InvecchiatIGP: Col Vetoraz - Valdobbiadene Brut DOCG 2010


di Stefano Tesi

Le bollicine disperse in qualche angolo della cantina sono un classico per chiunque si diletti in cose di vino. E ogni volta che si ritrova qualche “giacimento”, la reazione è sempre la stessa. Duplice. La prima è: “accidenti, non mi ricordavo per niente di questa bottiglia, come è finita qui? Sennò l’avrei bevuta prima”. La seconda, invece, è più drastica: “sarà ancora buona?”.


Domanda che implica un’ulteriore variabile dettata dalla teorica longevità del vino, nel senso che tanto più si considera lo spumante in parola nato per essere consumato presto e tanto minore è di norma la speranza (e quindi maggiore il pregiudizio) che possa essersi mantenuto bene.

Ovviamente, non resta che provare.

Quando ho rimosso la capsula e la gabbia di questo Col Vetoraz Valdobbiadene Brut DOCG 2010 (fatto in autoclave, con 8% di residuo zuccherino) e ho messo mano al tappo, qualche timore in effetti l’ho avuto: diciamo che appariva piuttosto stagionato, con tutte le potenziali conseguenze.


Versato nel bicchiere, il vino si è presentato però di un bell’oro intenso, carico e brillante, con spuma cremosa e perlage lento, finissimo.

Ero curiosissimo di provare le sensazioni olfattive.

Le attese note di mela, frutti bianchi e agrumi hanno lasciato il posto a una lenta sequenza di miele di acacia, toffees e datteri immersa in una diffusa atmosfera di incenso, di cera e – per chi ha presenti certi ambienti – di sacrestia.


In bocca la briosità è fatalmente perduta, ma emerge un’eleganza composta e saggia, lunga, piacevole nei suoi echi di frutta secca e mandorle, appena sapidi, che mi hanno fatto accompagnare il vino a tutta la cena e alla conversazione successiva. 
Il che non è poco. Quasi quasi torno in cantina a vedere se ne avessi dimenticata un’altra bottiglia.

Casale dello Sparviero - Chianti Classico DOCG 2019


di Stefano Tesi

In quest’afoso luglio, se bevuto appena più fresco si fa dissetante e mantiene tutta la sua invitante fragranza, senza perdere nulla dell’agile robustezza. 


Scaldandosi un po’ la mammola si arrotonda, l’alcool emerge e il sorso si arricchisce, ma con la bella naturalezza del compagno ideale per il tonno del Chianti che ho nel piatto.

A Volterra, alla scoperta dei vini di Monterosola!


di Stefano Tesi

Chi fa questo mestiere non deve mai fermarsi alle apparenze, anche se a volte queste sembrano messe lì per non farti guardare oltre. Non è certamente il caso di Monterosola, l’azienda volterrana che sono riuscito a visitare qualche settimana fa dopo infiniti tira e molla pandemici.


Sebbene anche qui, a fianco del vino, di cose da osservare ce ne siano molte: da un’architettura imponente che non tutti apprezzano (ma costruita interamente con una pietra rara, il panchino di Pignano, un materiale antico a km zero) a una cantina gravitazionale, operativa dalla vendemmia 2018 e realizzata per intero all’interno di un’intercapedine d’aria con pompe di calore che servono l’intera struttura, da almeno un paio di scorci cartolineschi (siamo a 440 metri s.l.m. e nei giorni fortunati si vedono i monti della Corsica innevati) alle famose installazioni di Mauro Staccioli da toccare praticamente con mano.


Gli occhi del cronista invece, prima di dedicarsi agli assaggi, sono caduti su due dettagli senza dubbio meno glamour, ma assai importanti: l’interessante esperimento, condotto con le università di Pisa e di Bologna, della semina sotto i filari del trifoglio sotterraneo permanente per l’inerbimento (tutti i 125 ettari dell’azienda, dei quali 23 a vigneto, sono certificati biologici fino all’imbottigliamento, ma in etichetta il bollino non è ancora rivendicato) e 4 ettari di oliveto che, oltre alle classiche varietà Frantoio, Leccino e Pendolino, comprende anche il Lazzero della Guadalupe, una rara cultivar locale salvata dall’estinzione.


Da quando, nel 2013, Monterosola è stata acquisita dalla famiglia Thomaeus (industriali svedesi di origine scozzese, ndr) – dice il general manager Michele Senesi, che mette nel racconto anche il coinvolgimento di chi è nato e vive a pochi km da qui – sono cambiate molte cose rispetto alle origini. Dal 2015, in particolare, quando fu decisa la costruzione della nuova cantina e un progressivo cambio stilistico dei vini che, sotto la guida di Alberto Antonini, nostro enologo fin dal 2008, ha visto ovviamente una decisa svolta tre anni fa, con l’entrata in funzione della nuova cantina”.


