Il Verdicchio di Matelica "Vigneto Fogliano" di Bisci declinato in sei annate storiche. Voi quale preferite?


Da grande appassionato di Verdicchio di Matelica, Bisci per me ha sempre rappresentato una azienda di riferimento grazie, soprattutto, alla serietà del lavoro agricolo ed enologico dei fratelli Giuseppe e Pierino Bisci che nel 1972 acquistarono una proprietà di oltre 20 ettari trasformandola ben presto in uno dei fari qualitativi per il vino del territorio. 


L’azienda, gestita attualmente da Mauro e Tito Bisci, figli di Giuseppe, è situata tra le province di Macerata e di Ancona e si estende su una superficie di circa 25 ettari dove troviamo in maggioranza Verdicchio, circa 18 ettari, mentre la restante parte, poco più di 2 ettari, è coltivata a Sangiovese e Merlot. Tutte le vigne, piantate ad una altitudine variabile tra i 320 ed i 370 metri s.l.m., seguono il metodo biologico: zolfo e rame sono i prodotti utilizzati e viene praticata la tecnica dell’inerbimento tra i filari. 


Durante l’ultimo press tour in terra matelicese, ho avuto la fortuna di partecipare ad una verticale storica del Verdicchio di Matelica “Vigneto Fogliano”, vero e proprio Cru, che Bisci produce solo nelle migliori annate attraverso una vinificazione in cemento vetrificato a cui segue un affinamento per 15 mesi, sempre in cemento, più almeno altri 4 mesi di bottiglia prima che il vino esca sul mercato. 


La verticale storica è partita con l’annata 2018 per finire con la 2011. Di seguito, come sempre, le mie note di degustazione comprensive di una piccola descrizione dell’annata che ho potuto inserire grazie allo stupendo database che si trova all’interno del sito dell’azienda

Bisci - Verdicchio di Matelica “Vigneto Fogliano” 2018 (100% verdicchio): l'annata 2018 a Matelica è iniziata con un inverno moderatamente freddo ed è stata caratterizzata da alcune gelate a fine stagione. In primavera sia la temperatura che le piogge sono state nella norma. L'estate relativamente calda, ha avuto varie precipitazioni con violenti temporali ma fortunatamente senza grandine. Le temperature estive hanno avuto escursioni termiche costanti con picchi di temperature elevate che raramente hanno superato i 34°C. Le condizioni meteorologiche descritte hanno portato alla produzione di uva che presentava sia un eccellente livello di maturazione che ottime condizioni ‘sanitarie’ senza alcun segno di stress idrico o termico. 


L’ultima annata in commercio del Cru si presenta, dal punto di vista organolettico, come un vero e proprio piccolo bignami di un Verdicchio di Matelica “giovane” ovvero luminoso, odoroso di frutta bianca e gialla croccante, lievemente sapido e con un tocco di anice a condire la parte aromatica. Sorso fragrante, fresco, dinamico con chiusura dove sono vivi i ritorni di mandorla. Come me l’aspettavo e cosi è! Gran vino! 

Bisci - Verdicchio di Matelica “Vigneto Fogliano” 2017 (100% verdicchio): l'annata 2017 si è stata molto anomala da un punto di vista precipitazioni e di temperature. Ad un inverno non eccessivamente freddo ma con alcune importanti nevicate è seguita una primavera con temperature medie superiori alla media e con scarse piogge ed una estate in cui si sono susseguite importanti ondate di caldo con temperature elevate e senza alcuna pioggia. Tutto ciò ha ridotto la produzione del 30% rispetto alla media delle annate precedenti ma le uve rimanente erano tutte perfette dal punto di vista sia fitosanitario che della maturazione.


Il vino, coerentemente, rispetto al precedente, risulta più largo che verticale, sa di frutta gialla matura, quasi esotica, di spezie gialle, di erbe mediterranee a cui da sfondo comincia a delinearsi un profilo aromatico che più che minerale definirei salmastro. La bocca è generosa, piena ma non morbida, a cui manca solo un piccolo slancio fresco-sapido per essere equilibrata come vorrei. 

Bisci - Verdicchio di Matelica “Vigneto Fogliano” 2016 (100% verdicchio): l’inverno 2015/2016 è stato mite e con poco pioggia. Questo ha portato ad avere una germogliatura anticipata. La pioggia sono arrivate a fine primavera. Dopodiché si sono avute piogge settimanali per tutta l’estate accompagnate da abbassamenti di temperatura. Cosa che ha favorito la maturazione aromatica delle uve bianche che, in generale, hanno dato vita a vini con buona acidità e basso pH. 


Il Vigneto Fogliano 2016, già dal colore, un giallo dorato vivo, sembra essere arrivato già ad uno stadio avanzato di evoluzione e, di conseguenza, di complessità aromatica. Infatti, il vino è magnetico ed espressivo fondendo sensazioni idrocarburiche a soffi di ginestra, pesca matura, papaia, zafferano e noce moscata. Alla gustativa è vibrante, appagante e di spessore gustativo. Finale lunghissimo, armonico e lievemente salmastro. Un Verdicchio di Matelica che si fa amare e ricordare anche se la domanda che mi pongo è:”Ma non sarà già troppo maturo per avere solo 5 anni?”…. 

