InvecchiatIGP: Spadafora - Sole dei Padri 2003


di Stefano Tesi

Le cosiddette cene di gala che seguono le degustazioni e le anteprime dei vini sono vere e proprie armi di distrazione di massa per noi giornalisti. Quasi sempre finisce infatti che, tra strette di mano, rimpatriate, chiacchiere coi commensali, palato e concentrazione provati dagli assaggi precedenti e campioni che passano di tavolo in tavolo senza troppo riguardo, talvolta si presti poca attenzione a ciò che ti servono. E solo dopo, quando mettendo il bicchiere al naso e in bocca ti accorgi che stai bevendo qualcosa di notevole, ti rendi conto che la bottiglia si è perduta chissà dove, senza che tu ne prendessi nota. Ed è ormai irrecuperabile.


E’ esattamente ciò che mi è successo al Teatro Signorelli di Cortona, durante il convivio dopo l’anteprima del Cortona Syrah Doc 2023: arriva veloce il sommelier col vino in mano, annoto in fetta e furia il nome su un foglietto, con la coda dell’occhio colgo l’annata 2003, ho il cellulare in tasca, niente foto e proseguo la cena. Finita la pietanza, assaggio e resto folgorato: è eccellente!


Segue un’accurata annotazione delle caratteristiche organolettiche e l’affannosa quanto inutile ricerca della bottiglia.


Il colore è granato, un po’ opaco ma profondo, con accenni purpurei. Al naso emerge a sorpresa vivo e rotondo, vigoroso, perfettamente integro, col frutto ben presente e quasi croccante, che si dilata in una lunga scia di sentori cangianti di spezie, tra accenni balsamici e dolci, poi perfino torbati e muschiati. In bocca colpiscono l’eleganza, la profondità e la lunghezza, che danno vita a un sorso avvolgente, con un finale quasi sapido e un’appagante sensazione di equilibrio. Da bere e ribere, insomma.


Il mio approccio con il "Sole dei Padri 2003", Syrah 100% da un’unica vigna a 450 metri di altitudine, pluripremiato vino dei Principi di Spadafora, azienda biologica in quel di Virzì (Palermo), è stato questo. Lo avevo già assaggiato in passato, ma certamente non di quest’annata remota. Che il produttore inserisce non a caso, e vende, tra le “storiche”.


“Il Sole 2003 è figlio di due momenti diversi”, mi spiega Francesco Spadafora, che ho contattato in seguito. “O meglio, di due momenti di raccolta diversi. Le mie note dell’epoca mi dicono che la prima fu il 22 agosto e la seconda il primo settembre, mentre il diradamento dei grappoli avvenne intorno al 20 luglio. Come si capisce dal periodo, e me lo ricordo bene, non fu un’annata particolarmente calda, anzi rammento che non si riuscì a raccogliere un Cabernet decoroso proprio perché, poi, piovve molto.


Il lavoro in vigna fu, come oggi, quasi scientifico: tutti i grappoli alla stessa altezza ed equidistanti tra loro, con pari luce ed ombra, così che potessero maturare bene. Quindi lavoro di forbici sul grappolo per accorciarne i baffi e la parte terminale, se era troppo allungata. Il grado babo al momento della raccolta era sui 22, perché la zona permette di avere sia alcol che freschezza e quindi preferisco sempre avere un’uva matura: non aggiungendo solforosa, ho bisogno di avere tanti polifenoli e tannini che fanno vivere la fermentazione in un loro mondo. A metà fermentazione ed a distanza di due giorni tra loro, faccio del delestage in modo che tutto il liquido attraversi la buccia, la quale macera per 15 giorni. Viene utilizzato solo lo sgrondo, così da poter separare la parte pigiata tranne la primissima. La vinificazione avviene in vasca di cemento, così come la malolattica. A quel tempo utilizzavo barrique da 225 litri e di primo e secondo anno, dove il vino è rimasto per ventiquattro mesi. 