Cambio che è molto evidente nei bianchi, aggiungiamo noi, ed è ancora in divenire nei rossi, alcuni dei quali risentono della passata impostazione e della vecchia cantina. 
Ecco perché, ad esempio, ci ha convinto il Per Terras 2018, un Toscana IGT, 100% Cabernet Franc da vigne nuove fatto in botte grande: nella sua evidente gioventù ha un tratto varietale molto marcato, esuberante sì ma niente affatto invasivo ed anche in bocca ha una levità quasi croccante che, tutt’altro che banale, lo rende viceversa sciolto e sapido.


Bene anche l’Indomito 2016, Toscana IGT al 75% di Syrah e al 25% di Cabernet Sauvignon, vino molto centrato e compatto, elegante e piacevole al naso, con una bocca opulenta, goduriosa, importante ma non – fondamentale! - noiosa nè prevedibile.


Ci sono piaciuti un po’ meno, per la mera questione stilistica legata all’uso massiccio del legno, il Corpo Notte 2016, Toscana IGT al 70% di Sangiovese e al 30% di Cabernet Sauvignon, e il Canto della Civetta, Toscana IGT Merlot al 100%.


Merita invece di essere atteso il Crescendo 2016, Toscana IGT al 100% Sangiovese che, sebbene per impostazione e struttura ricalchi e forse perfino superi i due precedenti, ha le qualità per ingentilirsi e mettere a freno certi eccessi.

Decisamente più agili i bianchi.

Il Cassero 2019, IGT Toscana al 100% di Vermentino, ha un bel naso pulito e varietale, a tratti quasi pungente, mentre in bocca è salato, molto netto, solido e piacevole.


Più evoluto e complesso il Per Mare 2018, Toscana IGT al 100% Viognier: un oro limpidissimo e brillante per un naso delicato, appena metallico, accenni di pietra focaia e olio minerale, mentre in bocca ha un lungo finale amarognolo.


Sullo stesso livello si colloca il Primo Passo 2018, Toscana IGT al 40% Grechetto, al 40% Incrocio Manzoni e al 20% Viognier, con un naso elegante e asciutto ma discretamente fruttato, mentre al sorso rivela grande lunghezza, bella acidità e una sapidità che sconfina nell’amarognolo.


Chi passa da Volterra ci faccia un pensierino: si può fermarsi, degustare, visitare ed acquistare direttamente.

InvecchiatIGP: Tenuta San Francesco - Costa d'Amalfi Bianco DOC "Per Eva" 2011


di Luciano Pignataro

Questo bianco nasce a Tramonti, l'unico comune della Costa d'Amalfi che non ha sbocco al mare ma che costituisce il retroterra agricolo ricco di biodiversità di questo meraviglioso territorio. Non è famoso come il Fiorduva di Marisa Cuomo ma tra gli appassionati è ben conosciuto per la sua finezza e la sua eleganza. 


Dobbiamo dire che le caratteristiche 
di questo areale, anzi, le condizioni pedoclimatiche, complessivamente parlando, sono molto favorevoli alle uve bianche. In primo luogo lo strato più superficiale è stato "irrorato" dalle eruzioni del Vesuvio, alcune delle quali hanno anche seppellito le antiche ville dei Romani in questo lembo di costa. Una condizione che ha salvato centinaia di ceppi a piede franco. In secondo luogo è una viticultura del freddo e di alta quota, parliamo di circa 500 metri di altezza, anche 600 in questo caso, perchè la Vigna dei Preti
dove si allevano la falanghina, la pepella e la ginestra che compongono il vino è uno dei punti più alti della Costiera, un tratto battuto dai venti di mare e di terra che mantengono puliti i grappoli. Fatte queste premesse, aggiungiamo che si tratta di una vinificazione semplice, in acciaio, con breve sosta sulle fecce, da una selezione dei migliori grappoli. 


Ed è così che il Per Eva rivela una grande energia da giovane, ma con il tempo, in questo caso dieci anni, si rappresenta con
una maturità profonda al naso e al palato ed una grande complessità in grado di competere con qualsiasi altro vino bianco di questa età.


Frutta, note fumè e di idrocarburi all'olfatto, grande spinta fresca, ricca di energia, al palato. Il sorso è lungo, piacevole, è un vino che potrebbe entrare come pirata in qualsiasi batteria facendo bella figura. La 2011, ricorderete, è stata annata molto calda a partire da Ferragosto, quando l'estate sinora fresca è divenuta torrida per altri 30 giorni. questo caldo ha fatto benissimo alla maturazione di zone fredde come la frazione Ponte dove si trova Vigna dei Preti. 