Bisci - Verdicchio di Matelica “Vigneto Fogliano” 2015 (100% verdicchio): ad un inverno mite con un livello medio di piogge è seguita una primavera secca. Ci sono state buone piogge durante maggio e giugno in concomitanza con la prima fase vegetativa delle viti. Tempo ottimo si è susseguito sia a luglio che agosto caratterizzato da poche piogge. A metà settembre si sono avute piogge che sono continuate poi fino ad inizio ottobre. L’annata 2015 è una annata molto buona e molto equilibrata. 


Il colore, molto più chiaro del precedente, fa da preludio ad un naso che offre profumi di fiori bianchi poi pesca e nespola, mandorla fresca, erbe aromatiche e precisi soffi minerali. In bocca è ben accordato all'olfatto con netti ritorni di pesca, giusta spinta sapida e finale di estrema pulizia e rigore. 
Questa è stata l’ultima annata, la terza, in cui le vigne hanno completato la conversione (iniziata nel 2013) per essere certificate organiche

Bisci - Verdicchio di Matelica “Vigneto Fogliano” 2013 (100% verdicchio): un inverno nella media con poca neve. Una primavera piovosa. Una annata fresca eccetto 15-20 giorni in agosto. Si sono avute, come al solito, importanti escursioni termiche tra giorno e notte. L’azienda è al primo anno di conversione per la certificazione biologica. 


Il vino ha un profilo simile alla 2017, quindi con notevole ricchezza di frutta gialla matura, spezie, erbe aromatiche e sale. Al gusto è inizialmente avvolgente e dinamico, poi a centro bocca sempre cedere leggermente tagliando un po’ le ali ad una persistenza, purtroppo non esaltante, che non è certo un punto di forza di questa annata. 

Bisci - Verdicchio di Matelica “Vigneto Fogliano” 2011 (100% verdicchio): Il clima è stato ottimale fino a tutto luglio. Agosto è stato molto caldo e ventoso mentre a settembre e durante la vendemmia è stato buono. Nonostante non si siano state importanti escursioni termiche giorno/notte le uve erano molto sane grazie al clima asciutto. La produttività è stata molto bassa soprattutto per quello che riguarda il rapporto grappoli mosto. 


Fatte queste opportune premesse tecniche, posso dire, anche a nome di altri colleghi intervenuti durante la verticale, che la 2011 a Matelica, in generale, stupisce per eleganza ed equilibrio. Prova ne è questo buonissimo Vigneto Fogliano che in maniera ampia e sinuosa regala intensi aromi floreali di acacia, ginestra, mimosa, a cui seguono tocchi di frutta gialla croccante. Un tocco erbaceo e lampi lontani di alga marina vanno a completare il quadro olfattivo. Al sorso è giovane e gioviale, intenso, e dalla trama acido-sapida di grande serbevolezza. Finale vibrante con richiami all’agrume e al salgemma. Sicuri abbia 10 anni? Grande annata!!!

Brunello di Montalcino 2017: focus sull'annata e cinque consigli per gli acquisti!


di Andrea Petrini

Il 2021 sarà un anno che a Montalcino ricorderanno per molto tempo sia dal punto di vista climatico sia dal punto di vista organizzativo visto che l’Anteprima Benvenuto Brunello, con l’edizione numero 30 tenutasi dal 19 al 30 novembre scorsi, ha segnato una vera e propria svolta storica visto che per la prima volta, ufficialmente, i vini sono stati degustati e valutati “en primeur” visto che il Brunello 2017, la Riserva 2016 e il Rosso di Montalcino 2020 saranno messi in commercio solo a partire da Gennaio 2022. 


L’altra grande novità di questo ultimo Benvenuto Brunello ha riguardato anche la metodologia di analisi della nuova annata, valutata in stelle, che il Consorzio, nelle veci del Presidente Fabrizio Bindocci, da questo anno ha deciso di non attribuire nell’immediatezza della vendemmia ma, invece, in occasione della Anteprima 2022, dopo almeno un anno di affinamento del vino, quando il grande Sangiovese di Montalcino svelerà molte più informazioni sul potenziale effettivo della vendemmia.


Durante i due giorni di manifestazione dedicati alla stampa di settore, come di consueto, mi sono soffermato prevalentemente sull’analisi e la degustazione dei Brunello dell’ultima annata che verrà commercializzata, ovvero la 2017, giudicata a quattro stelle, che in maniera sintetica potremmo definire calda ma, soprattutto, siccitosa. Andando nel dettaglio, questo millesimo è stato caratterizzato da una primavera con temperature miti e con scarse precipitazioni, condizioni che hanno favorito un germogliamento ed una fioritura anticipata che sono stati abbastanza compromessi dalla terrificante gelata dei primi di aprile che, come tutti ricordiamo, a Montalcino ha costretto molti produttori ad andare di notte nei vigneti bruciando grandi rotoli di paglia al fine di riscaldare l’aria ed evitare ulteriori danni alle gemme. Dal mese di maggio si è registrato, via via, un aumento dei valori termici al di sopra delle medie stagionali accompagnato da una siccità che hanno raggiunto l’apice nel mese di agosto dove le vigne, già in forte difficoltà per il passato, sono spesso andate in stress idrico con conseguente arresto delle fisiologiche maturazioni. A salvare (parzialmente) l’annata è arrivata fortunatamente il 2 settembre una provvidenziale pioggia di un paio di giorni che, principalmente nella zona nord-est di Montalcino, ha rimesso le cose a posto soprattutto per quei vigneti piantati su terreni argillosi in grado di trattenere l’umidità e ridare fiato alle piante. 

