Le Furie - Faro Doc "Cicarra" 2021


di Roberto Giuliani

Da un po’ di anni, quando si parla di vino siciliano si pensa subito all’Etna, questo fantastico vulcano che con la sua lava ha creato in migliaia di anni un paesaggio unico, dove oggi stanno riscuotendo grande notorietà i vini che vi vengono prodotti. Ma il territorio isolano custodisce altre perle, di cui si dovrebbe parlare di più, come la Doc Faro, una piccola denominazione che coinvolge esclusivamente la provincia di Messina e che ha rischiato di scomparire una ventina d’anni fa. Oggi, fortunatamente, ne conservano la storia un drappello di vignaioli che, con i loro diversi stili, continuano a raccontare il fascino di una terra baciata dal sole e accarezzata dal mare. Quando ho conosciuto Alessandro, ancora non aveva imbottigliato il suo primo Faro Doc, ma me ne aveva parlato, riponeva in esso molte aspettative.


Nel frattempo ho assaggiato tutti gli altri suoi vini e mi sono fatto una chiara idea della qualità di questa piccola realtà frutto dell’impegno suo e di Michele, Claudio e Yankuba, in Contrada Cicarra nel comune di Castanea delle Furie (ME).


La loro filosofia è improntata al massimo rispetto delle materie prime e a un lavoro che favorisca le migliori condizioni per lo sviluppo di un ecosistema che garantisca l’equilibrio e la sanità di questo piccolo territorio. Così, insieme alla vite, dimorano agrumi, ulivi, mandorli, noci, avocadi (e già, ormai si possono fare anche in Sicilia), ciliegi, peri, susini, meli, albicocchi, cipressi, carrubi, pini, pioppi, piante d’alloro ed eucalipto, e come se non bastasse, anche un’arnia e un pollaio. Nel bosco limitrofo, cinghiali, ricci e colombacci vivono la loro vita senza invadere i vigneti. In vigna, è bene ribadirlo, sono banditi erbicidi e prodotti di sintesi, solo rari interventi con rame e zolfo, ma l’obiettivo futuro è di non usare neanche quelli.


Il Faro Cicarra 21, millesimo 2021, è ottenuto da Nerello Mascalese per il 60%, Nerello Cappuccio per il 20% e Nocera per la restante parte. Nelle prossime annate avrà anche una piccola quota di gaglioppo, consentita dal disciplinare, avendo a disposizione circa 200 piante. Pigia-diraspatura, lieviti indigeni, niente solforosa, macerazione in tino aperto in plastica alimentare senza controllo di temperatura; follatura manuale una volta al giorno, tranne sabato e domenica (la scuola agraria è chiusa). 


A fine fermentazione alcolica (8 giorni, zuccheri a zero) pressa soffice e acciaio, senza travasi per 10 mesi circa. A fine malolattica, aggiunta di solforosa. In genere in maggio, passaggio per altri 8/10 mesi in un tonneaux da 500 l. e una barrique, ambedue esausti. Leggera solforosa prima dell’imbottigliamento. Affinamento in bottiglia per 8/10 mesi. Gradazione? 12,5%, senza trucchi, in Sicilia! E poi dicono che non si può per via del mutamento climatico. Ma qui si lavora con l’alberello! E poi c’è il mare, la brezza, l’escursione termica… Il prezzo? Lo stesso di tutti gli altri vini, come dice Alessandro “nessuna differenza per i nostri figli”, ovvero 15 euro al privato.


Roba da non crederci, ve lo dico sinceramente, perché questo Faro mette in riga parecchi vini ben più costosi, ha una trama incantevole, i profumi richiamano il fico rosso appena colto, l’arancia, le erbe aromatiche, toni salmastri, il tutto in un ambito di estrema purezza espressiva. All’assaggio senti subito la freschezza, non c’è potenza ma una materia fine ed equilibrata, il tannino è quasi docile, il frutto croccante, la beva strappa l’applauso, grazie anche a un’alcolicità quasi impercettibile. Un’energia che irradia luce, con estrema grazia, un Faro che illumina rubino, finché ce n’è ancora in bottiglia...

InvecchiatIGP: Pomario – Umbria Bianco IGT “Arale” 2010

 

«I vini buoni sono tantissimi. Noi cerchiamo di dare ai nostri vini personalità, legando la produzione ad un filo conduttore che parla di questo territorio. Amiamo questo posto e vogliamo che i nostri prodotti trasmettano l’amore per questa terra».
Con queste parole, durante una mattinata uggiosa di autunno, ci accoglie Giangiacomo Spalletti Trivelli che, assieme a sua moglie Susanna D’Inzeo, si innamorarono anni fa della struggente bellezza della campagna umbra e di un vecchio casale sito in località Pomario, nel comune di Piegaro, che era pronto a riprendere vita per fornire loro un “Buen Retiro” per scappare dal caos di Roma.


Quel poggio luminoso, elevato a 500 metri s.l.m., ha dato il via anche ad un sogno mai sopito da parte del conte Giangiacomo di riprendere la tradizione familiare legata al vino, risalente a fine Ottocento. Venceslao Spalletti Trivelli, senatore del Regno assieme alla moglie Gabriella Rasponi, nipote di Carolina Bonaparte, decisero di comprare un’azienda in Toscana dove successivamente il figlio Cesare, nonno di Giangiacomo, iniziò la produzione di un Chianti molto rinomato. Chi lo ha bevuto, ancora si ricorda chiaramente e con molto piacere, il Chianti Spalletti, prodotto fino ai primi anni ‘70.

