di Stefano Tesi
Non c’è nulla di meglio, per esprimere un giudizio equanime, che approcciarsi a qualcosa verso cui non hai particolari aspettative né pregiudizi. Qualcosa che, in altre parole, ti aspetti “normale”. E’ in questo modo che giorni orsono mi sono avvicinato a un formaggio che avevo in dispensa da qualche settimana. Chi lo aveva assaggiato mi aveva detto che sì, era un ottimo formaggio, ma nulla di più però: un pecorino delle Crete Senesi arricchito con chicchi di pepe interi.
La sensazione olfattiva generale è quella di un prodotto che sta vivendo il massimo della sua evoluzione. Ingolosito, proseguo. Taglio tutto a losanghe e assaggio: la friabilità appena denunciata all’occhio e già più avvertibile al taglio si riconferma al morso, con l’elasticità del boccone resa più fragile e gentile dalla granulosità dell’incipiente scagliatura. In sostanza una tattilità perfetta.
E’ buonissimo, altro che storie!
Un formaggio importante, quasi solenne ed eppure anche gastronomico, che invita al riassaggio e non satura certamente al primo boccone: si fa mangiare, ti chiama, soddisfa. Io ci ho bevuto mezza bottiglia di Morellino di Scansano, con quel poco di ruvidezza perfetta per sposarsi col gusto scabro e verticale del formaggio. In sintesi: farne scorta, metterlo a maturare in cella frigo (o in cantina, alla faccia dell’Asl, se è una casa privata), curandolo ogni tanto con olio e cenere e ricordandosi che, portatolo in tavola, è difficile che duri. Difficile spendere meglio 18 euro per un kg di formaggio
Il problema casomai è procurarselo: lo fanno nel loro caseificio nel mezzo alle Crete, tra Asciano e San Giovanni d’Asso, in minuscole quantità, i fratelli Farina, sardi “intoscanati” di terza generazione, che lo vendono in un minuscolo food truck agricolo (ora va di moda chiamarli così, ma io la chiamerei miniroulotte) piazzato in mezzo all’aia-aia del podere di famiglia.
ST: ma come nasce questo formaggio?
Alessia Farina: semplicemente mettendoci i chicchi di pepe dentro. E’ un formaggio che ha un successo strapitoso anche senza pepe. Non perchè siamo bravi, ma perché è eccezionale la materia prima.
ST: ma il formaggio come si chiama?
Alessia Farina: semicotto, dal di lavorazione. E’ quella tradizionale di casa nostra. Un casaro specializzato ha ascoltato la spiegazione del mi’ babbo e l’ha adattato a una macchina ultramoderna.
ST: e come funziona?
Alessia Farina: si caglia il latte a 40 gradi e poi, mentre si taglia la cagliata molto fina, si riscalda tutto fino a 46. Fatto il formaggio, lo si mette a stagionare in cella. Mio nonno in Sardegna aveva anche le vacche e lo faceva misto. Diceva: “la cagliata va riscaldata fino a quando ci riesci a tenere le mani”. E’ stato ganzissimo scoprire sul display della macchina che le mani ci si tenevano esattamente fino a 46 gradi! Poi sulla paiola di rame formavano una specie di grosso cilindro che tagliavano secondo la misura delle fuscelle. Noi con la caldaia elettrica e il controllo dei parametri riusciamo a fare un buon prodotto con molta più facilità. Comunque il formaggio va strizzato molto e, se vogliamo dargli un po’ di piccantezza, lasciamo dentro un pochino di siero che, fermentando, forma dei piccolissimi buchi. Con la misurazione del ph sappiamo esattamente fino a quando dobbiamo stringere le forme, perché l’acidità è una buona indicazione di quanto siero sia rimasto all’interno.
Alessia Farina: si tiene una notte in frigo e poi in salamoia. Mio babbo dice: “la salamoia è pronta, cioè l’acqua ha la giusta quantità di sale, quando se ci butti un uovo galleggia”. Noi ovviamente usiamo un densimetro. Terminata la salamoia in base al peso delle forme, le asciughiamo e le ungiamo con extravergine e cenere di legna di quercia.
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