In conclusione: invitiamo severamente gli appassionati a conservare le bottiglie di "Per Eva" e a iniziarle a stappare non prima dei sei, sette anni di vita come testimoniano ripetute esperienze sul campo.

Lungarotti - Torgiano Rosso DOC "Rubesco" 2010


di Luciano Pignataro

Una vecchia magnum sepolta da altre ha bussato nella porta della mia memoria per farsi bere. 


Sangiovese e un po' di Colorino, fermentazione
in acciaio, poi un anno di legno e uno di bottiglia. Così il vino bandiera di Lungarotti ha riscaldato un bel pranzo di famiglia: fresco ed efficace sul cibo.

La Masserie - Sensus Pallagrello 2008


di Luciano Pignataro

Quanto vive il Pallagrello Nero? Beh, almeno quanto l’Aglianico, sebbene abbiamo uno storico che non va oltre il 1998, primo anno di vinificazione dell’azienda Vestini Campagnano, quando Manuela Piancastelli, il marito Peppe Mancini e l’avvocato Amedeo Barletta iniziarono questa avventura con il supporto di Luigi Moio. 
Certo dopo i dieci anni è ancora bello pimpante, come abbiamo avuto di accertare con questa magnum del 2008 di una piccola azienda, La Masserie, adesso condotta da Sara Carusone. 


Siamo conservatori nelle bottiglie, e questa magnum era sepolta in cantina dopo una visita all’azienda di Bellona, in provincia di Caserta, fatta nel lontano 2012. Nonostante il vino avesse già quattro anni, decisi di aspettare.
Le cantine, si sa, sono un po’ come le biblioteche, soprattutto quelle di campagna dove bottiglie vanno su bottiglie non sempre con un ordine preciso. Proprio durante un repulisti generale ho pensato che fosse arrivato il momento di aprire il Sensus 2008 de La Masserie in magnum per abbinarlo ad un bel ruoto di pasta alla siciliana al forno. Il tema dell’invecchiamento è quello che più mi affascina nel mondo del vino: quando aprire una bottiglia? E’ giusto averle subito pronte o, piuttosto, il bello è capire quando l’evoluzione è allo zenith per stapparla. Solo l’esperienza ce lo può dire con chiarezza, ma nel caso del Pallagrello, appunto, non abbiamo un grande storico e si procede a tentativi. Siamo abbastanza sicuri della sua longevità per la vena acida prepotente, i tannini, l’alcol che lo hanno fatto confondere con l’aglianico per lungo tempo nonostante il grappolo piuttosto spargolo.


Rispetto all'"Aglianico", il "Pallagrello nero" presenta tutte le fasi fenologiche anticipate di circa 7 giorni. Infatti, il germogliamento avviene tra la prima e la seconda decade di aprile; la fioritura è a cavallo tra maggio e giugno; l'invaiatura cade tra l'inizio e il 20 di agosto, mentre la vendemmia va programmata per la prima decade di ottobre.


Gli studi condotti da Antonella Monaco evidenziano che il Pallagrello mostra una produttività maggiore rispetto all’Aglianico, vitigno utilizzato nella sperimentazione come varietà di riferimento. Infatti, la produzione unitaria e il peso medio del grappolo sono stati sensibilmente più elevati per il Pallagrello nero rispetto all'Aglianico (6.14 kg/pianta contro 3.34 kg/pianta per la produzione; 251,2 g. e 171 g per il peso del grappolo). Maggiore è anche il vigore vegetativo, come risulta dalla valutazione della quantità di legno di potatura invernale (1.37 kg/pianta contro 1.02 kg/pianta per il legno). Di questa uva ci sono al momento poche tracce storiche, e aspettiamo con ansia il prossimo libro di Manuela Piancastelli sul tema, sappiamo che Ferdinando d Borbone lo aveva inserito, insieme al Pallagrello Bianco, nella famosa Vigna del Ventaglio voluta dalla casa reale, sempre attenta alla viticultura e all’agricoltura, con le varietà più diffuse, ciascuna delle quali costituiva un filare. Oggi è diffusa soprattutto in provincia di Caserta, principalmente nei comuni di Alife, Alvignano, Caiazzo e Castel Campagnano dove era chiamata Coda di Volpe nera a causa della forma del grappolo.