Del resto, quando faccio un vino - conclude - non so mai quanto sia destinato a durare davvero, ma nel caso del Sole dei Padri so sempre di avere delle buone garanzie di longevità, perché le uve stanno a oltre 400 mt di altitudine ed esposte a nord, su una terra sabbiosa. Col Sole dei Padri ricordo infatti di avere partecipato a tante degustazioni alla cieca e ho sempre scoperto, con una certa meraviglia, che spesso risulta un prodotto non ricondotto a una terra considerata calda come la nostra. Credo ciò sia dovuto all’idea dominante, ma errata, che in quest’isola si abbia un solo clima e un solo terroir”.

Podere La Madia - Vigna Cafaggio Bianco Toscano 2019


di Stefano Tesi

E’ un lustro che assaggiai per la prima volta questo vino bio da Malvasia bianca lunga ritrovata in una vigna del 1945. Ed è passato un lustro da quando da Carlo Crocchini è mancato. 


Riassaggiarlo è stata un’emozione doppia. E una doppia conferma: da passarci ore, bicchiere in mano. Bravi Lucia e Giacomo.

Being Valdarno di Sopra DOC


di Stefano Tesi

Per una volta, anziché di vino, parliamo di produttori e del loro state of mind. Mi riferisco a quelli della Doc Valdarno di Sopra che lo scorso 16 maggio, al Borro dei Ferragamo, hanno dedicato una giornata a se stessi per spiegare al mondo e alla stampa, italiana e non, chi sono, che fanno e in che direzione vogliono andare. Oltre che, ovviamente, per far loro assaggiare i vini.


E’ stata una conferenza istruttiva, perché ha inaugurato una sorta di modo nuovo di fare non solo comunicazione, ma anche politica vinicola. O addirittura marketing politico, calibrato su una gittata esplicitamente ultranazionale. Forse un po’ autoreferenziale, come ha osservato qualcuno? Ma chi è che non è autoreferenziale, diciamo pure aziendalista, nel modo del vino? E i valdarnesi lo sono stati in maniera brillante.


Le strategie consortili - questo in sintesi il messaggio mandato all’uditorio dal presidente Luca Sanjust e dal direttore Ettore Ciancico nel passare la parola a un nutrito parterre di critici, enologi, meteorologi, funzionari, assessori, deputati europei, professori universitari e rappresentanti di Federbio, Slow Food e d.o. Cava - si muovono su quattro binari convergenti e coordinati tra loro, per trasmettere un segnale di massima coesione: l’esaltazione dell’identità territoriale, l’unicità anche climatica del comprensorio, la scelta dell’unità di vigna, con relativa dicitura in etichetta come strumento di valorizzazione dello stesso e, infine, la scelta di un biologico a 360°. Nel senso cioè di obbligatorio per tutte le aziende, erga omnes.


Un punto, quest’ultimo, talmente centrale nel progetto da essere pienamente condiviso, appunto, anche dalle imprese non consorziate. Ma finora respinto dal ministero, che ha negato la modifica del disciplinare. Questione che ha dato adito anche a qualche polemica. Chiamata in causa, la funzionaria del Mipaaf Roberta Cafiero ha sottolineato come, a livello normativo, nonostante il favorevole precedente del Cava spagnolo, la strada non è facile: “Non perché non sia virtuosa l’idea, che condividiamo, ma perché la Denominazione di Origine è una denominazione di prodotto, mentre quella del biologico è una certificazione di metodo e metterle entrambe come condizioni obbligatorie non è normativamente semplice”, ha detto. Nell’attesa, c’è stallo. Ma proprio a rimarcare la determinazione dei produttori a proseguire su questo indirizzo è stato presentato il logo della nuova associazione “Produttori VigneBio Valdarno”, che riunisce tutti i vignaioli già in regime bio: “Uno strumento di ulteriore rafforzamento per il nostro messaggio – ha affermato Sanjust – che siamo convinti ci aiuterà ad inserire il biologico in disciplinare, come desiderato e richiesto da tutti”.


Non secondario però, tra i messaggi lanciati dal Consorzio, nemmenoquello di non introdurre in etichetta sottozone tipo MGA o UGA, ma la sola indicazione “Vigna” con riferimento alle migliori vigne aziendali selezionate in base a clima, esposizione e qualità delle uve. “Il consumatore sta cambiando ed è diverso ad esempio in Usa e Asia, ma la voglia di conoscere da quale vigna viene una certa bottiglia, soprattutto per i più evoluti e che cercano vini di alto valore, sta diventando sempre più importante”, ha affermato Jeffrey Porter, responsabile per l’Italia di “Wine Enthusiast”.