Il Presidente Fabrizio Bindocci

Da quanto sopra detto potete ovviamente capire come i bravissimi vignaioli di Montalcino, complice anche un cambiamento climatico che anno dopo anno si fa sempre più tangibile, abbiano dovuto gestire una vendemmia molto difficile che non è facile sintetizzare in poche battute visto anche i diversi terroir che compongono l’areale del Brunello di Montalcino DOCG. 

All’interno de trecentesco Chiostro di Sant’Agostino di Montalcino, coadiuvato dai bravissimi sommelier AIS, sono riuscito a degustare circa l’85% dei Brunello di Montalcino 2017 presenti in degustazione (un discorso a parte meriterebbero poi i produttori assenti ingiustificati!) per i quali mi sono fatto una idea generale abbastanza chiara che, va sottolineato con forza, non può prescindere dall’assoluta gioventù dei vini esaminati i cui giudizi, che rappresentano una fotografia rigorosamente statica, possono essere facilmente rivedibili in un futuro a medio termine quando i vini avranno raggiunto il giusto grado di evoluzione. 


Fatta questa opportuna premessa la prima cosa che salta all’occhio, esaminando anche le retroetichette, è l’importante componente alcolica dei Brunello 2017 che raramente, da anni, vanno sotto i 14% di alcol soprattutto in una annata calda e siccitosa come questa dove la sfida del vignaiolo non era tanto ridurre ma gestire al meglio il grado alcolico. In questo, devo ammettere, la maggior parte dei campioni ha rispettato l’obiettivo ovvero nella maggior parte di vini degustati la componente alcolica è stata abilmente equilibrata tanto che nessun Brunello di Montalcino ha sofferto di “sbuffi alcolici”. 

Anche cromaticamente ed aromaticamente nulla da eccepire: la totalità dei vini aveva il classico colore rosso rubino brillante tipico del sangiovese di razza che, mediamente, fungeva da preludio ad un profilo olfattivo nitido, pulito, dove la frutta rossa succosa, mai troppo matura, la faceva da padrone sulle altre componenti odorose. Al sorso, come mi aspettavo, la struttura del vino, a volte imponente, spesso peccava leggermente di acidità e sapidità ma, se parliamo di componenti dure del vino, ciò in cui sono rimasto tremendamente imbrigliato ha un nome ben specifico: il tannino!! 

Foto: avvinando.tgcom24.it

Non me ne voglia il mio grande amico Carlo Macchi ma io, al contrario suo, ho trovato soventemente nei Brunello di Montalcino 2017 una componente tannica eccessivamente scontrosa, verde, tanto da diventare quasi fastidiosa. E’ chiaro, cercavo di spiegarlo anche in precedenza, questo è il risultato dell’annata siccitosa i cui effetti, mediamente, hanno generato un forte anticipo della maturazione tecnologica dell’uva su quella fisiologica con conseguenti tannini ancora immaturi in fase di vendemmia. 

Ricapitolando: i Brunello di Montalcino 2017 sono figli identitari di una annata molto complicata che ha dato vita a molti vini intricati, tannicamente tortuosi e ancora da decifrare completamente. Non mancano, fortunatamente, le eccellenze che, al momento, si distinguono per la loro immediatezza e, soprattutto, per il loro sublime equilibrio tanto da renderli emozionanti, piacevolissimi da bere e territoriali fino al midollo. 

Di questi, cinque mi hanno fatto innamorare! 

Castello Tricerchi – Brunello di Montalcino “A.D. 1441” 2017: il loro, probabilmente, era il vino che aveva il colore più scarico di tutti ma non fatevi ingannare dalle apparenze cromatiche perché questo sangiovese in purezza, proveniente zona nord di Montalcino, è profondo, graffiante, ricco di sfumature agrumate, di viola essiccata, timo e ghisa. Sorso vigoroso, pregno di fresca acidità e massa fenolica saporita. 

Fattoria dei Barbi - Brunello di Montalcino “Vigna del Fiore” 2017: i Cinelli Colombini conoscono il loro territorio a menadito e sanno, da sempre, come gestire annate complicate come questa. Il loro Brunello menzione “vigna” è un piccolo capolavoro di equilibrio, intensità fruttata corredata da eleganti note speziate e soffi di menta e liquirizia. 

Fattoi - Brunello di Montalcino 2017: giratela come volete ma nelle annate complicate, alla fine, esce sempre fuori il “manico” del piccolo vignaiolo che conosce alla perfezione come gestire i suoi nove ettari di vigneto. Il vino si rivela con sensazioni scure di rabarbaro, ginepro, pepe, per poi virare verso sentori di amarena e prugna. Tannino nobile. Armonico al sorso. 

Pietroso - Brunello di Montalcino 2017: sbuffi floreali si schiudono gradualmente verso una miscela boschiva di muschio e radici. Poi cesti di visciole ed erbe aromatiche. L’incidere gustativo si distingue per l’estrema eleganza e per un sorso teso e compatto. Finale lunghissimo con ritorni di frutta rossa succosa. 

