InvecchiatIGP - Tenuta Friggiali, Brunello di Montalcino Riserva 1999


di Stefano Tesi

Quando, per puro diletto e quindi senza taccuino di scorta né velleità tecniche, vai a trovare degli amici con altri amici (tutti del settore del vino, ma questo è un destino fatale!), pur confidando di bere buone cose non ti aspetti di trovare ad attenderti un vecchio Brunello stappato a tempo debito e pronto per il calice.  E se invece lo trovi, compiacimento a parte, due sentimenti ti solleticano. 


Da un lato la curiosità di riassaggiare un grande vino da invecchiamento di un’annata ormai antica (4 le stelle attribuite all’epoca alla vendemmia) e per di più nel formato che dovrebbe esaltare al massimo proprio la vocazione alla lunga sopravvivenza. Da un altro il timore che, come talvolta spesso accade, certi millesimi di quella denominazione e certe annate di quel periodo storico si rivelino deludenti, stanche, non di rado esauste, con buona pace dello spreco di astri sanciti al momento del rating e delle ottimistiche previsione di una vita centenaria. 

La bottiglia che bel bella mi aspettava era una magnum di Tenuta Friggiali Riserva 1999, una delle due proprietà montalcinesi (questa ha una serie di vigne degradanti dai 450 ai 250 metri sul versante sud-ovest di Montalcino; l’altra è invece Pietranera, dalle parti della Velona) della famiglia Peluso Centolani. Con mia grande consolazione, i dubbi sono stati subito fugati e la curiosità appagata. 


Il vino era integro già nel colore, fitto e pieno, con un leggerissimo accenno di unghia granata. Integro e intenso anche al naso, di primo acchito quasi compatto direi, con un frutto maturo ma ancora pimpante, lacerti di freschezza, una vaga speziatura e una composta coda terziaria che dava al tutto una complessità misurata, niente affatto senile. E anche in bocca ho ritrovato un Brunello vivo, tutto da bere, senza cedimenti, anzi sorprendentemente giovanile nella sua composta rotondità, pur in un’importanza e in una struttura di fondo innegabili. Qualità che hanno agevolato assai il consumo conviviale, dialettico, puramente edonistico e senza liturgie a cui nella circostanza la bottiglia era stata destinata. Ma, ciononostante, rimasta capace di tenere desta l’attenzione dei commensali sul bicchiere. 

Bene in tutti i sensi insomma. 

Quanto in generale alla stappatura delle vecchie bottiglie, inclusa l’ipotesi di trovarle non più buone, bisognerebbe forse recuperare la componente ludica di tutto questo, per invogliare la gente a ravanare meglio nelle proprie cantine. Ma se ne parla un’altra volta.

Poggerino - Chianti Classico Riserva "Bugialla" 2018


di Stefano Tesi 

Ecco un altro della serie che la Gran Selezione doveva uccidere le riserve: da un’annata non semplice ecco un vino di potente eleganza, pronto ma non troppo, rotondo ma fragrante.


Il vino 100% Sangiovese da un’unica vigna che convince all’olfatto con la ciliegia matura e gratifica al palato con la mordidezza.

La disfida delle frittelle di San Giuseppe senesi


di Stefano Tesi e Walter Peruzzi

Or sono tre anni che, qui sulla rubrica GARANTITO IGP, mi diffusi su quello che gli angloamericani chiamerebbero “Siena’s best kept secret“, ovvero le impareggiabili frittelle di San Giuseppe. Quelle senesi ovviamente, fragranti e asciutte, che, con tutto il rispetto per le altre, nulla hanno da spartire con gli omonimi cloni mollicci prodotti, credo, ovunque in Toscana e forse anche fuori.


Inutile dire che si tratta di una delle mie leccornie preferite, nonchè una delle principali cause dei miei dissesti di salute giacchè, nel periodo tra Carnevale e il 19 marzo (l’unico durante il quale si preparano, almeno per la vendita al pubblico), ne ingollo in quantità imbarazzanti.

