fortemente movimentato delle colline non hanno permesso sempre la classica esposizione sud/sud-est e questo porta oggi, con il cambio climatico, ad un indubbio vantaggio.


I vini degustati erano 16 della 2021 e due dell’annata 2020 e, a parte l’ultimo (una gran Selezione) erano tutti Chianti Classico d’annata.
Non è questa la sede per fare delle schede organolettiche vino per vino ma, da persona che conosce bene questo territorio perché ci vive, posso dirvi che praticamente tutti i vini erano rappresentazioni fedeli del loro microcosmo e microclima: per esempio quelli con le vigne più in alto avevano acidità più spiccata, quelli con le vigne più in basso mostravano maggiore rotondità e ampiezza. Inoltre, l’annata 2021, per me non certo esplosiva sul versante della potenza, è stata ben rappresentata con vini equilibrati e freschi, dai tannini quasi sempre levigati. Interessanti alcune scelte, come quella di non usare legno in affinamento, che hanno portato a vini dai notevoli profumi floreali, e comunque in generale i legni sono stati usati con la giusta parsimonia. La qualità media è alta e se proprio devo dire qualcosa di più specifico posso affermare, da buon campanilista, che i vini di aziende nel comune di Poggibonsi non hanno per niente sfigurato all’interno del gruppo, anzi.


All’inizio ho parlato di diversità tra i vini, che non parrebbe un bel viatico per un territorio che cerca di farsi conoscere in maniera unitaria, ma io credo che le grandi diversità pedologiche e territoriali a cui accennavo prima non potevano che portare a vini con caratteristiche diverse e quasi sempre non per la voglia del produttore di emergere ma proprio perché rispettose del vigneto. Anche chi ha uve internazionali nel blend ha mostrato vini molto chiantigiani, sia al naso che nella struttura di bocca. A questo punto devo affrontare un tema importante: la menzione UGA, per adesso, può essere riportata solo dai vini Gran Selezione ma se c’è una certezza in questa storica DOCG è che il vino realmente di territorio è il Chianti Classico annata, quello che rappresenta le sue storiche diversità, la sua vera anima.


Per questo da una parte spero che prima possibile l’UGA possa essere estesa a questa tipologia e dall’altro faccio i complimenti ai produttori di san Donato, che si sono presentati con questa tipologia.

I Chianti Classico erano delle aziende (in ordine alfabetico):

Badia a Passignano

Casa Emma

Casa Sola

Castello della Paneretta

Castello Monsanto

Cinciano

Fattoria Cerbaia

Fattoria La Ripa

Fattoria Montecchio

Fattoria Ormanni

Il Poggiolino

Isole e Olena

Le Filigare

Le Masse

Podere la Cappella

Poggio al Sole

Quercia al Poggio

Torcilacqua