Come speso capita in campagna, il successo è imitato e dopo quello della Vestini Campagnano, soprattutto dopo i successi di Terre del Principe fondata da Manuela Piancastelli con Peppe Mancini sempre sostenuti da Luigi Moio, molti hanno cominciato ad imbottigliarlo in purezza con buoni risultati. Si è trattato di una vera e propria piccola rivoluzione in questo territorio incontaminato che ha segnato un ulteriore passo in avanti della Campania verso la scelta di usare solo vitigni autoctoni, strategia culturale e commerciale che si è rivelata vincente a questa regione perché ha potuto surfare l’onda italiana nonostante le sue piccole dimensioni produttive.
I ritardi di organizzazione e di cooperazione fra le aziende non hanno favorito l’espandersi della fama di questa uva che resta però una chicca interessante per tutti gli appassionati proprio per le caratteristiche del vino che ne fanno un rosso rustico, di corpo, gastronomico, piacevole.


Proprio come questa vecchia magnum, in cui i tannini sono stati levigati dal tempo presentando un naso ricco di frutta ancora fresca in un cornice leggermente fumè, al palato una freschezza in buon equilibrio anche grazie al rapporto fra frutto e legno molto ben giocato.

InvecchiatIGP: Dorigati - Teroldego Rotaliano Diedri 2003


di Carlo Macchi

Il Teroldego Rotaliano è uno dei miei vini del cuore e questo di Dorigati è sempre stato tra i preferiti perché riesce a miscelare potenza con rotondità e perfetto uso del legno. Non è facile fare un Teroldego Rotaliano (scusate se insisto sul termine “Rotaliano” ma quelli fatti in altre zone, anche vicine, sono diversi) perché devi modellare e mixare la belluina presenza di antociani con l’atavica scarsità di tannini, riuscendo a portare a maturazione un vino che, anche a causa di pH quasi “arrendevoli” (3.70- 3.80) rischia di nascere piatto oppure con tannini verdi.


Le strade che ha cercato il Teroldego per farsi conoscere e riconoscere (anche se spesso non lo riconosciamo visto che purtroppo entra come taglio in tanti vini blasonati…) sono state diverse e non tutte per me hanno portato a migliorare il vino e a farne capire le reali possibilità.

Paolo Dorigati

Paolo Dorigati, anima del gruppo di giovani produttori “Teroldego Revolution” (ve ne parlerò in un prossimo articolo) mi ha stappato questo 2003, lasciandomi a naso e bocca aperta. A parte il colore che sembra non degradare mai il naso è un insieme potentissimo che in prima battuta ricorda i grandi Bordeaux del Medoc grazie a note di cassis, di paglia, di liquirizia e a raffinate note floreali e vegetali, il tutto perfettamente armonizzato dal legno. La bocca è concreta ma docile: i tannini sono perfettamente fusi, setosi ma delineati. Lunghissimo e equilibrato chiude con misurata dolcezza tannica, lasciandosi ancora del tempo per stupire.

Dr.Bürklin-Wolf - Riesling Trocken Wachenheimer Altemburg 2017


di Carlo Macchi

Il Palatinato non è certo la prima zona che viene in mente parlando di Riesling tedeschi e questa cantina, pur essendo famosissima non è certo tra le più conosciute. 


Però questo loro cru ha le carte in regola (acidità, ampiezza olfattiva, profondità gustativa) per dare soddisfazione ora e nei prossimi 20-30 anni.

Il Giardino delle Esperidi e Alla Borsa: quando la ristorazione di qualità vale il viaggio!


di Carlo Macchi

Qualche giorno fa, girando per degustazioni tra Soave, Bardolino e Custoza ho confessato a me stesso, nonostante l’età sia quella che è, di amare perdutamente due signore. Prima che parta un’irrefrenabile voglia di gossip, preciso che il mio non è solo un amore platonico ma, addirittura, gastronomico-platonico, una delle forme più tranquille e soddisfacenti per persone della mia età. Le due signore da me amate rispondono al nome di Susanna e Nadia e voglio subito chiarire che di loro amo non solo quello che propongono nei loro rispettivi locali ma, che le amo più adesso, dopo praticamente due anni di lockdown, di prima. Sapete perché? Perché nonostante la ristorazione di qualità sia stata mazzolata brutalmente le ho trovate ancor più motivate e nei loro piatti ho ammirato non solo la qualità di prima ma addirittura un qualcosa in più, un valore aggiunto che mi porta ora a dichiarare, urbi et orbi, il mio amore.