La Magia – Brunello di Montalcino “Il Ciliegio” 2017: non sono mai stato un fan di questa azienda ma davanti ad un vino del genere bisogna solo applaudire: immediati gli accenni intriganti di frutta rossa croccante soavemente accompagnati da una delicata speziatura di pepe, anice stellato e macis; completano il quadro soffi di viola, eucalipto rifiniti da una energica vena ferrosa. Grandioso l’impatto gustativo, immediato e sostenuto da tannini serrati ma vellutati. Il corpo è al tempo stesso potente ed elegante, rifinito da un alcol perfettamente calibrato. Persistenza da record!

InvecchiatIGP: Tenute del Cabreo Folonari - La Pietra Toscana IGT 2001


di Stefano Tesi

Una cosa è assaggiare un vino molto vecchio e magari ancora ottimo o perfino entusiasmante. Un’altra è riassaggiare lo stesso vino a distanza di vent’anni, quando la memoria ovviamente ti aiuta solo a sprazzi, a lampi, a immagini che riaffiorano, a circostanze dimenticate, a sentori che non sai bene se sono veri o immaginari o forse sono solo delle tenere madeleine. Ma tu, mentre fai ruotare il vino nel bicchiere, puoi comunque compiacerti di dire “eh, che tempi”, oppure “eh, mi ricordo di quando” e così via. 


Due decenni del resto, e non lo dico solo per consolarmi, non sono un periodo così lungo da implicare che chi li rievoca sia per forza di cose già anziano. Un quarantenne non è anziano e può benissimo rammentarsi di quando di anni ne aveva la metà. 

Io, per esempio, la prima volta che assaggiai il Cabreo La Pietra Toscana IGT di Folonari, un 100% Chardonnay fatto sulle alte colline chiantigiane di Panzano, non ero ancora trentenne. E dalle schede aziendali leggo che la gloriosa, diciamo pure storica etichetta di questo “bianco strutturato” toscano vide la luce addirittura nel 1983. Insomma è stato un gran piacere fare un tuffo nel passato intrecciando assaggi e chiacchiere con Giovanni Folonari, che in occasione di una cena al fiorentino Fuor d’Acqua nell’ambito del progetto “Il gusto della sfida” dell’Istituto Grandi Marche, ha inserito nella tenzone due bottiglie di quel vino: una pimpante 2018 e una vetusta 2001. 


Perdercisi subito dentro, nella seconda intendo, non è stato difficile, complice una tonalità di giallo in indefinibile equilibrio tra l’arancione e il rosa che faceva l’occhio di triglia ai colori cangianti della catalana di crostacei a cui era stato abbinato.  
Al naso non sapevo che aspettarmi ed ecco di partenza una nota evoluta che immediatamente si stempera con eleganti ondate di funghi, melone maturo, toffees, datteri e frutta secca, il tutto molto sobrio, in una sequenza perfino ordinata, direi. 


Metti in bocca e, sorpresa, al palato ecco spuntare una residua freschezza, con un retrogusto nervoso e appena pungente, gradevole ed elegantissimo. Insomma una bevuta buona e intrigante, un ottimo ripasso della storia del vino toscano, delle mode enoiche e delle loro vicende stilistiche e commerciali. Non a caso, tra considerazioni e copiosi riassaggi, la bottiglia è finita subito. Anche se assicurano che in azienda ci sono ancora alcune decine di pezzi in vendita. 

Gli interessati sono avvertiti!!

Rocca di Castagnoli - Chardonnay Toscana IGT "Molino delle Balze" 2019


di Stefano Tesi

Ecco un’interessante interpretazione chiantigiana dello Chardonnay, fatto per metà in barriques e per metà in acciaio. 


Il legno non disturba e al naso lascia presto il posto a un melange delicato ma asciutto. In bocca ha invece una sapidità nervosa che lo rende godibilissimo. Da bere subito. O anche no.

“Non serviamo fiorentine ben cotte”, un libro tutto da....mangiare!


di Stefano Tesi

In Toscana la ciccia è una faccenda parecchio delicata.

Non tanto in termini di body shaming, come oggi potrebbe sembrare andando dietro al politicamente corretto, ma proprio in termini di carne. La cui regina è ovviamente la bistecca, ossia la cosiddetta fiorentina. Che però non esaurisce affatto il novero delle cicce toscane e dell’arte di cucinarle, argomento su cui spesso i miei conterranei trovano peraltro l’ennesimo terreno ideale per accapigliarsi.


C’è poi, sempre parlando di ciccia, un ulteriore, insidioso e assai dolente punto: viste le premesse, in Toscana è difficile trovare un soggetto più a rischio di retorica e di oleografia della carne. Qui la bistecca sta alla popolarità come Firenze o Venezia all’overtourism. La banalità, a parlarne, è dietro l’angolo. Il risaputo, idem.

Ed ecco che, in questo scenario, un bravo collega fiorentino come Guido Cozzi se ne esce con un volume da titolo quantomai significativo preso in prestito dai cartelli minacciosi che molti osti appendono nei loro locali per inibire preventivamente richieste di cottura “sconvenienti” da parte di clienti sprovveduti: “Non serviamo fiorentine ben cotte” (Sime Books 2021, 242 pagine, 24€).