Giangiacomo Spalletti Trivelli e Susanna D’Inzeo

Quel desiderio, ben presto, diventò realtà. Infatti, senza esitazioni, i conti Spalletti Trivelli reimpiantarono i vigneti, ristrutturarono integralmente la tenuta e iniziarono le prime sperimentazioni in cantina, grazie all’aiuto di Federica De Santis, agronoma, e Mery Ferrara, enologa. La prima vinificazione a Pomario, nel 2009, venne fatta nella rimessa degli attrezzi: un tonneau di sangiovese e una barrique di trebbiano e malvasia: i futuri Sariano e Arale. Da questi si capì da subito le potenzialità dei vini di questo territorio, adagiato tra i colli Orvietani e il Lago Trasimeno, dove oggi, più salda che mai, troviamo l'Azienda Agricola Pomario con i suoi 230 ettari complessivi all’interno dei quali troviamo circa 9 ettari di vigneti condotti secondo i principi dell’agricoltura biologico-biodinamica al fine di mantenere inalterati gli equilibri naturali.

La verticale

L’Arale, come scritto in precedenza, è il primo bianco prodotto dall’azienda, un blend di trebbiano e malvasia che deriva il suo nome dal monte che sovrasta la vigna storica, di almeno 50 anni di età. Durante la mia ultima visita in cantina, grazie alla generosità della proprietà, ho potuto degustare una verticale storica di Arale che dall’annata 2019, ci ha portato indietro nel tempo fino alla 2010, annata che oggi vi descriverò per InvecchiatIGP vista la sua bontà.


Da un punto di vista squisitamente tecnico, il vino non ha mai subito grosse variazioni in termini di vinificazione ed affinamento. Le uve, infatti, vengono subito pressate per poi essere messe a fermentare in barriques con l’inoculo di lieviti autoctoni. La fermentazione avviene spontaneamente nelle barriques e gli unici interventi effettuati sono dei batonnage giornalieri.
La prima sfecciatura grossolana avviene solo al termine delle fermentazioni alcolica e malolattica. Si procede poi con ulteriori quattro pulizie annuali in maniera da ottenere un vino pulito e pronto per l’imbottigliamento dopo una leggerissima filtrazione.


L’annata 2010, l’ultima della batteria, colpisce e si fa apprezzare già dal colore che cede pochissimo all’ossidazione e al tempo visto che, come si può verificare dalla foto, il vino sfoggia una cromia leggermente dorata, piena e di bellissima lucentezza. L’ampio ventaglio olfattivo, che dopo oltre venti anni vira su sensazioni aromatiche che evocano i vecchi riesling tedeschi: frutta esotica matura, pesca percoca, resina di pino mugo, erba citrina e un’imponente nota di pietra focaia a cui seguono, col passare del tempo, percezioni salmastre.


Armoniosa, bilanciatissima e saporita la bocca, ben puntellata da una sapidità a tutto volume e da una freschezza paradigmatica che, in equilibrio con la massa glicerica del vino, concedono una complessità aromatica in accordo col naso. Finale di interminabile lunghezza.

Terre Di Ger – Vino Rosso “El Masut” 2020


Robert Spinazzè gestisce circa 40 ha di vigneti Piwi tra Veneto e Friuli perché da pensa che le varietà resistenti siano una soluzione al problema del cambiamento climatico. 


Questo rosso da Cabernet Eidos, Merlot Khorus e Merlot Kanthus ci piace per la sua giovialità e il suo essere irresistibilmente succoso.

La cucina del Bistrot 64 torna a risplendere come l’Araba Fenice


Gli amori, si sa, spesso risultano essere passionali, travolgenti, totalizzanti ma a volte, se ci rilassiamo troppo, pensando che tutto sia scontato, possono trascinarti in alto mare e travolgerti, portandoti a fondo, fino a quando non decidi, raccogliendo tutti i pezzi, che è ora ricominciare e risorgere come l’araba fenice.
Questa, più o meno, può essere la sintesi del rapporto esistente tra Emanuele Cozzo e il “suo” Bistrot 64, che fino a qualche anno fa, grazie alla stella Michelin presa nel 2016 assieme al suo ex socio ed executive chef Kotaro Noda, era tra gli indirizzi più interessanti della ristorazione romana grazie ad un format, riuscitissimo, che univa l’esperienza gourmet ad un rapporto qualità\prezzo tra i più interessanti nel panorama culinario italiano. Il grande successo e le luci della ribalta durano per qualche anno, tutto va a gonfie vele fino a quando questo meccanismo perfetto pian piano si inceppa tanto che, nel 2022, arriva il declassamento della Michelin che toglie la stella al locale che pian piano, nel periodo di tempo successivo, complice anche il Covid, andrà incontro ad al periodo più buio della sua storia chiudendo ad Aprile 2023.

Nikola Bacalu, Emanuele Cozzo e Giacomo Zezza – foto di Andrea Di Lorenzo

Emanuele Cozzo, che tre anni prima era uscito dalla proprietà del ristorante, non se l’è sentita di lasciare la sua creatura in balia degli eventi e così, dopo una breve riflessione, ha deciso di far tornare a splendere la sua creatura, il suo primo amore, chiamando con sé Giacomo Zezza (già ex sous chef di Bistrot 64 in passato), in cucina e il suo grande amico, e braccio destro, Nicola Bacalu, a cui spetta l’onere e l’onore di coordinare la sala in qualità di maître e sommelier.