Luca Sanjust - Presidente della DOC

Sia chiaro: non tutte le argomentazioni espresse al Borro mi sono parse sempre condivisibili, ma sono suonate senza dubbio coerenti con una strategia organica e ben concepita. Orientata esplicitamente anche sul versante ampelografico, considerata l’asserzione, certo non casuale, che proprio il Valdarno di Sopra sarebbe la zona di eccellenza, una sorta di sezione aurea per la produzione del vitigno toscano per eccellenza, il Sangiovese.


Solo il tempo potrà dire se tanta determinazione sarà sufficiente a portare l’immagine del Consorzio al livello considerato, ma l’unità di intenti non è da sottovalutare. Nelle more, parlano i vini. E la domanda sorge spontanea: sono loro che esprimono il territorio o è il territorio che esprime loro? Un quesito che gli assaggi delle etichette dei sedici produttori presenti in degustazione rende particolarmente vibrante.

De Zhuang e la scoperta dell'hotpot migliore di Roma


Frequentando spesso Quartino ed Astemio Wine & Food, due wine bar di Roma situati nel quartiere multietnico dell'Esquilino, Marco Wu, proprietario dei dei due locali e neo ambasciatore di Beviamoci Sud Roma, mi ha sempre spinto ad andare a trovare due suoi cari amici che da qualche tempo avevano aperto un fantastico hotpot a due passi da Piazza Vittorio. Alla sue perseveranza ho sempre bleffato facendo finta di sapere cosa sia un hotpot e la mia faccia tosta è andata avanti finchè, finalmente, non sono passato per la prima volta a visitare De Zhuang dove Giorgia Chen, figlia di ristoratori cinesi ma è cresciuta in Italia, è la grande padrona di casa.

Appena entrato la prima domanda che ho fatto alla giovane ristoratrice è stata proprio quella che tutti voi lettori vi aspettavate: "Giorgia, ma che cosa è l'hotpot?"

L’hotpot è una pentola di brodo bollente posta al centro del tavolo. Nasce come cucina povera dei marinai che nei porti trovavano ristoro con un buon piatto caldo, anche se questo significava riutilizzare gli scarti. Un concetto che oggi più che mai rientra nel tanto in voga ma soprattutto etico “no waste”. I pro dell’hotpot però a quanto pare si riversano anche nelle sue funzioni benefiche che, tramite i suoi brodi bollenti e talvolta piccanti, liberano il corpo dell’umidità trattenuta, soprattutto nelle stagioni calde.



Essenziale è però la pentola ed infatti nella piccola Cina di Via di San Vito a Roma è quella che va scelta per prima: con 1 o 2 gusti (piccante e/o dolce) o con 9 griglie che, realizzata nei tempi antichi, preservava in cottura la netta separazione dei sapori delle interiora degli animali. Si passa poi alla scelta del brodo: pomodoro e funghi porcini (ideale per un’esperienza orientale in pieno stile vegetariano), piccante e non.


Ed è questa la vera chicca dell’indirizzo romano: i 6 gradi di piccantezza fino ad un massimo di 75 gradi. Un’intensità di piccante data dall’olio del grasso animale, tutto fatto in casa, brevettato e registrato dalla casa madre come “Il grado di piccantezza del Signor Lu” - “Chi l’ha detto che il piccante si divide solo in basso, medio e alto?”.


Dopo questa spiegazione, Giorgia invita me e gli altri ospiti al tavolo perchè iniziamo a mangiare all'insegna della massima condivisione perchè cucinare e “pescare” dal piatto di qualcun altro, divertirsi, giocare con i sapori e scoprire, è il vero concept del locale.


A tavola la grande protagonista è la carne – sakura – di agnello o manzo e le interiora (coda e intestino di maiale, sanguinaccio) ma, per chi non gradisce, vi è anche una vasta proposta di pesce, verdura e pasta (spaghetti di soia, gnocchi con patate rosse cinesi) da accompagnare, se si vuole, a tante buonissime salse (satai, sesamo, ostrica, arachidi, soia, universale).