Ma se la volta scorsa mi limitai a un racconto individuale venato di amarcord e a qualche generica informazione, stavolta ho pensato di fare le cose in grande: non solo una degustazione tecnica, analitica e circostanziata delle frittelle di tutti e tre i produttori cittadini, ma addirittura un raffronto a quattro mani, o a due palati se preferite, in tandem con un collega anche lui senese doc, Walter Peruzzi, che co-firma questo articolo. Anzi, di più: per comprovare la veridicità e l’immediatezza del nostro frittelle-tasting, abbiamo girato anche un video di pochi minuti che ci riprende durante gli assaggi e i soppesamenti organolettici.

“Per noi senesi le “frittelle di piazza”, come tutti le chiamiamo, sono indissolubilmente legate al Carnevale. Ne sono anzi un simbolo olfattivo e gustativo indelebile per tutte le generazioni“, spiega Walter. “I più vissuti ricordano ancora i tre “banchetti” (a Siena non si dice “chiosco”!) di Piazza del Campo, equidistanti ed efficacissimi nel diffondere quell’inconfondibile aroma nei pomeriggi freddi e umidi di febbraio e marzo. Difficile resistere alla tentazione di quelle caldissime palline di riso appena staccate dalla “piccia” e servite nel cartoccio, cosparse di zucchero semolato. Ogni banco aveva i suoi affezionati clienti, che si dividevano su quale fosse il migliore. Discussione di lana caprina, perché poi erano diverse solo le sfumature ed era una questione di gusto personale. Oggi in piazza ne è rimasto solo uno, quello storico del Savelli della Torre, da sempre il primo a montare e ultimo ad andarsene. Gli altri due, prima uno, poi anche l’altro (ricordo il suo nome, il Bianchi), sono stati spostati verso la periferia ed hanno cambiato proprietario. Ma non le ricette. Neanche i fedelissimi estimatori. E nemmeno le discussioni su chi sia il più bravo. Noi ci abbiamo provato a stabilirlo, ma è dura…”.

Ed ecco infatti le nostre schede.

FRITTELLE CIOFI (Via Massetana-Romana 56, Siena).

Peruzzi: si presentano ben dorate, con la giusta quantità di zucchero semolato attaccato alla superficie. All’esterno rimane un po’ di untuosità di troppo, che tuttavia non si ritrova all’assaggio. Croccanti fuori, l’interno è ben alveolato, con la pasta di riso cremosa distribuita uniformemente. Il sapore c’è tutto, con note di scorza d’arancia e giusta sapidità; non si avverte zucchero all’interno.



Tesi: la croccantezza è quella giusta, la granulosità dello zucchero aggiunge quel poco di scricchiolio ulteriore che invita al morso. Il profumo è intenso, con una piacevole nouance di agrumi, mentre dalla crosta trasuda in abbondanza l’olio di frittura, che sporca un po’ le mani ma senza dare sensazioni olfattive sgradevoli. Al palato la frittella è saporita, intensa, appetitosa, con un riso giustamente cremoso, non stucchevole.

Punto di forza: sapore e persistenza.

FRITTELLE GIORNI (Via Bernardo Tolomei, Angolo Via Savina Petrilli).

Peruzzi: anche queste ben dorate e zuccherate all’esterno, si presentano più asciutte e scolate di quelle del Ciofi. Al palato risultano ben croccanti fuori e cremose dentro. La pasta è umida, con un’alveolatura più limitata delle precedenti. Inoltre si nota l’aggiunta di zucchero nell’impasto, anche se moderato, che sostituisce o sovrasta il gusto della scorza di arancio. Un’interpretazione più casalinga, in qualche modo, che si avvicina al gusto di qualche decina di anni fa.



Tesi: la doratura appare perfetta e la frittura molto asciutta, ingentilita da uno zucchero di grana piuttosto fine. L’impasto di riso è decisamente cremoso, piuttosto dolce e compatto, buono ma senza le altre sfumature che ci si potrebbero attendere. Una frittella gustosa e semplice, di piacevolezza più immediata e meno lunga, olfattivamente più neutra della precedente.

Punto di forza: equilibrio e tradizione.

FRITTELLE SAVELLI (Piazza del Campo).