Susanna Tezzon a dx

Dai nomi passiamo ai cognomi e ai locali. Susanna è Susanna Tezzon ed è l’anima de Il Giardino delle Esperidi a Bardolino. Tra pizzerie e locali da turisti il suo ristorante è l’unico porto sicuro all’interno di questo bellissimo borgo. 
In tempi di lockdown Susanna e le sue amiche colleghe hanno deciso di utilizzare il bellissimo terrazzo sopra al locale per farne un piccolo (ma neanche tanto) orto. Dire orto è restrittivo perché oltre a molte verdure (coltivate dentro a piccole piscine di gomma colme di terra fertile) in questo piccolo eden troviamo frutti, spezie, erbe officinali e piante di fiori. È un luogo dove puoi entrare solo se Susanna vuole e per fortuna ha voluto farci il dono di servirci due piatti contornati dalle sue piante. 


Il piatto di cui voglio parlare è di una semplicità assoluta: potrei pomposamente chiamarlo “assieme vegetale di multicolori aromi e gusti miscelati con briosa maestria” ma forse è meglio se lo chiama semplicemente “insalata”. Un insieme di erbe di stagione, insalatine, fiori e frutti, che mi ha letteralmente messo ko dal piacere. Infatti, ogni piccolo boccone era un insieme di sapori e gusti diversi che cambiavano e si moltiplicavano mentre si muovevano nel palato. Era come avere in bocca un caleidoscopio del gusto di cui non potevi sapere la “prossima mossa”. Vi garantisco, una delle cose più complesse e saporite mai mangiata in vita mia ed era “solo” un’insalatina. 
La cena poi ha avuto molti altri piatti e molti vini, perché da Susanna, oltre che mangiare bene si bevono grandi vini italiani ma soprattutto esteri (Champagne in primis) proposti a prezzi irrisori, ma il resto dovrete scoprirlo da soli.


Da Bardolino a Valeggio: Valeggio vuol dire tortellino e
Alla Borsa, praticamente da sempre, si mangiano i migliori tortellini di Valeggio e probabilmente del mondo. Una specie di ombelico del mondo del tortellino che il post-covid ha reso ancor più piacevole da visitare. Alla Borsa si amano i toni soffusi sia nelle bianche ed eleganti sale interne che nella colorata “terrazza a piano terra”, d’estate preferita da molti. Nadia Pasquali, figlia d’arte (i genitori sono sempre presenti ma è lei il fulcro di tutto) propone una serie di piatti che un essere umano non può non provare, ma naturalmente il meglio del meglio è il tris di tortellini e cioè il classico di carne, il tortello di zucca e i tortelli verdi di ricotta e spinaci.

Nadia Pasquali

La prima cosa che colpisce in questo godurioso trittico è lo spessore della pasta: quasi inesistente ma concreto, saporito e giustamente cedevole al palato, esalta i gusti del ripieno e i condimenti (di solito burro, ma potete osare con il leggero ragù che vi proporranno). Anche i ripieni delle tre specialità sono gustosi giochi d’equilibrio, dove il dolce della zucca è bilanciato perfettamente, l’impasto del tortellino è soffuso ma intenso e ricotta e spinaci si rincorrono e si fondono. Qui, come dalla Susanna, si arriva ad una goduria e soddisfazione praticamente infinita. Voi direte che a far tortellini son buoni tutti e prima che Dio scenda in terra per punirvi di per punirvi di questa bestemmia vi salvo io, affermando che la base di tutto il lavoro di Nadia (lo dice lei, quindi sono sicuro) è una grande e raffinata artigianalità, che porta a produrre, giorno dopo giorno, una qualità alta e costante. 


Potrei parlare di molti altri ottimi piatti, della carta dei vini semplice ma completa, della bravura “dell’artigiana Nadia” nell’essere ovunque, presente e attenta ai desideri dei clienti, ma voglio fermarmi per non violare la “la par condicio di questo articolo” parlando di più di uno dei mie amori platonico-gastronomici, entrambi con un carattere di ferro e una voglia di continuare a stupire gli altri e loro stesse.


Due locali diversi, più a tinte forti il Giardino delle Esperidi, più puntato su tonalità pastello la Borsa. Due cucine diverse, la prima rivolta a piatti anche innovativi e particolari, l’altra figlia di una tradizione di altissimo profilo. Due donne diverse ma dotate di una forza e di una bravura da standing ovation.

Avanti, prenotate, che aspettate? Non sono geloso!