Il menù alla carta propone anche piatti già cotti (involtini, riso saltato con manzo o uova e ravioli) e dolci, a partire dalla gelatina con frutta cinese. Tante poi le bevande da accompagnare, birre e vino rosso ideali per contrastare il brodo caldo.


La sala, dagli spiccati arredi orientali e nei toni del rosso, ospita fino a 80 coperti distribuiti per 20 tavoli, tra i quali alcuni più riservati rappresentano la vera eccezione dello spirito dell’hotpot, nato invece, come già detto, per condividere.

Giorgia

Insomma da De Zhuang io mi sono davvero divertito e ho mangiato benissimo per cui il mio invito è quello di passare a trovare Giorgia il prima possibile perchè qua non c'è nulla di turistico e a Roma, credetemi, non è assolutamente scontato.

CONTATTI
Via di San Vito 15/16 Roma
TEL. 06 57297420
Aperto tutti i giorni a pranzo e a cena, tranne il martedì

InvecchiatIGP: La Scolca - Gavi Dei Gavi DOCG Riserva 'D'Antan' 2009


di Luciano Pignataro

Pregi e difetti di un paese anarcoide come il nostro: tutti a fare bollicine dalle Alpi alla Sicilia, dal Tirreno alla Ionio, con tutti i vitigni possibili e immaginabili. Siamo ben lontani dall’ordine cartesiano gallico anche se poi ritorna sempre nei nostri discorsi come esempio inimitabile, diciamo pure onirico. Intendiamoci, anche in Italia alcuni territori hanno raggiunto traguardi straordinari, ma l’aspetto più interessante per gli appassionati è anche scoprire le potenzialità che ciascun vitigno autoctono riesce poi ad esprimere con la spumantizzazione, meglio se con il metodo classico.


La Scolca percorre una strada autonoma da cento anni, dal 1919 per la precisione, molto prima che le bollicine e i vitigni autoctoni diventassero una moda o una tendenza dalla quale non si può prescindere. E diciamo la verità, se il Cortese ha raggiunto alti livelli espressivi è anche grazie alla perizia con cui Giorgio Soldati è riuscito, anno dopo anno, a dare valore a questo vitigno nel cuore di Gavi.


Parliamo della Gavi Dei Gavi DOCG Riserva 'D'Antan' 2009, provato di recente, ottenuto da uve selezionate con lieviti indigeni, lavorate in acciaio e messo in commercio in genere solo dopo dieci anni di affinamento (l’ultimo è il 2010). Colpisce in primo luogo la spettacolare complessità olfattiva che varia dalla dolcezza dei frutti esotici all’agrumato (cedro), in una piacevole cornice di note balsamiche e di leggere affumicature, ancora tostatura e zafferano, note di pasticceria. Perfetta la corrispondenza fra naso e palato dove prevalgono la sapidità (nessuna concessione alla dolcezza) e una freschezza incredibile e inaspettata che gratifica la beve e invoglia al sorso successivo. Stupendo il finale, preciso e pulito. Il vino è di buon corpo, il perlage fine e suadente, inarrestabile.


Una bellissima bottiglia che sintetizza bene l’incontro fra padronanza tecnica e le potenzialità di questi vigneti collinari, coltivati seguendo i principi della biodinamica, che rendono stupendo e ordinato il paesaggio.

Valdibella - Nero d'Avola "Respiro" DOC Sicilia 2020


di Luciano Pignataro

Libero dagli eccessi di legno, dalle surmaturazioni, da trucide estrazioni, il Nero d’Avola torna a respirare. I mezzi giustificano il fine? 


Era tempo che non bevevo questo rosso siciliano finalmente fresco con avidità senza stancarmi, la bottiglia finisce subito. Uno dei bei progetti della cooperativa che rispetta l’ambiente.

Elena Fucci e il suo Titolo alla prova del tempo


di Luciano Pignataro

Abbiamo seguito sin dalla nascita questa azienda del Vulture che ha segnato una svolta decisa nel territorio imponendo uno stile vincente, leggibile all’esterno e distensivo. In effetti, la maggior parte dei produttori di Aglianico chiede sempre un impegno mentale e uno sforzo palatale quando si approccia a questo vitigno austero che domina l’Appennino Meridionale e che ormai si affaccia sul Tirreno, sullo Ionio e sull’Adriatico con sempre maggiore insistenza.
Avete presente il senso di libertà quando si procede in controesodo, quando hai la strada vuota e di fianco ci sono lunghe file di persone che hanno deciso di fare tutti la stessa cosa allo stesso momento? Bene questa è la metafora che ben raffigura i vini di Elena Fucci.