Peruzzi: esterno in linea, dorate e zuccherate. Si presentano meno compatte delle altre ed infatti all’interno il riso è poco, concentrato verso il bordo e quasi vuoto in centro. Sono le più gonfie e leggere, la crema interna ha una buona cremosità, con tracce evidenti di scorza di arancia, che al palato non risulta tuttavia così presente come ci si aspetterebbe. Non c’è zucchero nell’impasto, il sapore è molto delicato, quasi neutro.



Tesi: l’aspetto è invitante, le tracce dell’olio di frittura non disturbano, la dose di zucchero è abbondante. La frittella è assai croccante e cedevole al morso, molto alveolata, di una consistenza gradevole. Il profumo è tenue, fine, delicato come del resto il gusto, gentile e senza eccessi, pressochè liscio e quindi anche privo dell’impennata che ci si attenderebbe.

Punto di forza: leggerezza e croccantezza.

InvecchiatIGP: Cantine Endrizzi - Masetto Bianco 2008


di Luciano Pignataro

Chi mi conosce sa la mia passione per i bianchi invecchiati. Un segmento enologico in cui c’è ancora tanto da lavorare in Italia dove la cultura del bianco è quasi all’anno zero nella stragrande maggioranza dei consumatori mentre tra gli esperti si preferisce misurarsi sui grandi rossi di cui per fortuna il nostro Paese è ricco da Nord a Sud.
Eppure i bianchi invecchiati regalano sensazioni uniche e costituiscono un grande affare per chi compra. Come sempre accade, avevo dimenticato in un angolo recondito della mia cantina questa bottiglia da moltissimi anni, ma, avendo un pranzo domenicale a base di pesce, ho deciso di tirarla fuori e di rischiare. 


Bene ho fatto: ho trovato questo IGT Vigneti delle Dolomiti al massimo della sua espressione possibile e non ci voleva molto ad indovinarlo visto che alla base di questa cuvèe di famiglia ci sono due grandissime, uve, da sempre coltivate dalla Cantina Endrizzi a San Michele all’Adige: il Riesling Renano e lo Chardonnay, uve che amano il lungo invecchiamento.
Non è stato necessario neanche decantare il vino, tappo perfetto, giallo paglierino carico, profumi intensi di pesca sciroppata, note fumé, zafferano, anice: lo stesso protocollo produttivo prevede al tempo stesso un perfetto bilanciamento fra il legno usato (barrique nuove moderatamente tostate, tonneaux) e il frutto assolutamente integro. Il mosto in parte fermenta in tini d’acciaio, inox, parte in botti di rovere e parte in barrique. La conservazione sui lieviti di fermentazione con batonnage prosegue fino ad aprile, quando il vino viene unito in fusti di rovere per l’ulteriore affinamento di alcuni mesi.


Insomma, conta molto l’esperienza per un vino che già viene presentato almeno dopo un anno dalla vendemmia. L’evoluzione di tutti questi anni nella bottiglia dimenticata ha fatto sicuramente il resto dando la possibilità allo Chardonnay e al Riesling di evolversi in maniera davvero straordinaria e interessante. Al palato evidenzia agilità e freschezza assoluta, il Masetto 2008 non ha alcun segno di cedimento, anzi, con l’ossigenazione riprende vigore e forza. Un vino che esprime al tempo stesso il caldo del Mediterraneo e la freschezza alpina del Nord in un blend straordinario. Davvero una delle sorprese più belle degli ultimi anni.

Musto Carmelitano - Aglianico del Vulture DOC "Pian del Moro" 2015


di Luciano Pignataro

Tempo tempo tempo, l'Aglianico ha bisogno di tempo. 


Questo nato dall'omonima vigna di Maschito e vinificato in tonneaux dalla piccola 
azienda vulturina è succoso, fresco, bevibile, di grande stoffa. Piccolo, grande rosso!

2004, 2011 e 2016, tre annate per valutare il Graticciaia nel tempo!


di Luciano Pignataro

Graticciaia. Per chi ha qualche anno in più è un nome evocativo della Puglia come da qualche anno lo è Es di Gianfranco Fino. Graticciaia, Notarpanaro, Cappello del Prete, Patriglione erano parte della fenomenale squadra di capolavori messi in campo da Severino Garofano che, insieme a poche altre realtà, segnarono la rinascita del vino pugliese, anzi la liberazione da una visione antica e mortificante di silos rovesciati dai contadini francesi. Anche la Puglia divenne protagonista della rivoluzione vitivinicola italiana, un processo iniziato appunto negli anni ’90 e che oggi è una realtà concreta ancora in crescita.