Lo Champagne Sovietico ovvero genesi e caratteristiche del Sovetskoe šampanskoye

Negli anni '30, una catastrofica carestia attraversò l'Unione Sovietica. Il caos derivante alla collettivizzazione delle terre, combinato ai cattivi raccolti dell’epoca e alle brutali politiche socio-economiche introdotte da Stalin, devastò le regioni di coltivazione del grano del Paese. 
Milioni di persone morirono di fame e i cadaveri si accumularono lungo i binari e le strade, riempiendo l'aria con l'odore aspro della decomposizione. Orde di contadini affamati vagavano per la campagne alla disperata ricerca di lavoro e di qualsiasi cosa lontanamente commestibile: pannocchie, ghiande, erba, gatti, cani e, orribilmente, anche l'un l'altro.

Credit: noi comunisti

Solo tre anni dopo, mentre le necessità di base erano ancora scarse, il Cremlino rivolse la sua attenzione ad un'altra "carenza": la mancanza di Champagne. Nel 1936, il governo sovietico, per ovviare a questo "problema", approvò una risoluzione per aumentare drasticamente la produzione di spumante locale, stabilendo un ambizioso obiettivo di produrre milioni di bottiglie negli anni seguenti. L'idea di creare un'industria di bollicine comunista - un'impresa estremamente singolare, dato il contesto - venne in mente a Joseph Stalin, nato nella Repubblica di Georgia, sede della più antica cultura vinicola del mondo. Stalin, al tempo, proclamò che lo champagne sovietico era "un importante segno di benessere, della bella vita" che il socialismo avrebbe messo a disposizione di tutti, molto lontano dalla semplice promessa di Lenin di "pane e pace".


La spinta a stappare un mare di champagne arrivò solo un anno, nel 1935, a seguito dell’abolizione delle tessere di razionamento. Nel disperato tentativo di dimostrare che l'Unione Sovietica avesse più da offrire della privazione e della persecuzione, il governo lanciò uno sforzo importante per produrre in serie e democratizzare champagne ed altri prodotti di fascia alta. "L'idea era di rendere disponibili cose come champagne, cioccolato e caviale a un prezzo piuttosto basso in modo da poter dire che il nuovo lavoratore sovietico viveva come gli aristocratici nel vecchio mondo", spiega Jukka Gronow, autrice di Caviar with Champagne: Il lusso comune e gli ideali della buona vita nella Russia di Stalin.


Ma prima che il proletariato potesse stappare queste prestigiose bottiglie, i viticoltori avevano la necessità di coltivare l’uva e produrre il vino base a basso costo. 
Come risolvere il problema? La risposta arrivò dall'enologo Anton Frolov-Bagreyev, che ovviò al più lungo e complesso metodo champenoise attraverso l’introduzione di serbatoi pressurizzati (metodo charmat) che avevano la funzione di condensare il processo di maturazione di tre anni in un mese permettendo di produrre lotti da 5.000 a 10.000 litri alla volta.

Anton Frolov-Bagreyev

Inoltre, per trasformare in realtà la scintillante retorica di Stalin, il governo sovietico, attraverso una serie di leggi, ordinò immediatamente la costruzione di nuovi vigneti, fabbriche e magazzini, nonché il reclutamento e la formazione di migliaia di nuovi lavoratori. Obiettivo ufficiale? Arrivare alle produzione di 12 milioni di bottiglie entro il 1942


Le cose, purtroppo, non andarono come Stalin sperava. Lo stato dei vigneti dell’epoca, abbandonati o distrutti a favore di altre colture, resero impossibile raggiungere gli obiettivi di produzione. "Le proiezioni non sono mai state realistiche, ma se le fabbriche non le rispettavano, le persone che ci lavoravano o le gestivano potevano essere etichettate come nemiche del popolo e cancellate", spiega Darra Goldstein, studiosa del cibo e autrice del prossimo libro di cucina Oltre il vento del nord: la Russia in ricette e tradizioni. 
Quando la cantina Abrau-Durso, sulla costa russa del Mar Nero, non fu all'altezza delle aspettative, il quotidiano sovietico Izobilie mise in dubbio la lealtà del direttore e suggerì che la cantina "fosse liberata dai nemici di classe".


La produzione di champagne sovietico, comunque, andò avanti dando evidentemente la priorità alla quantità rispetto alla qualità. I pochi vignaioli dell’epoca eliminarono dai loro vigneti acri di uve autoctone sostituendole con varietà durevoli e ad alto rendimento come aligoté e chardonnay. Grandi fabbriche centralizzate trasformavano l'uva da tutta la regione e inviavano la miscela di vino sfuso a enormi impianti di produzione che sfornavano migliaia di bottiglie all'ora usando il metodo chiamato “Frolov-Bagreyev”. Era nato lo Sovetskoye Shampanskoye, uno spumante dolce e sciropposo perché si usavano grandi quantità di zucchero per mascherare l’acidità del vino base e la sua scarsa qualità. Alla fine del decennio, lo Sovetskoye Shampanskoye era ampiamente disponibile a Mosca e in altre grandi città, offerto alla spina nei negozi. Più tardi, negli anni '50, fu venduto anche al bicchiere allo stadio Lenin. "Nonostante il gusto e il fatto che rimase troppo costoso per il consumo quotidiano, divenne un simbolo di tutte le celebrazioni sovietiche", continua Gronow. "Era la “Coca-Cola dell’Unione”, lo bevevi ed era come fare la bella vita".