Il padre insegnante era indeciso se vendere o meno la bella proprietà, si era in una fase di crisi nella quale non si vedevano prospettive, fu allora, siamo ai primi anni di questo millennio, che Elena decise di studiare Enologia a Pisa.  
Sin dalla 2004 il suo vino inizia a distinguersi subito dagli altri per la bevibilità, la capacità di risolvere i tannini, riuscire ad estrarre un buon frutto e regalare una piacevolezza immediatamente leggibile al vino. Una inversione di tendenza rispetto al modello imperante nel Vulture, e che sino a pochi anni prima era stato tale anche in Campania, di procedere a lunghe estrazioni, magari puntare anche su surmaturazioni, caricando oltre modo un vitigno che ha già tanto di suo.


Il Global Warming di questo ventennio ha poi favorito le aree più fredde, dove l’uva aveva difficoltà a raggiugere la piena maturazione e bisognava aspettare sino a novembre per la vendemmia esponendo il raccolto a gravi rischi.
Trentamila bottiglie da un vigneto complessivo di nove ettari a circa 500 metri su livello del mare, proprio alle falde del Vulcani che eruttò da sette bocche in maniera spaventosa circa 700mila anni fa lasciando tracce ben visibili di quel frullato geologico.

Solo da poco la produzione è stata diversificata, con un Aglianico lavorato in anfora e lo Sceg da vigne ultra settantenni salvate dall’abbandono proprio grazie a questo progetto. Sceg è una parola di derivazione albanese che indica il frutto del melograno, simbolo di fortuna e di speranza sin dall’antichità. Non dimentichiamo infatti che Barile è uno dei tre paesi (gli altri sono Ginestra e Maschito) nati con gli insediamenti degli albanesi in fuga dall’avanzata degli Ottomani. Tra gli ultimi nati, merita una citazione anche Titolo Pink.


L’occasione per tornare sulle storie di questa terra onirica e ancora tutta da scoprire è stata la degustazione organizzata al Maschio Angioino nel corso dell’ultima edizione di Vitigno Italia nel corso della quale Elena ha portato cinque annate più una.


TITOLO 2005

Procediamo dalla più antica che conferma quanto scritto sopra e, in genere, la forza dell’Aglianico che resta impassibile di fronte allo scorrere del tempo. Ancora fresco, di buon frutto croccante, lungo e piacevole nel finale

TITOLO 2006

Annata equilibrata e matura, il frutto si presenta integro, appena un po’ più maturo rispetto all’annata precedente. Il sorso è lunghissimo, la chiusura precisa e pulita.

TITOLO 2013

Facciamo un salto indietro di appena dieci anni e troviamo questo campioncino in ottima forma, pimpante, ricco di energia, con una buona acidità. Colpisce la sua grande bevibilità, Elena spiega che nel frattempo hanno leggermente cambiato il protocollo usando botti leggermente più piccole delle barrique. Sempre, comunque, in questo vino, legno e fritto sono perfettamente integrati.

TITOLO 2015

Bellissima annata che regala un vino integro, puro, leggero, equilibrato, dotato di grande verve, assolutamente al passo con i tempi. Anche in questo caso finale lungo e piacevole che invoglia a ripetere il sorso.

TITOLO 2020

Il vino prodotto durante i momenti difficili del Covid e delle chiusure, quando si viveva l’incertezza per il futuro. Anche questo, come i precedenti, coperto dai punteggi alti da parte di tutte le guide, un rating che porta Titolo sempre nella top 50 dei rossi più premiati d’Italia.

TITOLO 2017 in Magnum

Fuori degustazione, una magnum della 2017, annata sicuramente complicata e non facile da gestire, che però si presenta in ottima forma, con note di frutta fresca, rimandi basamici, buccia di arancia, appena un po’ di fumè. Al palato tannini setosi, buona acidità, chiusura lunga e piacevole.