Francesco Vallone

Per presentare l’ultima annata di Graticciaia, la 2016 interamente curata da Marco Mascellani, Francesco Vallone ha deciso di fare a Lecce una piccola verticale molto coraggiosa affiancando il 2011 firmato da Graziana Grassini e la 2004 di Severino Garofano. Il tempo vola, era dal 2011 che non partecipavamo ad una verticale di Graticciaia, anche questa a Lecce organizzata dall’Ais in occasione del congresso nazionale. Ieri come oggi il tema di questa degustazione è il seguente: come si deve valutare un mostro sacro quando c’è il cambio di mano? E’ bravo l’enologo che riesce a garantire una continuità di stile o quello che invece riesce a dare una nuova impronta personale? Come al solito la verità sta in mezzo, non solo perché cambia l’enologo, ma anche perché cambiano i gusti e cambiano soprattutto le vendemmie sotto la pressione del global warming.

Ed è proprio questo equilibrio che secondo noi è stato centrato nella degustazione perché al di là dei tre stili diversi, è emersa la forza del vigneto Caragnuli ad alberello di Negroamaro piantato su terreno argilloso e sabbioso nella zona di San Pancrazio negli anni 50. Se ne producono circa 25mila bottiglie, 200 ettolitri in sette ettari. La raccolta avviene a metà settembre e le uve vengono lasciate ad un leggero appassimento, per circa 15/20 giorni, su graticci disposti sulle terrazze del Castello di Serranova.

Marco Mascellani

Si potrebbe dire una goccia per una azienda di 500 ettari suddivisi in 3 unità produttive nei comuni di San Pancrazio Salentino, San Pietro Vernotico e Carovigno. Ma è la goccia più rappresentativa dell’Agricola Vallone gestita dal 2014 da Francesco, quarta generazione, figlio del mitico Franco scomparso prematuramente dopo aver ristrutturato e riorganizzato la cantina negli anni ’70.

Ma ecco le note di degustazione:

Graticciaia 2016

Colore rubino, nota giovanile. Ancora più snello e moderno grazie alla estrema bevibilità, alla buona morbidezza. Insomma, il Graticciaia ha fatto un po’ di cura dimagrante e gli ha fatto bene. I tannini sono stati trattati in maniera davvero eccellente, come del resto nei due precedenti. Un vino che deve ancora distendersi, ha bisogno di ancora almeno un altro anno di bottiglia per riequilibrarsi. Molto piacevole il finale. Grande acidità che fa salivare. Non ha ancora la complessità dei due predecenti. Usati Tonneaux e barrique

Graticciaia 2011

Le note sono di frutta rossa, più snello e meno appariscente. Il colore è rubino. Un naso che deve essere cercato nel bicchiere, il tono più austero. In questo caso si cerca soprattutto l’eleganza più che la potenza. Il palato è un po’ più avanti rispetto al naso: si ritrova meglio il sentore di frutta matura più che sotto spirito. Si è lavorato maggiormente sulla morbidezza, la setosità dell’impatto sul palato, ma alla fine si rivela più verticale del primo, sicuramente più snello. Lungo, con una chiusura pulita e amara che, come il precedente, rimanda alla voglia di ricominciare la beva. Barrique primo e secondo passaggio.

Graticciaia 2004

Colore granato. Grande freschezza, al naso si percepisce ancora la ciliegia sotto spirito. Il naso è arricchito da piacevoli note balsamiche, perfetta la fusione fra il frutto e il legno usato. Note di china, rabarbaro, mandorla, rimando tostato, carruba e tabacco. Si tratta di un vino tipico di quelli pensati da Severino Garofano, di quelli che si impongono con autorevolezza immediatamente al naso. L’alcol, la potenza, i sentori dolci che costituiscono l’arma segreta vengono ampiamente compensati dalla enorme e insospettabile freschezza che si mantiene inalterata nel corso degli anni. Il finale amaro lascia pulita la bocca con una grande voglia di ripetere il sorso.