In che modo, ci si chiederà, l‘autore è riuscito a sfuggire al pericolo del già visto o sentito che l’oggetto del volume può implicare? Il segreto (non per me, che conosco bene Guido, ma in generale) è stato nel fatto che Cozzi ha aggirato l’ostacolo facendo semplicemente il proprio mestiere, quello di fotogiornalista. Ha infatti fotografato ciccia, piatti, persone, animali, attrezzi e situazioni con un realismo vivido che, senza perdere un milligrammo del fascino dell’immagine in sè, non ha mai nulla di finto e sta in equilibrio tra minimalismo e opulenza, cronaca e suggestione.


E soprattutto, non essendo uno specialista del food, ha agito come ogni buon giornalista dovrebbe agire: sapendo di non sapere, ha indagato, chiesto in giro, intervistato chi della materia se ne intende davvero. Facendo insomma in modo che, alla fine, di ciccia e dintorni non parli lui, ma coloro che (è il caso di dirlo) ne masticano: un’istituzione della macelleria toscana come Stefano Bencistà della celebre Macelleria Falorni (sue anche le 40 ricette di “ciccia doc” in tutte le salse, dalla trippa all’arrosto girato, dalle palle di toro ai fegatelli, che lardellano il libro), norcini, artigiani dei coltelli da carne, cuochi, massaie, allevatori, cacciatori e anche un enologo di grido come Stefano Chioccioli per gli immancabili “abbinamenti” vino-carne.

Il risultato è un volume godibile e persino versatile: la veste grafica è curata, le foto splendide, l’impaginazione vivace, la copertina cartonata e la rilegatura solida paiono ideali sia per resistere alla consultazione “militante” in cucina che per non sfigurare come libro-strenna da libreria o da salotto. Il prezzo, viste la qualità e la corposità generali dell’opera, è assai accessibile. E i contenuti – cosa più importante di tutte – sono corretti, leggibili, senza sbavature, asciutti e puntuali. Nel libro si conversa di ciccia, non si impongono ponderose inchieste o approfondimenti abissali.


Un’ultima nota: “Non serviamo fiorentine ben cotte non è però nemmeno una sguaiata celebrazione sibaritica, un’esortazione alla crapula. Non mancano le notazioni sociali e le riflessioni sulle radici profonde che storicamente legano un alimento ricco come la ciccia a una terra alla fin fine povera come la Toscana. Il che non guasta.

InvecchiatIGP: Edi Kante - Chardonnay 1997


di Luciano Pignataro

C’è un tesoro in Italia ma pochi intenditori lo hanno capito e ne approfittano: i vini bianchi italiani in alcune regioni invecchiano alla grande. Stavolta siamo in Friuli da una vecchia conoscenza tra gli amanti del genere, Edi Kante che dal 1980 imbottiglia buonissimi bianchi capaci di sfidare il tempo sul Carso, territorio particolarmente vocato in questo segmento. C’è stata la fase tra gli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 in cui il Friuli era indeciso su che strada incamminarsi, molti hanno immaginato una seconda Borgogna con l’uso abbastanza eccessivo dei legni, poi il bivio che ha visto da un lato lo stile alla Gravner, dall’altro un ritorno alla freschezza e alla mineralità, giocata soprattutto sugli autoctoni. 

Ecco perché quando Gianni Piezzo, esperto e navigato sommelier della Torre del Saracino di Gennaro Esposito, mi ha proposto  lo Chardonnay di 24 anni fa non ho resistito e ho detto subito di sì. Ricorderete che la 1997 fu definita l’annata del secolo, soprattutto per la sua eccezionale regolarità. Il vino nasce da un vigneto a 250 metri in una zona fresca del Carso triestino con una reso di meno di un chilo per pianta, si parla di 700 grammi circa. 


Copio e incollo il protocollo di produzione: f
ermentazione in assenza di solforosa e permanenza in barrique vecchie per 12 mesi. Successivo assemblaggio in acciaio per una naturale stabilizzazione. Affinamento e maturazione, i passaggi decisivi, avvengono in bottiglia in condizioni di cantina naturali a 12 gradi di temperatura costanti in una cantina, scavata nella roccia, che ricrea le medesime condizioni di umidità, temperatura e pulizia delle cavità carsiche. L’imbottigliamento avviene senza filtrazioni. 

Il risultato dopo tanti anni è ben spigato dalle righe che ci precedono. Mentre l’uso eccessivo del legno ha presentato molti bianchi friulani stanchi all’appuntamento con lo stappo, in questo caso la freschezza è quasi integra, avvolta in una incredibile complessità olfattiva che rimanda alle note di pasticceria, al miele, alla nocciola tostata, in un corredo leggermente fumè. Nessun segno di cedimento, la beva è vibrante, precisa, pulita e termina con una piccola nota amara che ripulisce il palato. 