CONCLUSIONE

Oggi Titolo è la risposta moderna agli eterni problemi dell’Aglianico: vini che vanno messi in cura dimagranti e lavorati acino su acido per cacciare vi le note verdi e amare sempre in agguato e pronte a guastare la festa. Un vino che può permettersi il lusso di costare un po’ di più per dare il giusto valore ad un lavoro interamente artigianale che oggi trova la sua celebrazione in una cantina perfettamente eco-compatibile che è diventata tappa obbligata per gli appassionati.

InvecchiatIGP: Collemattoni - Rosso di Montalcino 2013


di Carlo Macchi

Oramai il Rosso di Montalcino è un vino di cui si parla molto e su cui i produttori ilcinesi, con il consorzio in testa, stanno puntando.


L’idea è quella di un vino rosso giovane ma gagliardo, che presenti anche buone capacità di invecchiamento. Questa “versione” del Rosso di Montalcino sembra accettata da tutti ma in passato non è stato certo così. Si andava da rossi abbastanza leggeri e freschi a dei veri e propri Brunello travestiti da Rosso.
Questo Rosso di Montalcino 2013 fa sicuramente parte della seconda tendenza o forse (sto scherzando) è un Brunello che è stato etichettato come Rosso di Montalcino.


Certo è che dalla potenza olfattiva, dove ancora del buon legno deve essere completamente armonizzato e la nota balsamica e officinale è imperante ma mediata da fini note fruttate, ci si aspetta qualcosa di diverso e “di più” da un Rosso di Montalcino. Forse sarà merito anche dell’annata 2013, una delle poche fresche degli ultimi 10 anni, che mantiene in perfetta giovinezza la parte aromatica.


Al palato ritroviamo non solo freschezza ma una potenza importante con tannini adesso dolci ma presenti. Devo ammettere che in generale i vini di Collemattoni si esprimono meglio col tempo ma questo Rosso di Montalcino è ancora giovane e promette di rimanerlo per diversi anni. Se ne avete qualche bottiglia in cantina provate a stapparla tra cinque/sei anni e sono convinto che direte “Ma che bel Brunello!”

Tenuta di Castellaro - Terre Sicilane IGT "Eùxenos" 2021


di Carlo Macchi

I migliori anni della nostra vita. Gustando un vino delle Eolie torno sempre al brano di Renato Zero, perché in quelle isole, d’estate, ho avuto il privilegio di passarceli. 


Così quando ho assaggiato questa Malvasia delle Lipari in purezza maturata in anfora non dico che ho pensato “Il miglior vino della mia vita” ma…

Sicilia en Primeur, le impressioni di un enosauro di nome Carlo


di Carlo Macchi

Lo ammetto prima a me stesso e poi a voi tutti: quando mi presento a manifestazioni come Sicilia en Primeur mi sento come un dinosauro del vino (si dirà enosauro? Boh!) e mi rendo conto che il mio punto di vista, di assoluta retroguardia, mi porta a vedere le cose in maniera “antica” o forse sbagliata, non so.


Per questo non mi è facile parlare di una manifestazione come Sicilia en Primeur, in quanto oltre che enosauro sono anche responsabile di una guida vini con la conseguenza che, da maggio a novembre, i tempi miei e dei collaboratori di Winesurf sono dettati dagli assaggi per la guida. Venire a Sicilia en primeur è come stare in ferie per cinque giorni, in meravigliose ferie aggiungo, ma siamo in un periodo in cui dobbiamo “produrre” assaggi e per assaggi intendo “da guida”, cioè seriali e alla cieca e in questi bellissimi cinque giorni di assaggi di quel tipo abbiamo potuto farne molto pochi.


Se dovessi creare un format adatto a me e a pochi altri dinosauri del vino invertirei il programma, mettendo tre giornate di degustazioni bendate (del resto con quasi 300 vini da dover degustare “blind” è il tempo che ci vuole) , una di visite in cantina e una di incontro con i produttori (leggi banchini o, come si dice oggi, walk around tasting). Ma capisco che Sicilia en Primeur nasce per presentare, partendo dal vino, la Sicilia a 360° con la sua storia, i suoi panorami, la sua gastronomia e la sua gente. Questo mix la rende inossidabile ed è giusto che continui così. I colleghi esteri devono godersi questo mix per riproporlo poi sulle loro testate e presentare con varie sfaccettature e punti di vista i vini siciliani e la SICILIA.