Una miniverticale coraggiosa, senza rete potremmo aggiungere che regala una certezza: il Graticciaia ha una lunga storia da raccontare dal 1986 ad oggi, ma quella che ci riserva il suo futuro sarà ancora più lunga e appassionante.

InvecchiatIGP: Fattoria Corzano e Paterno - Il Corzano 1993


di Carlo Macchi

Questa bottiglia, trovata in cantina con l’etichetta ridotta in queste condizioni, è stato un modo sia per ritornare indietro negli anni sia per confermare una mia teoria sul periodo dal 1991 al 1996, da me chiamato “dell’ultima piccola glaciazione”. 


Ma andiamo con ordine. La Fattoria di Corzano e Paterno, che si trova nel comune di San Casciano Val di Pesa, è famosa oramai da anni sia per il vino che per i formaggi che produce. Nei primi anni ’90 muoveva i primi passi in entrambi i settori e quello del vino era completamente in mano all’ora giovanissimo Aljoscha Goldschmidt. 
Erano anni difficili per il Chianti Classico, figuratevi per chi non poteva fregiarsi della parola “Classico”: infatti Corzano e Paterno, pur essendo nel comune di San Casciano Val di Pesa che fa parte del Chianti Classico si trova sulle colline ad ovest della valle del fiume Pesa e così i suoi vigneti sono nel territorio del Chianti. Allora (e oggi non è molto diverso), anche se imbottigliavi dell’ottimo Chianti, se non avevi un Supertuscan nel mondo del vino di qualità non ti si filava nessuno. Così arrivarono le vigne di cabernet sauvignon e merlot, che ancora oggi concorrono, assieme al sangiovese, a creare Il Corzano (ultima annata in vendita il 2017). 


Come ho accennato sopra, dopo la grande annata 1990 ci furono 5/6 vendemmie che definire fresche è un eufemismo e forse sono state le ultime annate veramente "non calde" degli ultimi 30 anni. Il mio amico Ernesto Gentili sta giustamente ragionando sullo “spostamento del nord”, cioè sulle caratteristiche climatiche che servono, ieri e oggi, per avere grandi vini longevi: questo vino è veramente esplicativo, è un qualcosa da tenere in considerazione per capire come è cambiata e sta cambiando la faccia dei grandi vini negli ultimi 30 anni. 
Nel 1993 si andava inutilmente a ricercare rotondità, magari spacciata in bottiglia da un uso maccheronico del legno, mentre oggi si ricerca quella freschezza ( non parlo solo di acidità, ma di pH bassi) che allora abbondava. Una freschezza che ha permesso a questo uvaggio di sangiovese, cabernet sauvignon e merlot (non chiedetemi le percentuali) di lasciarmi a bocca aperta per finezza e profondità gustativa e per armonica complessità olfattiva. 


Un vino che dopo quasi 30 anni mostra ancora non solo freschezza ma una tannicità adesso vellutata pur ben presente. Sicuramente al naso il cabernet sauvignon fa la parte del leone con note balsamiche, mentre il sangiovese mostra la sua vena austera. Perfetta, adesso, la gestione del legno. 


Per capire meglio il vino ho lasciato la bottiglia ammezzata per quasi due giorni ma il vino è solo migliorato, presentando al naso note di spezie che mancavano al primo appello e in bocca una linearità austera ma meno tagliente e decisa. 
La frase “oggi vini così non si fanno più” deve essere vista alla lettera e cioè che con le attuali condizioni climatiche vini con questo pH, questa freschezza, questa verticale bonomia, è praticamente impossibile ripeterli. Per fortuna ho scoperto che ne ho altre due bottiglie in cantina.

Villa Bucci - Rosso Piceno DOC “Villa Bucci” 20158


di Carlo Macchi

Dici Bucci e pensi a un grande Verdicchio, ma Ampelio è bravissimo anche con i rossi. 


Il Villa Bucci 2018, blend di montepulciano e sangiovese lo dimostra. Porpora, naso con tanta frutta rossa e un accenno di carruba e cassis. Bocca piena ma con garbo, grazie a tannini già dolci ma incisivi. Fresca la chiusura.