Edi Kante - Foto: Vinopuro.com

C’è poco da dire, lo Chardonnay quando viene rispettato è davvero una grande uva ovunque venga piantata. Ecco dunque, un piacere immenso, che un bianco giovane non potrà mai regalarti. Questo vino vivo, bevuto insieme a cari amici in una giornata piovosa e autunnale in riva al mare così lontano dai luoghi di produzione, ci ha riconciliato con noi stessi, portandoci verso quella piacevole atarassia in cui, come primo segale positivo, non guardi più il telefonino e l’orologio e ti lasci andare.

Territorio de' Matroni - Lacryma Christi del Vesuvio DOC Bianco 2017

Dopo aver girato e vendemmiato in mezzo mondo, Andrea Matrone è tornato nella proprietà di famiglia a Boscotrecase fra fossati lavici e vigneti. 


Questo bianco del 2017 da uve caprettone e falanghina, non filtrato, 
regala il sapore genuino della frutta vulcanica, con la tipica nota amara finale. Vivo e giovane anche a quattro anni dalla vendemmia.

www.catinematrone.it

Il mare, Gennaro Esposito e quel Brunello di Montalcino 1998 di Bondi Santi

di Luciano Pignataro

Ed eccoci qui, in riva al mare, quello romantico e intimo di novembre con nuvole e un po’ di pioggia. E poi la grande cucina di Gennaro Esposito: le condizioni ideali per esaltare la generosità di Antonella Amodio che ha serbato questa bottiglia donatale personalmente da Franco Biondi Santi. 


Era il 1998 e Montalcino era ormai decollata grazie ad un’abile azione di marketing, la celebrazione delle annate iniziate con la posa delle mattonelle d’autore a iniziare dal 1992, il vino italiano prendeva consapevolezza di se stesso e si scatenavano le prime violente polemiche fra chi aveva introdotto la barrique, i modernisti, e chi continuava a lavorare l’uva tra vasche di cemento e botti grandi di Slavonia, i tradizionalisti. 

L’annata 1998 è segnata ufficialmente con quattro stelle, una di meno rispetto alla straordinaria 1997 ma lanciata con eguale entusiasmo anche se Veronelli avvertì ad aspettare gli esiti di cantina di una stagione particolare a causa di una prolungata siccità nei mesi di luglio e agosto che portarono ad un anticipo di vendemmia. 

La Riserva 1998 fu trattata con i guanti da Franco Biondi Santi, erede della famiglia che aveva creato il Brunello di Montalcino selezionando i cloni adatti di Sangiovese grosso, assolutamente indifferente alle mode del momento: le uve erano quel dl Greppo, dalle viti più vecchie piantate negli anni ’70. Tre anni di affinamento in botti di rovere di Slavonia, lungo affinamento in bottiglia e voilà. 


Quando si ama il vino certe bottiglie vengono aperte con emozione e rispetto, ciascuno di noi ha conosciuto Franco. Biondi Santi rimanendone affascinato, Antonella ci ha addirittura lavorato per un periodo. Impossibile non pensare alla sua mano che tocca questa bottiglia. Gianni Piezzo, il sommelier di Torre del Saracino, l’apre lentamente ma con mano sicura: il tappo è assolutamente integro e il vino, rosso rubino scarico con riflesso arancione inizia il suo ultimo viaggio nei bicchieri. 

Gennaro Esposito

Si dice che si beve con il naso, e questa 1998 si presenta in effetti con rimandi di frutta rossa di bosco, note tostate, caffè e nocciola, foglie di ciliegio secche, persino una nota agrumata di arancia e di cenere. Un naso autunnale, è il caso di dire, suggestionati dal tempo che assedia la sala del ristorante. I ricordi delle prime anteprime di Brunello, un mondo completamente diverso da oggi, senza social, senza computer, la nascita di un terroir che ha saputo valorizzarsi come pochi altri in Italia dopo la crisi del Metanolo, l’attenzione del mercato americano, i primi incontri e l’entusiasmo di essere protagonisti di una svolta epocale che si poteva toccare con mano e raccontare. 

Franco Biondi Santi

Al palato il vino è integro, avvolgente, matura, la fusione di tutte le componenti, compreso il legno di rovere, è semplicemente perfetta, la freschezza rivela una vocazione alla longevità quasi eterna, come se avessi aperto una bottiglia troppo giovane. In realtà la mia idea è che era proprio questo il momento per aprirla, non solo per le condizioni organolettiche, ma perché le bottiglie sono sempre aperte al momento giusto quando il contesto è in grado di capirle e di onorarle. 

C’è una nota crepuscolare in questo racconto, saranno gli anni che sono passati così velocemente, ma forse la consapevolezza di non riuscire a rivivere a livello istintivo questi momenti pionieristici in cui l’Italia del vino si è fatta conoscere nel mondo no più solo per i fiaschi. Ma anche la gioia di averli vissuti e di poterli ancora raccontare, così, all’improvviso...

InvecchiatIGP: Poggerino, Chianti Classico 1989


di Carlo Macchi

Bastava guardare l’etichetta di questo Chianti Classico per farsi un’idea della vendemmia 1989, sicuramente una delle peggiori dal 1970 ad oggi. L’etichetta, che riusciva a far leggere a malapena solo il nome della cantina e l’annata, ricordava molto da vicino l’uva che in quella tremenda vendemmia arrivava in cantina, sotto giornate di pioggia. 