L’ho scritto in lettere maiuscole perché questa è una terra maiuscola, nel bene e nel male: la grandezza dei suoi monumenti, dei monumentali panorami, delle sue sempre più organizzate aziende viticole in qualche caso fa a cazzotti con le monumentali buche presenti in tante strade, che rendono il girare per quest’isola un’impresa che richiede tempo, attenzione e pazienza.
Poi arrivi in cantina, giri per le vigne, assaggi i vini e dimentichi tutto, perché l’ospitalità è calda, vera, sincera, in qualche caso indimenticabile: come quando degusti ai piedi del Tempio della Concordia ad Agrigento (dopo averlo visitato!) oppure giri per colline è vigneti che si estendono a perdita d’occhio interrotti solo da pochissime case e piante d’olivo. Ti senti dentro a storie e mondi molto più grandi di te e sono momenti che valgono qualsiasi viaggio. Questo è il valore impagabile di Sicilia en Primeur e lo capisce anche un dinosauro come me.
Ma veniamo “all’angolo del dinosauro” cioè ad un punto sugli assaggi fatti in questi giorni, bendati o alla cieca.


La prima cosa da dire è praticamente scontata e cioè che la media qualitativa si è indubbiamente molto elevata, più nei bianchi che nei rossi. Sarà merito della tanto vituperata DOC Sicilia? Difficile dirlo in due parole ma sicuramente una DOC che non viene lasciata a se stessa porta sempre benefici e sinergie importanti. Questo in Sicilia e in qualsiasi parte dello stivale.


Cresce il livello medio e forse per questo vengono a mancare, in parte, quei vini dove rimanevi sorpreso e ammirato. Questo, lo ripeto, accade più per i rossi che nei bianchi. Quest’ultimi, grazie soprattutto al catarratto e, per quanto riguarda l’Etna, al Carricante, mostrano delle potenzialità che per assurdo rischiano di spostare alcuni concetti radicati dei vini siciliani. Il primo è che i bianchi di questa terra meravigliosa vanno bevuti nell’anno o poco più, mentre oramai è chiaro che se vuoi apprezzare un bianco siciliano, delle Eolie o di Pantelleria, devi aspettare almeno un anno. Spostare in avanti il punto di fruizione di bianchi anche a base grillo e inzolia può creare problemi di vendita ma forse, da buon enosauro, vedo problemi dove molte cantine vedono possibilità. Sicuramente i migliori assaggi della mia Sicilia en Primeur sono tra i bianchi e anche scambiando pareri con colleghe e colleghi mooooooolto più giovani di me ho recepito buone sintonie in tal senso.


Tra i rossi si assiste ad uno sviluppo del nero d’avola verso una bevibilità non scontata, cioè non verso rossi rotondoni e piacioni ma puntando a equilibri (anche provando a tenere l’alcolicità sotto controllo) che in passato erano molto meno presenti. Questo per me è un gran passo avanti, almeno per questo vitigno, perché se ci mettiamo a parlare di uve come syrah il discorso cambia molto e ci porta verso vini dove l’alcolicità e la pienezza sono forse troppo evidenti. A questo punto mi viene da pensare che avere in casa un vitigno da secoli ti porta a capirlo meglio di quelli che sono arrivati da qualche decina d’anni.


A proposito di uve “locali” sono stato colpito dalla straordinaria e profonda piacevolezza di alcuni Frappato, che riescono a sviluppare anche profumi di rosa, impensabili in passato.


Ho lasciato volutamente da ultime due parole sulla zona che ormai passa quasi avanti al termine “Sicilia” cioè l’Etna. Qui mi permetto di rimandarvi ai nostri assaggi, che faremo anche grazie all’aiuto del Consorzio Etna DOC e alle conseguenti riflessioni che vi proporremo tra poco tempo (almeno per bianchi e rosati). Siamo comunque in un momento importante e il futuro di questo territorio si giocherà per me nei prossimi 3-5 anni. In questo periodo, se si capirà dove dover frenare (leggi prezzi e bottiglie pesanti) e dove andare avanti con molta calma (vedi nuovi impianti), si arriverà a renderlo veramente un unicum enoico invidiabile, che potrebbe anche essere un volano commerciale per tutta la Sicilia.