Oggi, sono 30 le sedute che trovano posto in uno spazio caratterizzato dalla presenza di legno e marmo e da uno stile essenziale che riesce a donare carattere al locale. Una nuova veste per un progetto ambizioso che punta ora su due concetti chiave per strutturare una proposta gastronomica gustosa, molto divertente e con uso sapiente di una materia prima di assoluto livello spesso proveniente dall’orto di proprietà che Cozzo ha nei dintorni della Via Flaminia.

La bollicina di benvenuto

Oltre alle proposte alle carte, Bistrot 64 prevede per i suoi clienti due percorsi di degustazione, interpretazioni differenti dello stesso pensiero culinario, che trovano piena espressione nei due menù denominati Evoluzione (5 portate a 70 euro) con alcuni piatti storici del Bistrot 64, e Innovazione (8 portate a 95 euro) con proposte originali.

Benvenuto dello Chef

Tornato a trovare i ragazzi del Bistrot 64 con l’ambizione di voler provare un po’ tutto, ho preso piatti sia dalla carta, sia dai due menù degustazione e dopo un simpaticissimo Benvenuto dello Chef dove, tra le varie proposte, spiccava una finta coppietta romana rappresentata da una carota disidratata, speziata e servita con una maionese di prugna fermentata, ho degustato i seguenti piatti che eviterò di descrivere singolarmente per non essere eccessivamente prolisso:

Zuppa di porro con lenticchia nera di Todi, mousse di nocciole e nocciole tostate


Assoluto di Zucca (in forma millefoglie con patata, polvere di cumino, zucca cotta a bassa temperatura e rigenerata alla brace, olio alla salvia, e kombucha di zucca con olio al ginepro

Bottoncino con cavolfiore, Lapsang Souchong e brodo di lievito madre

Risotto mantecato al castelmagno, polvere di finocchietto e ciauscolo di cuore di vitello marinato ed affumicato con tartufo nero fermentato


Fungo criniera di leone servito con latte di rosmarino, polvere prezzemolo, servito con fondo di manzo.

Maiale, miso alla cacciatora e cicoria

Topo e il suo formaggio ovvero Cioccolato bianco, arancia e mandorla

Cioccolato bianco, rosmarino, frutti rossi


Il risultato è stato più che appagante, tutti i piatti sono caratterizzati, lo voglio ribadire, da un uso mirato di tecnica e sperimentazione per fornire il massimo equilibrio gustativo alle proposte culinarie che, fortunatamente, non vengono stravolte da una ricerca ossessiva di stupire il cliente.


Per quanto riguarda il vino Due i pairing previsti da Nicola Bacalu, il primo da 5 calici (a 45 euro), il secondo da 7 (a 55 euro). La carta, che ha abbandonato etichette commerciali in favore di piccole cantine rispettose del loro terroir di appartenenza, è divertente e, soprattutto, ha ricarichi assolutamente umani e non respingenti come, invece, spesso accade per locali di fine dining. Bonus, inoltre, al maître che è tra i pochissimi a Roma che serve il vino rosso leggermente fresco e non a temperatura ambiente.


L’obiettivo dichiarato di Emanuele Cozzo e tutto il suo staff è quello di riprendersi la stella Michelin che, posso dirlo tranquillamente, sarebbe strameritata per l’impegno e la qualità che mettono nel loro lavoro. In bocca al lupo, ragazzi!!

InvecchiatIGP: Garofoli - Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore “Podium” 2013


di Lorenzo Colombo

Osservando la modalità di lavorazione di questo vino ci si può stupire per la sua semplicità. Vinificazione in acciaio, affinamento per 15 mesi sulle fecce fini negli stessi contenitori e sosta in bottiglia per quattro mesi prima della commercializzazione. Ci si chiede quindi come mai una vinificazione così semplice possa dare un vino in grado di reggere oltre dieci anni senza cedimento alcuno.

Dove sta il trucco? Se trucco c’è.

Nessun trucco, solamente raccolta delle uve a maturazione completa accuratamente selezionate da vigneti posti su suolo con abbondanza di argilla e sabbia e bassa resa per ettaro (79 q.li). Ed ovviamente grande cura in cantina. Sono 50 gli ettari di vigne dell’azienda Garofalo, fondata nel 1901 e gestita dalla quinta generazione della stessa famiglia, 1.300.000 le bottiglie prodotte annualmente, distribuite su sei linee produttive per un totale di 27 diverse etichette. Tra queste spiccano quelle dei Verdicchio dei Castelli di Jesi, ben cinque nella sola tipologia fermo ai quali s’aggiungono gli spumanti ed il passito.


Il vino da noi assaggiato per la rubrica InvecchiatIGP di questa settimana è il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore “Podium” dell’annata 2013, descritto ad inizio articolo ed inserito nella Linea Selezioni. Un vino in grado di reggere il tempo in maniera impressionate, anche se il vitigno Verdicchio ci ha abituati a simili prestazioni. Entrato in commercio per la prima volta nel 1991, se ne producono annualmente 45.000 bottiglie.


L’etichetta dice: Longevità 6-10 anni e noi siamo al limite di quanto indicato, ma dopo l’assaggio siamo più che certi che questa bottiglia avrebbe potuto essere conservata in cantina per parecchio tempo (ma non ci pentiamo affatto d’averla bevuta).