La 1989 è stata una vendemmia lontana anni luce da quelle attuali: intanto il Chianti Classico era un vino molto poco conosciuto nel mondo e incominciava in quegli anni ad affacciarsi con successo sul mercato internazionale. Nel territorio del Chianti Classico le strade bianche erano la maggioranza e anche per arrivare da Poggerino, dal giovanissimo Piero Lanza, i chilometri di sterrato non erano pochi. Le cantine non erano certo quelle di oggi, dove la pulizia e la tecnologia dettano legge, e già questa piccolissima cantina di Radda in Chianti era quasi una mosca bianca in quanto a (semplici) attrezzature di cantina. 


Ma la cosa veramente diversa era il clima. Anche se arrivata tra due grandi vendemmie (1988-1990) la 1989 non fu solo un’annata fredda e piovosa ma fu figlia di un periodo che, tolto le due annate suddette, rappresentò quasi una miniglaciazione chiantigiana. Dal 1986 al 1995 solo due annate su dieci ebbero clima favorevole, le altre furono nella migliore delle ipotesi fredde o fresche, se non anche piovose. Quindi alcolicità basse (12° era già un bel risultato per la zona di Radda, e non solo) acidità alte, vini piuttosto scontrosi nei primi anni e possibilità di invecchiamento per i vini base quasi non considerate. Solo oggi, riassaggiando i vini di quel periodo, si scoprono delle vere chicche, anche e soprattutto nei chianti classico “base”, quei vini fatti bene e non gravati dal peso delle prime esperienze con la barrique. 


Questo 1989, aperto quasi per scherzo, si è presentato sin da subito in ottima forma: aromi terziari sviluppati (terra bagnata, funghi, tartufo) ma nessun segno di ossidazione o di cedimento. La stessa cosa in bocca, dove un’acidità ancora pimpante dettava le regole a tannini oramai soffici ma vivi e dove il poco alcol dava una sensazione di rotondità subito però affiancata e superata da un’elegante sapidità. 


Stiamo parlando di un Chianti Classico di 32 anni, fatto con poca tecnica ma tanta attenzione in una delle zone più alte di Radda in Chianti, da vigneti impiantati durante i Piani Feoga dei primi anni Settanta e quindi fatti per fare quantità e non qualità (oggi probabilmente sono stati reimpiantati da tempo), durante una vendemmia tragica. Questo fa capire quanto il Chianti Classico “base”, quanto il sangiovese chiantigiano, possano dare nel tempo. 

Tanto di cappello a Piero Lanza, perché un vino del genere fu allora un difficile ma meraviglioso punto di partenza per la realtà che oggi è Poggerino.

Alessandro Motta - Vino Bianco Lazzardo


di Carlo Macchi

Un Moscato secco passato in legno? Un azzardo! E invece è stata una grande sorpresa! Naso “da moscato” ma con aromi più eleganti e senza alcun ricordo del legno, bocca fresca, sapidissima e niente finale amaro. 


Lazzardo di Alessandro Motta, anche ottimo produttore di Barbera d’Asti, è riuscito pienamente.

Le Due Lanterne a Nizza Monferrato: evviva la tradizione!!


di Carlo Macchi

Se dici Nizza viene subito in mente la bella cittadina francese sul mare, basta però aggiungere Monferrato e dal mare passi a “Quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così” che, secondo Paolo Conte, hanno quelli di queste zone quando il mare lo vedono.  Nella Piazza centrale di Nizza, un quadrato praticamente perfetto, la faccia un po’ così ce l’abbiamo noi, ma la causa è la fame. Le Due Lanterne diventa quindi il porto sicuro dove approdare. 


Il locale non è certo grande ma ha due sale abbastanza spaziose, rese ancora più vivibili da giusti spazi tra i tavoli. La cucina è dichiaratamente ancorata alla tradizione piemontese e il menù, ci dicono, non ha grandi variazioni se non quelle dovute alla stagionalità. 

Cardo Gobbo

Questo è il momento del cardo gobbo di Nizza e per questo ci fiondiamo sia sul cardo gobbo con peperone e bagnacauda, nonché sul Soufflè di cardo gobbo con fonduta. Il soufflé è indubbiamente saporito ma il nirvana si raggiunge con il cardo gobbo con peperone e fonduta, un insieme di sapori e di consistenza da brivido e da chilo di pane da consumarci assieme. 

Tajarin

I tajarin al ragù di salsiccia sono la logica prosecuzione nella tradizione e a questo punto vi fornisco la mia personale scala di valutazione di un piatto di tajarin: ferma restando la bontà del ragù un tajarin di alto livello si differenzia da un buon tajarin perché solo il primo può essere “aspirato” in bocca. Ha cioè quella giusta consistenza, punto di cottura e il condimento lo rende assolutamente non colloso ma flessibile, rilassato e armonico, che il tutto permette di goderselo non mettendo in bocca la forchetta ma aspirandolo e facendolo scivolare in gola , goduriosamente, dalla forchetta stessa. Quello delle due lanterne era così e quindi tre piatti centrati su tre. 


Per secondo un ottimo coniglio all’Arneis (le ossa spolpate nel piatto testimoniano la sua bontà) è quasi una scelta obbligata, come del resto il carrello dei formaggi con, non si transige, la cugnà piemontese fatta in casa (quella con le nocciole dentro). Tutto questo in poco più di un’ora perché il servizio è molto attento ma per niente invadente. 