Pur se sono un enosauro ho gli occhi e quindi non mi è per niente sfuggita la difficoltà di organizzare un evento del genere. Per questo mi sembra giusto ringraziare Assovini Sicilia a nome di tutte le associazioni e Consorzi che hanno permesso la sua realizzazione e Just Sicily e Ab-Comunicazione per averla rese praticamente possibile.

A questo punto sono pronto per la prossima glaciazione.

InvecchiatIGP: Vigneti Villabella - Villa Cordevigo Rosso 2005


di Roberto Giuliani

La storia di Vigneti Villabella affonda le sue radici nel 1971, quando Walter Delibori e Giorgio Cristoforetti fondarono l’azienda. Nel 2002 i due soci, già proprietari dei vigneti circostanti, acquisiscono Villa Cordevigo a Cavaion Veronese, che dopo nove anni diventa anche Wine Resort.


Questo Rosso Veronese IGT, classe 2005, proviene proprio da quei vigneti ed è composto da corvina per il 60%, cabernet sauvignon e merlot per il 20% ciascuna, vendemmiate tardivamente e leggermente appassite; affina in botti di ciliegio da 7 ettolitri e tonneaux. Prima di descriverlo ci tengo a precisare alcune cose: quella in mio possesso è una magnum, la gradazione alcolica dichiarata è del 14,5%, è rimasta conservata dal 2008 a oggi nella propria confezione in legno, coricata, al buio, ma non in cantina, quindi ha subito per 15 anni un’escursione termica fra inverno ed estate di almeno 15 gradi.

L'azienda vista dall'alto (foto:italysfinestwines.it)

La condizione del tappo era perfetta, l’ho estratto senza difficoltà, appena versato ho percepito subito note molto evolute, che paventavano un vino stanco, in declino, tanto da aver pensato fosse meglio passare ad altra etichetta. Invece è bastato farlo respirare per una decina di minuti e la musica è cambiata radicalmente, lasciandomi ben sperare.


Il colore è ancora bello compatto, certamente granato ma intenso e profondo, senza evidenti flessioni sul bordo; ve lo sto raccontando in diretta, cosa che trovo decisamente più interessante, perché posso dirvi man mano come si “muove”. Intanto quei sentori di stantio, di funghi cotti, di straccio bagnato, sono letteralmente spariti, lasciando spazio a un frutto maturo ma non marmellatoso, si coglie la prugna, la marasca, arrivano note speziate di cardamomo, cannella, tracce vegetali mature, cacao, sbuffi di tabacco e pelle conciata, richiami al sottobosco ma non in direzione dei funghi, piuttosto di piante umide. Interessante scoprire che al suo interno ha ancora tracce floreali, certamente di petali appassiti, ma nel complesso non è affatto fiacco, si sveglia sempre di più, magari riuscissimo anche noi umani a ringiovanire solo ossigenandoci…

La cantina (foto: italysfinestwines.it)

All’assaggio emerge chiaramente l’indirizzo espressivo indotto dall’appassimento, il frutto è in confettura e rilascia sensazioni dolce che lo fanno accostare a molti Amarone, senza però averne né gli eccessi alcolici né la muscolarità, ma mostrando un bell’equilibrio e una bevibilità più che apprezzabile, tanto che, non ditelo a nessuno, ne prendo un altro sorso.

Vigneti (foto: italysfinestwines.it)

È la freschezza che mi lascia maggiormente stupito, nel senso che c’è proprio una spinta acida che dà slancio al sorso, come a dire “sono ancora qui, non mollo”, e più passano i minuti più sembra ringiovanire! Sarebbe stato il vino ideale per Benjamin Button (ricordate “Il curioso caso di Benjamin Button, alias Brad Pitt?).

Baccagnano - Ravenna IGP Sangiovese "52 Fuochi" 2020


di Roberto Giuliani

In quel di Brisighella nascono anche sangiovese come questo, prodotto da Marco Ghezzi che da subito ha scelto di adottare i tappi a vite per i suoi vini. 


Il 52 Fuochi è una gioia per i sensi, fruttatissimo, succoso, fresco, con una balsamicità naturale, di quelli che bevi benissimo anche in estate.