Veniamo all’assaggio: il colore è oro intenso, come ci s’aspetta da un vino di simile età, quello che impressiona è la vivacità e la brillantezza.
Al naso non ci appare molto intenso, l’età ha certamente smorzato la sua esuberanza, ciò che cogliamo sono sentori di frutta tropicale e d’erbe officinali e fieno di montagna, inoltre si percepiscono sentori di frutta secca, mandorle,nocciole, noci appena schaiacciate.
Strutturato, succoso, sapido e balsamico, con buona vena acida e leggere note boisé, queste anche se in vino non ha mai conosciuto legno alcuno, sentori di frutta secca ed agrumi amari, lunghissima la persistenza.

La Costa - Igt Terre Lariene Verdese “860” 2019


di Lorenzo Colombo

Sono solamente 860 (da qui il nome) le bottiglie da 50 cl prodotte di questo vino da uve Verdese in purezza, dopo una macerazione per tre giorni sulle bucce il mosto fermenta in vasche d’acciaio ed il vino matura per un anno in barrique.


Fresco, asciutto, delicato, presenta sentori di mela cotogna

Locali belli e dove trovarli: Trattoria Al Porto di Clusane


di Lorenzo Colombo

Anni fa frequentavamo abbastanza spesso il Lago d’Iseo e la nostra tappa culinaria prevedeva sempre una sosta in uno dei locali che propongono il piatto tipico di questa zona, e precisamente di Clusane, ovvero la Tinca al forno con polenta. Negli ultimi tempi la nostra frequentazione s’è assai ridotta, l’ultima volta è stato nel febbraio 2021 quando abbiamo fatto tappa presso la Trattoria del Muliner.


Ci siano nuovamente stati - a Clusane - in un sabato di fine gennaio che in realtà presentava un clima più primaverile che non invernale, con un sole tiepido che invitava a passeggiare, e questa volta abbiamo optato per la Trattoria Al Porto, locale già frequentato in passato.


Situato di fronte al piccolo porticciolo di Clusane, in un caseggiato in pietra si fatica un poco a riconoscerlo come ristorante nonostante la grande insegna incastonata sulla facciata. Qui si viene principalmente per mangiare il pesce d’acqua dolce, anche se il nutrito menù propone anche piatti di terra che di mare.


Dicevamo di un menù focalizzato soprattutto sul pesce d’acqua dolce ecco a tal proposito cosa abbiamo trovato in carta: tra gli antipasti vengono proposti l’Antipasto di lago (sardina, pesciolino in carpione, salmerino, persico, luccio, coregone), l’Insalata di lago al vapore (luccio, persico, coregone, salmerino, gamberi di fiume), l’antipasto affumicato (anguilla, salmerino, trota, coregone), il salmerino agli aromi, le sardine di lago con polenta abbrustolita e la tartare di Salmerino. La nostra scelta è caduta su quest’ultimo piatto che abbiamo trovato assai interessante, delicato ma al contempo gustoso.


Tra i primi piatti, rimanendo sempre sul pesce d’acqua dolce, troviamo tra gli altri: spaghetti ai gamberi di lago, pappardelle al pesce di lago, tagliatelle con Sardine di lago, tagliolini con persico, tagliolini con bottarga di coregone, risotto di lago, riso alla creola con persico, ravioli al salmerino.
Abbiamo optato per gli spaghetti ai gamberi di lago e non poteva esserci scelta più felice, avendo trovato questo piatto davvero squisito, equilibrato, saporito, il migliore tra quanto assaggiato.


Passiamo ai secondi piatti sempre rimanendo in tema d’acqua dolce, ecco quindi anguilla al forno, filetti di pesce persico, pesce fritto di lago (pesciolini, gamberi di fiume, persico, coregone, trota), grigliata mista di lago (salmerino, trota alpina, coregone, storione), salmerino alla griglia, filetti di storione al limone, luccio alla clusanese, fritto gamberi di lago e, naturalmente, tinca al forno con polenta. Piatto quest’ultimo scopo principale del nostro venire a Clusane, c’è però un altro ingrediente che apprezziamo molto e che non è facilmente reperibile altrove, di tratta dei gamberi di fiume, non potevamo quindi mancare d’assaggiarli fritti in una delicata pastella con verdure -zucchine e carote- nella fattispecie e non ci siamo certamente pentiti della nostra scelta, anzi.


La tinca al forno è una preparazione tosta, dove il burro la fa sa padrone e può anche costituire un piatto unico servita com’è con la polenta, l’abbiamo trovata come ce l’aspettavamo, gustosa, con una speziatura giusta e non eccessiva.


Ovviamente non concepiamo un pasto senza la presenza di vino e la nostra scelta è caduta su un Franciacorta che apprezziamo molto, il Cru Perdu di Castello Bonomi, dell’annata 2018, un vino dall’incredibile sapidità che s’è rivelato un abbinamento perfetto per tutti i piatti scelti.


Un’ultima annotazione riguarda il costo di un simile pasto, più che onesto data la qualità di quanto assaggiato, in due persone, un antipasto, un primo piatto, due secondi acqua ed una bottiglia di Franciacorta ci portano ad una spesa attorno ai 100 euro. Dimenticavamo, c’è stato anche un dessert, una millefoglie davvero buona. Che dire se non che ci torneremo.