“Il cuore del vino”, un libro per capire di più sul vino naturale e la biodinamica


di Carlo Macchi

Al termine della lettura del complesso e profondo libro di Piero Riccardi “Il cuore del vino”, da non seguace dei vini naturali, ho provato due cose: rispetto e ammirazione. 


Rispetto perché una posizione così chiara e ben motivata non può che meritare profondo rispetto. Ammirazione perché il percorso personale che ha portato Piero Riccardi dalla cinematografia alla produzione di vini naturali a Olevano Romano non solo è stato una crescita e un arricchimento continuo, ma si è basato su importanti radici culturali che riescono a rendere i suoi ragionamenti a favore del vino naturale e biodinamico, anche quelli che stento maggiormente a avallare, molto più ariosi, profondi e comprensibili. 
In realtà questo non è un libro sul vino naturale e/o biodinamico, o meglio non è solo e soltanto un libro su queste tipologie di vino ma è molte cose. 

Piero Riccardi

E’ un motivato e inattaccabile atto di accusa contro l’agricoltura industriale moderna, fatto da uno che di agricoltura se ne intende e ha girato diverse inchieste sul tema, anche per trasmissioni importanti come Report. Non si può negare (anche se per il vino credo, per esperienza diretta, che la cosa si declini in maniera diversa) che l’agricoltura intensiva, industriale renda gli agricoltori schiavi di un sistema e di una catena economica che gli lascia solo le briciole, mentre il consumatore (bella la definizione di questa parola come “termine vorace”) è costretto a utilizzare prodotti sempre meno nutrienti, sempre più pieni di sostanze che hanno ben poco a che vedere con l’alimentazione e sempre più difficili da digerire. In questo contesto non si può non essere d’accordo (io per primo) sulle sue considerazioni riguardo ad un termine con cui spesso ci sciacquiamo la bocca, “sostenibilità”. 


Ma è anche un percorso sul concetto di natura, attraverso il pensiero filosofico antico e moderno che, partendo dall’antica Grecia porta il lettore a inquadrare il momento in cui è avvenuto il distacco definitivo dell’uomo dalla natura che lo circonda e la prevaricazione del primo sulla seconda: e quel momento, riassumendo, si identifica con il periodo della rivoluzione scientifica e con due pensatori e filosofi che la rappresentano: Cartesio e Bacone. 

Ed è anche la storia della sua vita, fatta con flashback vividi, sofferti in qualche caso, sognanti e allegri in altri, della sua gioventù passata tra l’amore del cinema e del jazz, a girare l’Italia e il mondo, in particolare l’India. Ma il bello di questo libro, dove si sta nettamente dalla parte della biodinamica e si demonizza più volte la viticoltura della fresa in vigna e del lievito selezionato in cantina, è che in realtà non vuole imporre un credo ma solo aprire un ragionamento che ha solide basi filosofiche e culturali. Del resto è lui il primo ad aprire la porta alla discussione dicendo che i vini naturali non devono avere la volatile alta o puzzare, quelli sono solo vini sbagliati. 

credit: vinnatur.org

Leggendo mi sono soffermato spesso a riflettere su alcuni concetti e su quello che implicavano, sul senso volutamente oscuro di certe frasi. Del resto l’oracolo di Delfi “non afferma né nega, accenna” e lo scrittore, anche per bocca di alcuni pensatori della Grecia antica (Eraclito e Teofrasto, per fare due nomi) propone scenari, enigmi e dubbi che non devono essere risolti ma sicuramente affrontati. Le certezze invece sono sul fronte della disgregazione agricola e sociale portata dall’agricoltura industriale e qui si fa forte anche delle parole non certo visionarie di un certo Karl Marx. Ad un certo punto tra i tanti temi da sondare, mi è venuta in mente una domanda forse sciocca, cioè perché in un libro che ha comunque la campagna, la vigna e la natura al suo centro non vi sia una sola foto e la spiegazione che mi sono dato è che forse Piero rifugge la fissità dell’attimo, privilegiando lo svolgersi e il dipanarsi del tempo del tempo e quindi una foto rappresenterebbe l’esatto opposto di quello che l’autore vuole dire. 

