InvecchiatIGP: Librandi - Val di Neto IGT "Gravello" 2008


di Luciano Pignataro

Ci sono vini didattici, nel senso che sono utili a capire la tendenza del momento in cui sono stati pensati e proposti al mercato. A distanza di tempo, l’aspetto più interessante oltre al profilo gustativo, è capire perché alcuni sono finiti su un binario morto e altri no. Soprattutto sul piano della comunicazione. Gli appassionati più anziani ricorderanno il Gravello, primo Tre Bicchieri in Calabria quando questo riconoscimento cambiava lo stoccaggio di una cantina. Un’era geologica fa, quando internet non era ancora diffuso, non esistevamo siti, blog e tantomeno social. Il riconoscimento del Gambero era il segnale preciso per ristoratori ed enotecari su cosa comprare subito. Dovremmo ricordare questi meccanismi quando oggi ci lamentiamo degli influencer, cambiano gli strumenti, la capacità di approfondimento, ma alla fine la velocità porta sempre e comunque all’ipse dixit. Parlo della grande massa ovviamente, non di tutti.


Ma torniamo al Gravello: fu pensato da Severino Garofano, l’enologo irpino naturalizzato pugliese che ha creato alcuni grandi vini che hanno fatto epoca in Puglia. Un vino che mette insieme il Gaglioppo e il Cabernet Sauvignon, prima annata 1988 di cui abbiamo avuto l’opportunità di parlare ormai sette anni fa proprio nella nostra rubrica quando eravamo giovani e forti.
Era una moda dell’epoca, unire il vitigno locale a quello internazionale. Le ragioni erano diverse, la prima partiva dalla conoscenza decisamente maggiore sul comportamento dei vari Cabernet, Merlot e Chardonnay. Il secondo ragionamento riguardava la leggibilità del vino sui mercati stranieri dell’epoca, ossia spiegare il proprio prodotto partendo dal vitigno internazionale. Questa moda partì dalla Toscana e fu adottata soprattutto dai produttori del Sud che allora si affacciavano sui mercati. L’idea alla base era che il vitigno caratterizzasse l’origine di un territorio tenuto conto della diversità ampelografica del nostro Paese che riflette l’anarchia italiana rispetto alla precisione cartesiana e commerciale dei francesi, sempre portati ad esempio ma mai seguiti nella realtà fattuale.


Severino insieme ai fratelli Antonio Nicodemo Librandi diedero un grande impulso in questa direzione, ricordiamo anche lo Chardonnay, stavolta in purezza, del Critone sul modello di quello di Tasca che, se aspettato, regala belle sensazioni negli anni. Le verticali di Gravello hanno dato sempre belle soddisfazioni, il vino ha tenuto nel corso degli anni anche se la sua esuberanza alcolica e la sua concentrazione, rimasta sostanzialmente immutata negli anni anche quando c’è statio il cambio di enologo in cantina, lo rendono decisamente age rispetto ai gusti degli ultimi anni che puntano a rossi più leggeri e bevibili.


Ma la tenuta di questo Gravello 2008, speso su un robusto piatto di agnello lucano passato al forno, non solo ci riporta a quell’epoca, ma ribadisce che ogni stile in realtà ha una sua ragion d’essere se si abbina al cibo. Al naso profumi fruttati con un corredo leggermente fumé, al palato questo rosso di 17 anni mantiene una grande energia, occupa il palato supportato da una bella freschezza facilitato dai tannini ben levigati. Il finale è lungo, preciso, pulito. Un vino integro e perfetto.

Boccella Rosa - Taurasi DOCG 2017


di Luciano Pignataro

Il Taurasi dei fratelli Soccorso e Luigi Molettieri racconta la campagna irpina di Montemarano, di conferitori che per difendere le viti vinificano in proprio, di operai che tornano alla terra. 


Un sorso tradizionale, legno e frutto ben fusi, lungo, imponente, sulla cucina di territorio è indimenticabile.

Cecchi lancia il nuovo Coevo: con il 2021 si cambia passo (con mini verticale)


di Luciano Pignataro

Viviamo tempi di grandi cambiamenti e il mondo del vino non fa eccezione. Ma senza voler affrontare i massimi sistemi che potrebbero annoiare i nostri lettori, possiamo segnalare il cambio di passo del Coevo, vino iconico di Cecchi, una delle aziende più antiche e conosciute anche dal grande pubblico. Con l’annata 2021 si è infatti deciso di semplificare il blend e restringerlo al Sangiovese della tenuta aziendale Villa Rosa a Castellina in Chianti e al Merlot della Tenuta Val delle Rose in Maremma.