Vini da Terre Estreme sbarca a Roma il 25 e 26 Febbraio 2024


Si terrà, dal 25 al 26 Febbraio 2024, presso l’Hotel Palatino di Roma, in posizione centrale e strategica a due passi dal Colosseo, la tredicesima edizione (la seconda a Roma) di “Vini da Terre Estreme”, il più importante evento di promozione commerciale italiano, e non solo, che si pone l’obiettivo di valorizzare e comunicare la viticoltura eroica costruita nel corso dei secoli da sconosciuti contadini che per necessità hanno dovuto e saputo interpretare territori inospitali coltivando i loro vigneti in zone poco conosciute, geograficamente impervie, spesso all’interno di minuscoli fazzoletti di terra strappati alla montagna o al mare.


Dopo le tappe di Matera e Treviso, Vini da Terre Estreme ha deciso di rendere omaggio alla “città eterna”, una delle più attrattive del paese, e uno dei principali centri per il commercio e per il turismo nazionale e internazionale. Da sempre cosmopolita, per la sua storia e per la ricchezza delle sue tradizioni, Roma è palcoscenico ideale per presentare e far conoscere il frutto di una agricoltura con origini e storia secolari, tramandata di generazione in generazione: i “vini eroici”, vini straordinari, unici, in contrapposizione ai vini-fotocopia che imperversano in ogni angolo del pianeta. Senza contare che in Lazio, dagli antichi romani che conoscevano le tecniche per la coltivazione della vite e la vinificazione, resistono ancora vitigni autoctoni, oggi recuperati da piccole cantine che possono di diritto essere definite “eroiche”.


"Vini da Terre Estreme", realizzato da anni da Pilota Green e, nella sua tappa romana, coadiuvato da Andrea Petrini, wine blogger di Percorsi di Vino e responsabile eventi di Slow Food Roma, è rivolto sia a professionisti del settore (distributori, Ho.Re.Ca., media) che a semplici ma curiosi appassionati di vino che in questa tappa romana avranno l’opportunità di conoscere e degustare la miglior produzione di etichette eroiche, in un percorso ideale che attraversa la nostra Penisola e oltre, toccando anche la Grecia.


Nelle due giornate del 25 e 26 febbraio 2024 la manifestazione si dividerà tra degustazioni liberi ai banchi di assaggio alla presenza del vignaiolo e masterclass su prenotazione e a numero chiuso.

Programma

Domenica 25 Febbraio

Dalle 11.00 alle 19.30 (Orario Continuato)

Si aprono le due giornate di Workshop sui “Vini Eroici” con degustazione libera ai banchi assaggio. Evento dedicato al pubblico professionale e appassionati wine lover.

Ore 11.30

Masterclass aperta agli operatori professionali, wine lover e media.

“Il coraggio di essere unici: paesaggio Chilometrico Consapevole”.

Gli scenari di consapevolezza che partono dalla vigna: il recupero, i vitigni, le strategie per il futuro. Degustazione di dieci etichette eroiche delle “Cantine del Recupero”.

La Rete dei Vignaioli del Recupero è formata da custodi della terra, protagonisti in vigna e di racconti che sono cultura di luoghi e persone. Recuperano la tradizione in campo, riutilizzano i terreni e i vitigni abbandonati, sempre preservando e salvaguardando i territori e il paesaggio e la loro biodiversità. La Rete dei Vignaioli del Recupero è aperta ed inclusiva per tutti coloro che hanno un approccio consapevole e sostenibile, ed è naturale che sia formata da vignaioli di diversi luoghi, storie e percorsi, dai giovani appassionati come Andrea Peradotto, e il gruppo di Braccia Rese, fino ad affermati e riconosciuti viticoltori come Mauro Giardini, Francesco Bordini, Elisabetta Foradori e Mateja Gravner.


Guiderà la degustazione Carlo Catani, autore e presidente dell’Associazione Tempi di Recupero che, a seguire, presenterà il suo libro “Il chilometro consapevole”.
Numero chiuso su prenotazione – max 30 posti. Per informazioni info@pilotagreen.it

Ore 16.00

Masterclass aperta agli operatori professionali, wine lover e media.
“Il coraggio di essere unici: le bolle estreme d’annata”. 


Andrea Petrini guiderà la degustazione di dodici etichette di spumanti, metodi classici di vecchie annate, provenienti da dieci aree impervie della Penisola.
Numero chiuso su prenotazione – max 30 posti. Per informazioni info@pilotagreen.it

Lunedì 26 Febbraio

11.00 alle 19.30 (Orario Continuato)

Proseguimento Workshop sui “Vini Eroici” con degustazione libera ai banchi assaggio.

DOVE

Grand Hotel Palatino - Via Cavour 213/m (50 metri dalla fermata Metro B Cavour)