Ma, mi ripeto, il bello è che quello che dice nasce da una solida base culturale, messa in mostra senza sfrontatezza ma con semplicità: per esempio, oltre ai mille rimandi precisi e godibili, si capisce che ha veramente letto Steiner e soprattutto ci ha ragionato sopra. E questo è un libro che non potrà non farvi ragionare, da qualsiasi parte lo prendiate e qualsiasi idea abbiate sul vino naturale. 

Piero Riccardi, Il Cuore del vino, Iacobelli Editore, 14.90€

InvecchiatIGP: Fèlsina - Fontalloro 1995


di Roberto Giuliani

Non c’è giorno che non nascano nuovi vini e nuove realtà produttive, chi si affaccia al mondo enologico oggi non è così scontato che conosca vini come il Fontalloro. Basta girare i social per rendersene conto, le bottiglie che hanno fatto storia negli anni ’90 oggi sono meno ricercate, c’è più attenzione verso il nuovo, verso la corrente più in voga al momento, cosa tutto sommato normale. 


Quello che però ai meno esperti sfugge è che, guardando al passato, si possono scoprire vini capaci di resistere al tempo in modo straordinario, alla loro uscita meno “pronti”, ma con una materia prima di elevatissima qualità, alla quale il lungo affinamento dà spesso giustizia. Oggi il mercato chiede tutto e subito, così possiamo trovare Barolo, Brunello, Taurasi, Sagrantino bevibilissimi, ma siamo sicuri che abbiano le stesse potenzialità dei loro precursori?


Oltre al diverso modo di lavorare in vigna e in cantina, per ottenere vini più pronti e godibili, c’è anche un clima che è radicalmente cambiato, sempre più instabile e con punte di caldo un tempo impensabili, che nel vino significano gradazioni alcoliche elevate e acidità più moderate. Con queste caratteristiche un vino può evolvere bene per 20-30 anni o più? Ne dubito.


Certamente il Fontalloro ’95 ci è riuscito, 26 anni abbondanti raggiunti in grande spolvero, un “sangioveto” in purezza proveniente dai poderi di Poggio al Sole e Arcidossino di una storica cantina di Castelnuovo Berardenga (quindi nel territorio del Chianti Classico), maturato in barrique per una ventina di mesi e affinato in bottiglia per un anno.



Le uve provengono dalla partita catastale n.1334, foglio n.111, particelle n.41,57, su una superficie totale di 6,18 ettari.
L’annata 1995 ha avuto un andamento climatico piuttosto irregolare, con temperature estive basse e piogge frequenti che hanno provocato un ritardo nella maturazione di una decina di giorni. L’acidità naturale si è manifestata più elevata del normale favorendo un ottimo sviluppo del patrimonio aromatico. La raccolta delle uve è stata eseguita a metà ottobre. La gradazione alcolica è risultata di poco superiore ai 13 °C (13,04), l’estratto di 26,01 g/l e l’acidità totale di 5,55 g/l.


Aprire questa bottiglia (la prima annata del Fontalloro risale al 1983) è stato per me come ritornare al periodo in cui nasceva la mia “consapevolezza” nei confronti del vino, perché la passione c’era già ma fino ad allora avevo bevuto con gusto e curiosità senza avere ancora gli strumenti per comprendere fino in fondo la complessità dei vini.

Giuseppe Mazzocolin

Ricordo di avere ascoltato in più occasioni Giuseppe Mazzocolin, uomo di straordinaria cultura, genero del fondatore di Fèlsina Domenico Poggiali; il suo linguaggio e la sua sensibilità nel raccontare il territorio chiantigiano, la storia, i suoli, il lavoro di ricerca, hanno contribuito a farmi innamorare del vino e ad accostarmi ad esso in una forma del tutto nuova, che ha sicuramente tracciato il mio futuro.


Ma entriamo nel vivo della degustazione: già il colore non passa inosservato, un granato ancora vivo e privo di cedimenti ai bordi; è sufficiente ossigenarlo per qualche minuto per notare come i sentori più evoluti, emersi al primo approccio, siano poco a poco sfumati, lasciando spazio a note di ciliegia nera e prugna mature, sottobosco, eucalipto, felce, tabacco, cuoio, humus, sandalo, terra umida, leggero caffè, liquirizia.