Oggi, grazie anche ritorno della nostalgia sovietica nella Russia moderna, la domanda di Sovetskoye Shampanskoye è di nuovo in aumento ed ora il vino è prodotto da società private e spesso lo si può trovare all’interno dei tanti ristoranti che evocano le vecchie mense comuniste. Se passate per Mosca, e se lo trovare, fatemi sapere com’è. Io, probabilmente, una idea me la sono già fatta...

InvecchiatIGP: Antolini - Valpolicella Classico 2007


di Roberto Giuliani

Non è un Amarone, non è un Valpolicella Classico Superiore Ripasso, non è neanche un Valpolicella Classico Superiore. Quello nel calice è un “semplice” Valpolicella Classico 2007 (Classico perché le uve provengono dagli appezzamenti di Marano e Negrar), chiuso con tappo sintetico e destinato solitamente al consumo entro 2-3 anni. Probabilmente Pier Paolo e Stefano Antolini non sanno fino a che punto possa tenere un vino del genere, a meno che non abbiano avuto il pensiero di conservarne in cantina un certo numero di bottiglie per pura curiosità. Io l’ho fatto e ora posso dire che ci fa una gran bella figura, con i suoi 12,5 gradi alcolici e un uvaggio classicissimo di corvina, corvinone e rondinella, dimostrando che quando si raccolgono buone uve e non si fanno errori in cantina, le sorprese possono essere decisamente piacevoli.


Ora è ovvio che non mi trovo davanti un vino dove la freschezza di frutto può essere quella di quando è stato messo in vendita, ma a 14 anni dalla vendemmia non possiamo pretendere miracoli; eppure non solo non è morto ma quel frutto ha mantenuto integrità, non c’è ossidazione bensì una naturale maturità, evidenziata nella confettura di ciliegie e amarene, nelle sfumature di tabacco e fiori appassiti, nel timbro terroso e di sottobosco.


Al gusto conserva ancora una buona vena acida, la frutta composita è accompagnata da piacevoli espressioni speziate di pepe e cardamomo, è diventato un Valpolicella adulto, più profondo e complesso, con una dolcezza di frutto davvero piacevole. Una inattesa sorpresa.

Francesco Guccione - Vino Bianco "T"


di Roberto Giuliani

Legno grande e acciaio, 100% Trebbiano (presente in Contrada Cerasa a Monreale dal 1400) ha il potere di farsi bere tutto senza alcuna conseguenza. 


Tiglio, gelsomino, ginestra, pesca, susina, albicocca, buonissimo ma anche digeribilissimo, tanto da non essermi accorto di averlo terminato a fine pasto.

A Cervara di Roma con il Montepulciano d'Abruzzo DOC Riserva "28 Quintali" di Lampato che...pesa troppo!


di Roberto Giuliani

Ormai è sempre più frequente dovere fare i conti con estati torride, punte di caldo estreme che ti tolgono le forze e ti spingerebbero a stare chiuso in casa con l’aria condizionata a palla. Io dal lontano 2003, quando non ne posso più di sudare e squagliarmi sul pavimento, scelgo una meta “alta” non lontanissima per riprendermi da cotanto calore. Proprio pochi giorni fa, quando la temperatura indicava 37 gradi alle 11 del mattino, ho deciso con mia moglie di intraprendere quel viaggio; la meta scelta, già conosciuta ma da tempo non più visitata, era Cervara di Roma, che a dispetto della distanza è in provincia di… Roma. E già, sono ben 71,5 km partendo dalla Stazione Termini, ma da casa mia a Fiano Romano sono ancora di più, 86,3 km! Ma pur di trovare sollievo da ‘sta calura non ci abbiamo pensato due volte, Cervara è a quota 1.053 metri, è il più alto comune della provincia e il secondo del Lazio dopo Filettino, un pochino meglio si starà…

Cervara di Roma - Foto: Siviaggia.it

E in effetti, mentre alle 12,15 passeggiavamo per le stradine di questo bellissimo borgo, la temperatura era al di sotto dei 30 gradi, speravamo ancora meno, ma il venticello e un’aria decisamente più pulita hanno contribuito a non farcela percepire in peggio. Ovviamente Cervara non è solo fresco, ma è anche un bellissimo borgo collocato all’ingresso del Parco Naturale Regionale dei Monti Simbruini, la più grande area protetta della regione; così bello da essere stato ritratto da numerosi artisti nel corso dei secoli, compreso quel Samuel Morse che inventò il famoso codice.