La presentazione è stata fatta all’Enoteca Pinchiorri dallo stesso Andrea Cecchi, che nel 2006 volle questo vino in onore di Luigi, fondatore della azienda nel 1893, accompagnato dalla responsabile di produzione, l’enologa Miria Bracali, e dal direttore commerciale Luca Stortolani. Una occasione anche per fare una mini verticale di questa etichetta in uno dei templi del vino italiano analizzando oltre la prima annata, anche la 2013 e la 2015.

Andrea Cecchi

Il Coevo è un fine che testimonia con la sua esistenza gran parte della storia del vino toscano degli ultimi due cenni, quasi un supertuscan fuori tempo massimo perché unisce i luoghi tradizionali della viticultura regionale alla nuova frontiera maremmana che ha spinto con le grandi uve internazionali, cabernet sauvignon e merlot in primis, ma anche petit verdot e cabernet franc regalando grandi classici famosi in tutto il mondo. Fu anche un modo per l’azienda storica di mettersi al passo con i tempi e il passare degli anni costituisce la cartina di tornasole per misurare la validità di queste etichette.

Miria Bracali

A questo proposito dobbiamo dire che la 2006 ha colpito per la sua freschezza assoluta, regalando al naso sentori di frutta rossa per alcuni versi ancora fresca con leggeri rimandi fumé. Un vino compatto, solido, in cui non è facile distinguere il ruolo dei diversi vitigni perché era concepito non solo come la sintesi di due territori cos’ diversi ma anche come fusione di ben quattro uve diverse, oltre al sangiovese e al merlot, anche il cabernet sauvignon e il petit verdot, questi ultimi due eliminati nell’ultima versione presentata da Pinchiorri. La fermentazione e la macerazione sono state fatte in acciaio, seguite da un affinamento di 18 mesi in tonneaux di rovere francese, poi 10 mesi di riposo in bottiglia. «Coevo 2021 – ha detto Miria Bracali illustra Bracali - è figlio di una stagione che nel suo complesso potremmo annoverare tra le migliori di sempre».


Naturalmente la 2021 apre un mondo nuovo rispetto alle precedenti versioni di Coevo, una svolta emersa con molta chiarezza non solo nel raffronto con la 2006, ma anche con le altre due annate. Appare infatti un rosso maggiormente equilibrato, con i tannini molto ben risolti, al naso note speziate e di frutto ancora scisse, l’acidità decisa ma non scissa, il finale lungo, piacevole dopo un sorso dissetante. Sicuramente quel che colpisce del Coevo, e che mette insieme annate così diverse da ogni punto di vista, è la propensione ad un invecchiamento senza limiti. I quasi vent’anni della 2006 non si avvertivano nemmeno scrutando il colore, rosso rubino vivo. Crediamo che sarà così anche per il 2021, decisamente solido, ma che va aspettato ancora un poco prima di stapparlo.
Del resto l’annata 2021 ha registrato condizioni climatiche favorevoli con un inverno mite e piovoso che ha garantito una buona riserva idrica, sia una primavera fresca che ha supportato una fioritura regolare. L'estate asciutta e le piogge di fine agosto hanno contribuito a una buona maturazione, con la vendemmia fatta tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre. Del resto, questa annata è l’ultima veramente regolare che ci possiamo ricordare se pensiamo alle successive passate fra peronospora, siccità e gran caldo.


I piatti di Riccardo Monco e la sala di Alessandro Tomberli sono stati la degna cornice ad una presentazione elegante e non ostentata, una chiacchierata che è andata in profondità su tutti i temi: il modo migliore per presentare un grande vino di una storica azienda.

InvecchiatIGP: Vigneti Massa - Costa del vento Timorasso 2013


di Carlo Macchi

Ho una teoria che spesso fa sorridere e alzare un dubbioso sopracciglio ma che altrettante volte ci azzecca: i vini assomigliano ai produttori che li fanno (realmente!) e viceversa.
Questa teoria applicata al Costa del Vento 2013 di Walter Massa (nonché a tutti gli altri suoi vini) mi porta inizialmente a non parlare molto bene, dal punto di vista estetico, del mio amico Walter. Diciamoci la verità, se uno incrocia Walter per la strada certamente non si gira a guardarlo, non è un adone, non colpisce l’occhio da un punto di vista puramente estetico, e se specialmente sta parlando con qualcuno il suo modo di esprimersi e di gesticolare non lo mette certo nel mirino di donne in cerca dell’anima gemella.