All’assaggio è diritto, sostenuto da un’acidità ancora vitale, sapido e profondo nel suo incedere, complesso e soprattutto avvincente, progressivo, lunghissimo, un piacere per i sensi e un commovente richiamo a tutto il fascino di un grande sangiovese.

I Tirreni - Bolgheri Rosso Beccaia 2018


di Roberto Giuliani

Bravi Samuele Falciani e Tommaso Rindi che hanno espresso il meglio del terroir bolgherese con questo rosso dal frutto pieno e avvolgente, calibrato nell’uso del legno, succoso. 


Il tannino è perfetto e acidità che ben si equilibra con la morbidezza data da mora, mirtillo, prugna e ribes nero maturi.

Pagani De Marchi - Costa Toscana IGT Principe Guerriero Anfora 2019


di Roberto Giuliani

Una rivoluzione in casa Pagani De Marchi in quel di Casale Marittimo? Può darsi. Fatto sta che il Principe Guerriero, nato nel 2001 come sangiovese in purezza fermentato in barriques con i lieviti indigeni e maturato in tonneaux, cambia veste.

credit: winedering.com

Con l’annata 2019 questo è l’uvaggio: 60% merlot e 40% cabernet sauvignon, ma anche la vinificazione e la maturazione cambiano: dopo la diraspa-pigiatura, il mosto ottenuto viene trasferito in anfora di terracotta cruda da 8 e 10 Hl, dove rimane a macerare per un mese a contatto con le bucce, con periodiche follature. Successivamente matura nelle stesse anfore per un anno.


Dietro a questa scelta c’è lo zampino di Matteo, figlio di Pia Pagani, che sta concentrando l’attenzione su un più ristretto numero di vini e cercando di dare ancora maggiore risalto al forte legame con la cultura etrusca. Che l’anfora sia tornata in auge in Italia già da qualche decennio è un fatto assodato, dal Friuli-Venezia Giulia alla Sicilia sono sempre più numerosi i produttori che si cimentano con questo contenitore, finendo spesso per innamorarsene. 
Meglio se chi fa una scelta di questo tipo ci crede fino in fondo, piuttosto che farsi trascinare nel vortice delle mode, ma allo scrivente interessa principalmente cosa ne ottiene, ovvero se i vini che in anfora dimorano ne traggono qualche beneficio, se vengono meglio valorizzati, se il racconto che esprimono una volta versati nel calice è convincente. Ogni contenitore, se usato bene e con le uve giuste, può dare ottimi risultati. In questo caso mi sembra che la strada sia stata individuata e non sia frutto di improvvisazione, piuttosto di una sperimentazione attenta e consapevole. Del resto immagino che Matteo sia stato supportato da Attilio Pagli e Stefano Moscatelli, che seguono l’azienda sin dagli inizi.


Dunque eccolo qua, nel calice, rubino profondo: intanto diciamo subito che il bouquet è pulitissimo, senza sbavature (e di vini in anfora piuttosto rustici ne ho assaggiati parecchi), domina la componente fruttata, ma con una inusitata e vivace freschezza olfattiva; un’altra cosa che mi sembra caratterizzare questo vino è la perfetta fusione dei sentori, non c’è qualcosa che emerge in modo netto ma un amalgama perfetto, dove il ribes nero, la mora, la prugna, giocano sullo stesso piano, in sintonia. L’impressione è di un vino agli albori di un lungo percorso, la ridotta percezione speziata è anche indice di come il legno ne sia spesso autore, laddove si usa un contenitore più neutro ecco che il bouquet ci riporta al varietale, ma non mancano sfumature di grafite e cacao, qualche venatura di vaniglia.

La Cantina

L’assaggio rivela una materia importante, c’è struttura e incisività, slancio e dinamicità, nulla che sia fuori dal contesto, il linguaggio è diretto e chiaro, la trama profonda e suggestiva. Un Principe Guerriero in tutti i sensi, giovane e aitante, che nella maturità si rivelerà in tutto il suo già preannunciato splendore.