Parco Regionale Monti Simbruini

Passeggiando tra le stradine del paese ci si trova spesso di fronte a dipinti, oltre ad ampie vedute panoramiche, certo bisogna avere una buona muscolatura perché dall’area di parcheggio ci sono da fare numerose rampe di scale e anche tra un vicolo e l’altro è frequente trovare altri gradini da fare. Poco prima di arrivare in cima dove risiede la Rocca, c’è la chiesa principale, Maria Santissima della Visitazione, dove gran parte dei 450 paesani va in preghiera.


Per pranzare si può andare al ristorante Ferrari, proprio nel centro del paese, oppure a circa 4 chilometri c’è la Locanda di Fonte Martino, che è quella che abbiamo scelto noi, anche perché volevamo stare in un ambiente immerso nel bosco. 
La scelta è stata ottima, il posto è veramente un’oasi di tranquillità, con una bella terrazza con tavoli ben distanziati e intorno tutto bosco. Fra l’altro non mi aspettavo una più che buona carta dei vini, tenendo conto che l’ambiente è quello tipico di una trattoria. 


Il proprietario ci tiene alla qualità, le materie prime sono ottime e cucinate molto bene, tra antipasti, primi e secondi ho trovato un’ottima misura, mai un piatto pesante, oleoso, ogni portata si è rivelata equilibrata e digeribile. La tagliata di manzo è uno spettacolo, alta e tenerissima, vale la pena andarci solo per questo, anche perché qui si fa tutto con la brace vera, lo dimostrano i peperoni buonissimi che abbiamo preso per contorno.


Nella scelta dei vini non potevo che orientarmi verso quelli più vicini al territorio, perché anche se siamo in provincia di Roma qui si respira aria d’Abruzzo; così, da una buona sequenza di Montepulciano ho scelto la Riserva 28 Quintali 2013 di Lampato, in edizione limitata. In breve, l’azienda nasce nel 2009 nel comune di Castellana di Pianella (PE) dalla coppia nella vita Morena Lamonaca e Tommaso Patricelli (dai loro cognomi il nome Lampato), ambedue già proprietari di una propria azienda agricola, le cui uve venivano conferite alla Cantina Tollo.


A dirla tutta Tommaso prima delle uve trattava le prugne, era uno dei principali produttori del centro Italia e serviva la grande distribuzione. Poi le cose sono cambiate, fuori e dentro, Tommaso si è trovato di fronte a un bivio e ha scelto di abbandonare il mercato ortofrutticolo e puntare alla produzione d’uva. Nel 2009, con Morena, ha finalmente fatto il salto definitivo con un’azienda nuova in grado di seguire l’intera filiera produttiva, non solo, l’impostazione è andata subito in direzione del biologico e dell’autonomia energetica, coprendo il tetto aziendale con pannelli fotovoltaici.


Il 28 Quintali è un Montepulciano d’Abruzzo Riserva, classe 2013, diciotto mesi in barrique e oltre un anno di affinamento in bottiglia. Alla Locanda l’ho pagato 35 euro (il ricarico mi sembra più che corretto), ma sul sito aziendale viene proposto a 18 euro, davvero un prezzo eccellente. Ha profumi intensi di marasca, prugna, mora di rovo, ciliegia in confettura, cacao, tabacco, liquirizia, mosto, leggera vaniglia.


Bocca con giusta freschezza e un’alcolicità importante ma ben coperta da una struttura energica, ancora qualche venatura boisé ma non disturba, c’è tanto materiale espressivo che bilancia bene anche nel lungo finale. Un ottimo vino insomma, ma con una pecca, veramente sempre meno giustificabile: la bottiglia pesa troppo! 1208 grammi sono davvero fuori misura, perché usare una bottiglia del genere? Da un’azienda che lavora in biologico e ha un occhio per l’ambiente una scelta del genere non me l’aspetto proprio! 
Cari Tommaso e Morena, non è più tempo di bottiglie pesanti per simboleggiare la grandezza di un vino, quello che conta è cosa c’è dentro e, tutt’al più si può giocare con la scelta del formato e con un’etichetta accattivante, il resto è davvero di troppo.