Il Costa del Vento 2013, scoperto in cantina sotto cartoni pieni di tutto è, all’inizio, proprio così. Non colpisce l’occhio in maniera favorevole perché ha un colore dorato solo un po’ brillante, inoltre il naso sembra tra l’ossidato e il maturo.
Ma prima di proseguire su questa strada due parole su questo vino che oggi si porta in dote 12 primavere. Si parla naturalmente di timorasso, cioè il "Walterigno" ovvero il vitigno che Walter ha riesumato dal niente o quasi circa 30 anni fa e che oggi non è solo il fiore all’occhiello dei produttori del Tortonese, non è solo l’oggetto del desiderio di tanti consumatori, ma lo è anche di qualsiasi azienda langarola di alto lignaggio che ha comprato, compra e comprerà terre nei Colli Tortonesi per produrre questo bianco, la cui storia coincide inopinatamente col suo presente e col suo futuro.


Comunque, la storia di Walter e del Timorasso è stata scritta e riscritta e quindi è inutile tornarci sopra, meglio tornare sopra al Costa del vento 2013, figlio di un’annata fresca/fredda, forse l’ultima che c’è stata in Piemonte fino ad oggi. Mentre sproloquiavo è successo quello che succede quando Walter non solo lo guardi per strada ma ci parli: come Walter ti incanta con la sua profonda conoscenza del vino e del mondo e ti stupisce con le sue idee che spesso sono avanti anni rispetto agli altri, così il Costa del Vento 2013 mi ha incantato perché non solo la pseudo-ossidazione è svanita ma ha tirato fuori aromi in primis di frutta, poi di miele e al massimo dell’espressività note minerali e di idrocarburo di grande finezza e profondità.


L’ho assaggiato e, proprio come Walter, ha stupito me e i commensali perché ha unito a un equilibrio incredibile una profondità di beva che parte dalla grassezza del vino ma si sviluppa grazie alla sua colonna vertebrale acida, che ancora oggi lo sorregge perfettamente. Aprirla, ma soprattutto finirla è stata un vero onore e un grande piacere.


A proposito di aprire, Walter è in prima linea da sempre per quanto riguarda i tappi da usare ed è ormai convinto sostenitore del tappo a vite, però questo vino venne tappato con un Diam 30 (addirittura!) e forse la sua “chiusura” iniziale è dovuta proprio a questo. La morale è che Walter Massa e i suoi vini hanno sempre belle sorprese in serbo (anche in croato… ops!): l’ultima la troviamo sull’etichetta del Costa del vento, che è scritta anche in alfabeto braille. Del resto, anche ad occhi chiusi si capisce che è un grande vino.

Villa Bucher - Umbria Rosso IGT "Auro" 2021


di Carlo Macchi

Orami il cabernet franc in Italia ha assunto il ruolo che merita e quindi chapeau a chi l’ha piantato da 25 anni e in un territorio “secondario”. 


Questo 2021 è balsamico, molto fresco al naso, mentre in bocca c’è setosità tannica, equilibrio, buon corpo. Un vino da scoprire in un territorio da scoprire.

Ma perché avercela con il vino dealcolato?


di Carlo Macchi

Un fantasma si aggira per l’Europa, più in particolare in Italia: il suo nome è vino dealcolato. Da quest’anno il fantasma ha preso forma giuridica ma la discussione tra gli amanti del vino è sempre viva e frizzante, assumendo spesso toni apocalittici
Ora, da storico amante del vino, mi domando che problemi può creare il vino dealcolato a chi non lo vuole bere. Al massimo potrà far storcere il naso se trovato in una carta dei vini o far arrabbiare perché si usa il termine “vino” per definirlo, ma altri motivi non ne vedo.


Vedo invece una serie di vantaggi, in primis per tanti produttori che potranno buttarsi su questo segmento di mercato, attualmente quasi inesistente ma con grosse possibilità di crescita (parlarne male è sempre parlarne e crea interesse) e subito dopo dal punto di vista della politica europea. Come ho già scritto il mondo del vino, italiano e non, nella sua globalità è miope: non vede e non vuole vedere alcuni grossi rischi all’orizzonte, come il grave problema dell’alcolismo in tanti paesi del nord Europa, che li ha portati più volte a chiedere(anche ad ottenere) sanzioni sull’esportazione di alcolici da parte dei paesi produttori di vino.
Pensate che questo braccio di ferro possa continuare in eterno e se ne esca sempre senza conseguenze, oppure è probabile che qualche piccola o grossa restrizione sulla commercializzazione e il consumo del vino possa essere in futuro introdotta?


Il vino dealcolato potrebbe essere la risposta giusta, anche politica, a un mondo che vuole (a torto o a ragione) eliminare o circoscrivere al massimo la voce alcol dalla sua società e questo togliendo poco mercato al vino come l’abbiamo sempre conosciuto. Quelli che sostengono “l’innaturalità” del vino senza alcol li rimando al regolamento comunitario per la produzione del vino, nel quale sono presenti procedimenti e uso di prodotti che possono far impallidire il dealcolare un vino.