Info: infopilotagreen.it


Per acquistare i ticket online: https://app.nowr.in/events/1652856

LISTA AZIENDE PRESENTI

PIEMONTE

AZ. AGR. DOMANDA – Calosso Asti

LOMBARDIA

IL GABBIANO – Sondrio

LIGURIA

TENUTA MAFFONE - Pieve di Teco Imperia

CONTE GHERARDO DEGLI AZZONI AVOGADRO – Liguria di Ponente

VENETO

SANDRO DE BRUNO – Montecchia di Crosara Verona

ABBAZIA DI FOLLINA – Follina Treviso

TRENTINO

AGRICOLA MOS – Val di Cembra Trento

FRIULI

GIOVANNI DRI IL RONCAT – Ramandolo Udine

GASPARE BUSCEMI – Cormons Gorizia

CAV. EMIRO BORTOLUSSO – Carlino Udine

CANTINE DEL RECUPERO

VILLA VENTI – Romagna

VIGNE DI SAN LORENZO - Romagna

VILLA PAPIANO - Romagna

PIAN DI STANTINO – Romagna

RIECINE – Toscana

LAZIO

CASALE DEL GIGLIO – Le Ferriere Latina

CANTINA LE MACCHIE – Castelfranco Rieti

ABRUZZO

SOC. AGR. F.LLI BIAGI - Vigneti del Gran Sasso

CAMPANIA

DELLA VALLE- JAPPELLI – Casertavecchia Caserta

CALABRIA

CORNO VALANO – Corigliano Rossano Cosenza

BASILICATA

NIMA – Melfi Potenza

LUIGI LAURIA – Chiaromonte Potenza

SICILIA

TENUTE LOMBARDO – Caltanissetta

DESTRO VINI – Randazzo Catania

SALVATORE D’AMICO – Leni Isola di Salina

SARDEGNA

VIGNE MUZANU - Mamoiada Nuoro

GRECIA

CONTE GHERARDO DEGLI AZZONI AVOGADRO – Isola di Malvasia

InvecchiatIGP: Felsina - Fontalloro 2009


di Stefano Tesi

Doveva essere una sorta di verticale-orizzontale delle annate 2009 e 2019 dei tre grandi vini a base Sangiovese 100% di Felsina, cantina tra le più rappresentative della Berardenga (500 ettari, dei quali 72 vitati), proprio a cavalcioni tra le denominazioni del Chianti Classico e del Chianti Colli Senesi: il Rancia Chianti Classico Riserva, il Colonia Chianti Classico Gran Selezione e il Fontalloro Toscana Igt.


Ma quando eravamo curvi sui bicchieri, impegnati nel discettare sul confronto (in cui, a mio modesto parere, il nerbo dei 2019 si è fatto in generale preferire, seppure non di molto, alla maturità appena velata dei vini più vecchi), ecco spuntare dal cilindro del patron Giovanni Poggiali un Fontalloro 1999 che ha subito messo tutti d’accordo. Si tratta, come noto, di un’etichetta-bandiera dell’azienda, prodotta sotto la guida di Franco Bernabei fin dall’esordio enoico di Felsina nel 1983 (la tenuta, all’epoca a vocazione cerealicola, era stata comprata nel 1966 dal nonno di Giovanni, Domenico). L’uva di Sangiovese proviene in questo caso da tre diversi vigneti di proprietà ubicati dall’una (Poggio al Sole, versante Chianti Classico) e dall’altra parte (Casalino e Arcidossino, versante Colli Senesi) del confine tra le due docg.


Il nome del vino, spiega Poggiali, può essere spiegato in due modi diversi. Quello più poetico dice che esso derivi dall’antica fonte che si trova nel bosco sovrastante il vigneto di Poggio al Sole, non lontano dalla sorgente del fiume Ombrone, dove i raggi solari provocano suggestivi riflessi di luce dorata. Quella più geografica è che Poggio al Sole è il reale toponimo del vigneto che, però, in loco è chiamato da sempre Fontalloro.


In ogni caso, se a Felsina (e non solo) la 1999 è considerata tra le migliori annate della seconda metà del secolo scorso, la bottiglia che stiamo assaggiando ce lo conferma.


Il colore è integro, compatto, scuro e profondo. Al naso il vino regala un’austerità calda, composta, terragna, oltremodo territoriale e coerente, senza rinunciare però a un guizzo di frutto e di residua freschezza che, a ben pensarci, risultano abbastanza stupefacenti in un rosso vecchio un quarto di secolo. Questa festa saggia, sobria e assennata continua al palato con una solennità asciutta, severamente vellutata, sapida, arricchita da un tannino maturo e da una nota appena polverosa che ravviva il sorso, esaltandone la lunghezza e gli accenni balsamici sparpagliati qua e là.

Che dire? Una bottiglia d’altri tempi? Un grande vecchio?

Direi più che altro una bottiglia che, il tempo, l’ha saputo cavalcare.

Fatto che ci rincuora un po’ tutti.

Tenuta Buon Tempo - Rosso di Montalcino DOC 2022



di Stefano Tesi

Da vigne coltivate a bio a Castelnuovo dell’Abate, sul versante sud-est di Montalcino, ecco un Rosso goduriosissimo, fermentato spontaneamente in acciaio e affinato in cemento, dal naso ricco, profondo e fruttato e dalla bocca ampio fresca, agile, nevrile, sapida, pulitissima.

Credit: Urano Cupisti

Vino a dir poco edonistico!!

Scipio: Toscana Bianco IGT "Giudizio" 2022


di Stefano Tesi

L’elmo dell’inno di Mameli stavolta non c’entra: Scipio, al secolo Mario, è proprio il produttore di questo sorprendente vino, che ho scoperto praticamente per caso fermandomi random tra i banchi del recente Wine&Siena.
L’azienda è giovanissima, nata nel 2022, e coltiva vecchi vigneti di varietà autoctone – da 40 fino a 100 anni di età, quasi la metà a piede franco, garantiscono il titolare e il suo braccio destro, Agostino Bilancini - rintracciati qua e là sui suoli vulcanico-tufacei di Pitigliano. L’uva è raccolta a mano e poi vinificata nella cantina di San Quirico di Sorano, a meno di due km in linea d’aria dal confine laziale. Maremma profonda. O Alta Tuscia, se preferiamo. 


Le mie prima esperienze di vinificazioni amatoriali – spiega Scipio – sono iniziate nelle antiche cantine monumentali scavate nel tufo, con la supervisione di amici enologi. La svolta è avvenuta però grazie all’incontro con Gaspare Buscemi, tra i maggiori maestri dell’enologia artigianale. E’ grazie alla sua spinta che è nata l’azienda”.

Delle quattro etichette che ho assaggiato alla kermesse senese, il “Poggio del Grillo” 2022 (Procanico rosa al 95% e Ansonica), il “Selva Cerrina” 2021 (bianco da tavola, dal 2022 divenuto “Giudizio”), il “Meletello” 2022 (Sangiovese 60% e Ciliegiolo) e il “Giudizio” 2022 (Procanico, Malvasia, Verdello, Ansonica e altri), quello che più mi ha colpito è l’ultimo, un sorso davvero inusuale e gratificante.


Fatto con pressatura diretta di uve trattate solo con rame e zolfo, fermentazione spontanea e affinamento in acciaio, questo bianco dal colore dorato carico offre un ventaglio olfattivo vastissimo, cangiante e delicato, che alterna sentori di fiori di acacia, pietra e sassi, una punta di acciarino, accenni di miele, fieno e erbe di campo, restando capace di mantenersi in equilibrio su una sobria eleganza. 
La musica non cambia in bocca, ove pulizia e la compostezza assecondano un palato inusuale, mutevole, ora a tratti pastoso, ora gentile, mai sfuggente, lungo ma senza noia, vivo ma senza banalità. Ho saputo che ne fanno meno di 7mila bottiglie, ma se la strada è questa (e non le finiscono prima) ne risentiremo parlare presto.

InvecchiatIGP: Di Meo - Fiano di Avellino DOCG "Colle dei Cerri" 2008


di Luciano Pignataro

Ho avuto modo di scriverlo in più di una occasione, ma vale sempre la pena di ricordarlo non solo perché repetita iuvant ma, soprattutto, perché la memoria collettiva si sta smaterializzando come il calcolatore HAL in 2001 Odissea nello Spazio. Era ormai il lontanissimo 1993 quando ebbi l’occasione, proprio nella cantina di Roberto e Generoso Di Meo, di provare dei vini bianchi dimenticati da alcuni anni scoprendo la bontà del Fiano di Avellino "evoluto". 


Ci è voluto tanto per avere produttori che uscissero in commercio con qualche vendemmia di ritardo, il primo fu Mastroberardino con il suo More Maiorum, all’inizio degli anni ’90, poi nel 1997 Antoine Gaita e Guido Marsella partirono con una annata di ritardo, seguiti poi piano piano da parecchi altri produttori.
Dopo 20 anni di attesa finalmente è stato riconosciuto il termine Riserva al Fiano di Avellino. Roberto Di Meo ha iniziato ha commercializzare i vini facendoli sostare molto a lungo sulle fecce e negli ultimi anni la reputazione dei suoi vini è enormemente cresciuta, ormai è accreditato nei migliori ristoranti sempre più assetati di bianchi invecchiati.
A differenza del Greco Vittorio e dei Fiano Alessandra ed Erminia, il Colle dei Cerri 2008, fresco di uscita, è un Fiano che fermenta e si eleva in tonneaux senza conoscere l’acciaio perché poi attende altri tre anni in bottiglia prima di essere messi in commercio.


Si tratta di uno dei pochi Cru che può vantare l’Irpinia, nasce dall’omonima vigna piantata nel 1995 a Salza Irpina dove ha sede l’azienda. Il risultato finale, al punto che potrebbe confondere molti appassionati della Borgogna. Il naso esprime un’ampia complessità in cui riconosciamo la frutta matura, le note ancora fresche balsamiche, sbuffi di pasticceria che ritroviamo anche al palato con molta chiarezza. Qui il vino si esprime con molta forza ed eleganza al tempo stesso, il sorso, freschissimo, è arricchito da una buona struttura, alcole e legno appaiono perfettamente bilanciati. Un grandissimo vino destinato a camminare ancora per molti anni.

Terra di Seta - Chianti Classico Gran Selezione "Assai" 2018


di Luciano Pignataro

Figlio di una visione moderna e illuminata della viticultura che rispetta la terra, questo sangiovese di Castelnuovo Berardenga travolge il naso con i suoi profumi mediterranei, note balsamiche e di ciliegia.


Al palato è dissetante, dai tannini ben risolti, fresco, assolutamente bevibile e felicemente abbinabile.

Antoine Gaita e i suoi ultimi tre grandi Taurasi


di Luciano Pignataro

Nel gennaio 2015 Antoine Gaita ci lasciò per sempre. Ancora oggi, a distanza di quasi dieci anni, possiamo godere dei suoi ragionamenti sul vino puntando sulla sua ultima annata lavorata, il Taurasi 2009 che la figlia Serena e la moglie Diamante hanno voluto chiamare Ad Ultimum.


Taurasi? Ma Antoine non è stato un grande produttore di Fiano? Sicuramente, ci ha lasciato una scia di grandissime annate tra il 1997 e il 2013, l’ultima che porta effettivamente la sua firma sul totale della lavorazione perché, nel 2014, riuscì solo a seguire la vendemmia.