Inoltre mi domando perché i detrattori del vino dealcolato non si lanciano con la stessa veemenza contro i vini da 1-2 euro al supermercato, non innalzano barricate contro il commercio internazionale di enormi partite di vino sfuso, di bulk wine, che muove interessi enormi, ha una fiera dedicata a Rotterdam https://worldbulkwine.com/newfront (noto centro vinicolo mondiale…) e sposta letteralmente navi di vino che possono realmente incidere sul consumo di vini di qualità. Detto questo domandiamoci quanto vino dealcolato si può produrre oggi in italia. Esistono pochissimi impianti e per costruirne altri ci vorrà tempo e investimenti importanti. Quindi siamo all’anno zero in tutti i sensi.


Consideriamo comunque che se è stata varato un regolamento a livello nazionale lo si deve alle spinte dei produttori, UIV in prima fila, che lasciano parlare e sparlare gli appassionati e intanto mettono le mani avanti per il futuro, perché nel futuro, per buona pace di tanti accaniti “talevinebani” il vino dealcolato ci sarà e forse sarà anche il minore dei mali. Se avete assaggiato qualche volta vini da 1 euro sapete bene di cosa sto parlando.

InvecchiatIGP: Montevertine - Le Pergole Torte 1997


di Roberto Giuliani

Sono passati 23 anni da quando Sergio Manetti se n’è andato dopo una lunga malattia, il suo Pergole Torte è stato indubbiamente uno dei simboli della “resistenza”; a Radda nel cuore del Chianti Classico, negli anni ’90 era un punto di riferimento per tutti coloro che credevano nel sangiovese come massimo rappresentante di quel territorio, ma direi di gran parte della Toscana. Proprio nell’aprile del 2002, quando morì, scrissi queste parole: “In un’epoca dove la rivoluzione enologica significa uvaggi con vitigni internazionali, uso smodato di barrique, spinta quasi ossessiva verso il “gusto internazionale”, al punto di rinunciare alla denominazione di origine pur di accaparrarsi una fetta di mercato, Sergio Manetti ha dato a tutti una lezione di coraggio, di saggezza e di indipendenza, dimostrando a ragione di che cosa è capace il Sangiovese, quando è vinificato da mani esperte che sanno coglierne ogni piccola sfumatura. Il suo Pergole Torte è il simbolo di questa sua passione, tutt’altro che cieca, che lo ha spesso esposto ad assurde critiche, anche da parte del Consorzio del Chianti Classico, del quale faceva parte, che non gli concesse la DOC perché il suo vino mancava di “tipicità”.”


Il tempo ha confermato che la visione di Manetti era giustissima, tanto che negli anni la denominazione ha rivisto almeno in parte l’apertura ai vitigni internazionali, per giungere al Chianti Classico Gran Selezione, che impone almeno il 90% di sangiovese. Resta il fatto che quell’approccio determinato aveva le sue buone ragioni, dimostrate chiaramente da Le Pergole Torte 1997 che ho estratto dalla cantina, non senza dolore essendo l’ultima bottiglia.


Tappo praticamente perfetto, estratto senza difficoltà, la foto del calice è un po’ ingannevole, il colore è un granato trasparente ancora molto luminoso, vivo, segno che il contenuto deve avere ancora qualcosa di buono da offrire. Lo lascio respirare perché, al netto dei 2 anni in botte, 25 abbondanti è rimasto in bottiglia, chiede disperatamente un po’ di aria pulita.


Si apre, si apre, si libera, spariscono tutte quelle sensazioni di chiuso che lo fanno sembrare sulla via del declino. Invece sorprende per i profumi ancora fruttati che sa esprimere, una ciliegia limpida e succosa, uno stupefacente afflato di arancia sanguinella, ma soprattutto scarseggiano quelle note terziarie spinte che ci si aspetterebbe dopo tutto questo tempo; in realtà si manifestano in modo fugace, di funghi, fogliame, felce, sottobosco, poi tabacco, liquirizia, cuoio, tutto in modo accennato, non definitivo, in un contesto dinamico e stratificato.


L’assaggio conferma un vino che ha ancora una notevole forza, grazie a una bella vena acida che dà impulso al sorso, nascondendo molto bene i segni dell’età e non c’è quell’opulenza che in molti casi contraddistingueva l’annata 1997. Qui la storia è diversa, l’eleganza di Radda vince alla grande, restituendo un vino emozionante e per nulla stanco. Chapeau!