Serena Gaita e Diamante Renna

Due anni prima in un video di 13 minuti di cui alleghiamo il link (https://www.lucianopignataro.it/a/video-antoine-gaita-taurasi-fiano/82792/) spiega perfettamente a Lello Tornatore la sua visione del Taurasi che potremmo sintetizzare in un titolo del tipo: “Cogli l’attimo”. In questa chiacchierata, nata per caso, Antoine smantella completamente alcuni luoghi comuni che all’epoca circolavano, portando alla ribalta la sua visione decisamente francese, da vero vigneron, che consiste nel legarsi al concetto di Cru, che in Irpinia, al tempo, non esistevano e non esistono, oggi, sul piano formale, e in gran parte anche sostanziale, tranne alcune eccezioni (esempio, i vigneti di Contrada Arianello a Lapio per il Fiano). In sintesi, per lui i tre grandi areali che concorrono alla formazione di un grande Taurasi sono Montemarano, zona di uve cariche e di vini potenti, Paternopoli, dove siano in altezza e le uve maturano più lentamente regalando freschezza e, in mezzo, Castelfranci. I parametri produttivi di riferimento che cita sono quelli di Luigi Tecce e Michele Perillo. E Taurasi? Per Antoine è un caso a sé stante, nascono più in equilibrio nella parte bassa della DOCG.


Per Antoine il Taurasi è dunque frutto del blend fra le uve di questi territori irpini che devono essere bilanciate in base alle annate calde, proprio alla francese, senza le solite regole scritte e codificate in percentuali che regolarmente vengono poi aggirate in Italia. Annata calda, il pendolo volge ad una maggiore quantità di uva di Paternopoli, annata fredda, verso Montemarano. La dose di Castelfranci dipende poi dal gusto, se piace o meno più fruttato.
Antoine in questa stessa intervista relativizza anche il concetto di tempo perché, dice, il vino ha sempre qualcosa da darti, come le persone, dipende da quello che cerchi e che desideri.
Il risultato di queste osservazioni sono state tre grandissime interpretazioni del Taurasi di Villa Diamante che attualmente sono vendute sui 50 euro ma che per me non hanno prezzo per la loro assoluta e totale bevibilità, eleganza, freschezza, longevità. Originalità.

Partiamo dall’ultima, Ad Ultimum Taurasi Riserva 2009.



Scrive la figlia Serena sul sito aziendale : “La voglia di mio padre di produrre Taurasi lo portò ad elaborare un progetto che prevedeva di realizzare ogni anno un vino che fosse espressione di un territorio. Attualmente in vendita c’è il Libero Pensiero, prodotto nel 2008 da una vigna di Castelfranci. L’ultimo Taurasi di mio padre, del 2009, proviene da Montemarano”.
Il progetto di Antoine era dunque procedere per gradi, vinificando in purezza le diverse zone anno dopo anno per poi arrivare ad una sintesi, sintesi che non è mai arrivata a causa della sua scomparsa. Ad ogni annata aveva dato tempo, proprio per capire l’evoluzione, da vero artigiano che non si fa condizionare dal mercato.
Ad Ultimum è un vino di potenza, un Cassius Clay che saltella attorno all’avversario, lunghissimo, fresco, dai tannini pienamente e abilmente risolti.


Abbiamo poi il Taurasi Riserva Libero Pensiero 2008. Un nome allora lanciato in polemica con le commissioni di assaggio delle doc che gli avevano chiesto di rivedere il suo Fiano Clos d’Haut. Lo abbiamo bevuto di recente e abbiamo trovato quello che ci aspettavamo ma anche molto di più: un vino assolutamente infinito, di valore assoluto, in grado di competere con i grandi, la strada possibile dell’Aglianico che non deve vergognarsi del frutto pur senza rinunciare alla freschezza e ai tannini. Il Libero Pensiero è un vino che ormai non vuole più alcun abbinamento.


Infine il Pater Nobilis Taurasi Riserva 2007 di Paternopoli. Annata calda, forse per questo Antoine decise di partire dal punto più alto della denominazione regalandoci forse il Taurasi più fine e ricco di sempre. Vino di una attualità sconcertante, per certi versi simile a un Barbaresco di Rizzi.


Tre vini indimenticabili che dimostrano la capacità progettuale di Antoine e sottolineano la grandissima perdita che ha subito il mondo del vino con la sua scomparsa. Elastico come un francese nel cambiare protocolli, poco disposto ai compromessi come un irpino. Può sembrare un ossimoro, ma non lo è: la sua inflessibilità riguardava la libertà del viticoltore di poter sperimentare come e quanto gli pare ma al tempo stessi dichiarando con onestà assoluta quello che realizza nella produzione del vino. La elasticità sta nel cavalcare l’annata con un surf senza incaponirsi sui protocolli e al tempo stesso decidere in quale direzione muoversi senza farsi travolgere dalle onde. Nessuno come lui è stato interventista e al tempo stesso rispettoso della natura e delle condizioni pedoclimatiche.
Al di là delle differenze, la 2008 e la 2009 (annata piovosa e terribile per l’aglianico a causa di un ottobre pieno di pioggia) più concentrate della 2007, tutte e tre le esecuzioni restano uniche nel suo genere e rivelano la stessa mano.


Un grande, grandissimo vigneron, che per fortuna ha trovato nella figlia e nella moglie la volontà esecutrice del suo testamento enologico.