La carta dei vini è ovviamente incentrata sul Nizza e sulla Barbera ma abbiamo apprezzato anche la presenta di ottime etichette langarole a prezzi veramente molto interessanti.  Il conto sarà interessante pure lui, perché prendendo tre piatti (senza vino) non spenderete più di 35 euro. 


Con la pancia piena e bella tonda torniamo nella piazza quadrata di Nizza e prima di montare in auto la frase che mi gira in testa è “Le due Lanterne sono proprio la quadratura del cerchio!”

Torna Benvenuto Brunello: 11 giorni dedicati ad operatori del settore ed appassionati (19-29 Novembre)


Undici giornate di degustazioni con 119 cantine per un totale di 4000 bottiglie di vino pronte a essere stappate. È ‘Benvenuto Brunello’, l’evento capostipite delle anteprime italiane che, in occasione dei suoi 30 anni, debutta con un format autonomo e sicuro nell’inedita collocazione autunnale. L’evento, suddiviso in 6 tappe dal 19 al 29 novembre con quartier generale al Chiostro Sant’Agostino del borgo medievale, vede il Consorzio del vino Brunello di Montalcino tenere a battesimo il Brunello 2017, il Brunello Riserva 2016 e il Rosso di Montalcino 2020. Tra le referenze, anche gli altri due vini della denominazione: Moscadello e Sant’Antimo.


Si parte il 19 e 20 novembre con il primo weekend dedicato esclusivamente alla stampa nazionale e internazionale, già sold-out da mesi. Sono circa 90 i giornalisti selezionati, tra italiani ed esteri provenienti da Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Cina, Russia e Polonia, mentre Germania, Francia, Svizzera e Olanda rappresentano il territorio europeo. Non solo degustazioni per l’apertura del palinsesto targato ‘Benvenuto Brunello’. Infatti, oltre alla presentazione del calice ufficiale del Consorzio (19 novembre, ore 12.00), la valutazione della vendemmia di quest’anno e il Premio Leccio d’Oro, anch’esso alla 30^ edizione, sono i temi al centro del convegno in programma sabato 20 novembre (Teatro degli Astrusi, ore 11.00). Nel pomeriggio, il talk show sui ‘30 anni di Benvenuto Brunello’ e la presentazione della Piastrella della vendemmia 2021.

Domenica 21 novembre è la data apripista degli appuntamenti per winelover e operatori del settore, a cui sono riservate altre 5 giornate (dal 25 al 29 novembre, dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00; biglietteria online sul sito del Consorzio).

Al 30° Benvenuto Brunello, spazio anche alle valutazioni delle nuove annate da parte di quasi 90 sommelier e patron di ristoranti stellati a cui si aggiungono dieci Master of Wine, gli esperti della più autorevole e antica organizzazione dedicata alla conoscenza e al commercio del vino con sede a Londra (22 novembre). Tra le sessioni dell’evento di presentazione delle nuove annate del Consorzio del vino Brunello di Montalcino, anche quella in versione social con 50 tra influencer ed enoblogger (23 novembre) e quella riservata ai produttori del Rosso principe dei vini toscani (24 novembre).

InvecchiatIGP: I Capitani, Irpinia Bianco Faius 2013


di Roberto Giuliani

Chi conosce Ciriaco Cefalo e suo figlio Antonio, sa bene che in casa I Capitani, i vini bianchi sono trattati alla stregua dei rossi, concepiti per durare nel tempo. Il problema è sempre stato quello di doverli valutare giovani, appena usciti, perché è quello il momento in cui devi scriverne, affinché qualcuno poi possa trovarli in commercio. Così è accaduto molte volte che con Antonio ho dibattuto sulla questione, poiché un bianco come il Faius, che nell’annata 2013 era composto da fiano al 50% e greco e falanghina per la restante parte, maturati in barrique per circa 8 mesi, dà il meglio di sé dopo almeno 4-5 anni. Un peccato per chi approccia questo vino con l’intento di berlo appena acquistato. 

Azienda Famigliare!

Del resto non si può pensare di lasciarlo in cantina per anni, invenduto, anche perché, soprattutto con i bianchi non c’è ancora oggi né una ristorazione illuminata né un sufficiente numero di consumatori disposti ad acquistarli con un’annata “vecchia”. Così, l’unico lavoro che quelli come me possono fare è, quando è possibile, raccontare questi vini “prima e dopo”, in modo da offrire una lettura ad ampio spettro delle loro caratteristiche nel tempo. 


E il Faius 2013, Irpinia DOC, non può non essere raccontato, sono vent’anni che conosco l’azienda e so bene di cosa è capace questo vino. Anche questa volta non mi ha deluso, rivelando una ricchezza e una profondità da vero cavallo di razza. Impressionante quanto è espressivo dopo solo pochi minuti dall’averlo versato nel calice: spazzata via la fisiologica riduzione, emerge un quadro che spazia da melone galia e albicocca canditi a scatola di sigari, dalla mandorla tostata al miele di zagara e castagno, fino a slanci verso i tropicali mango, papaia e guava, ma si potrebbe andare avanti per molto perché è davvero complesso. Il tutto estremamente vivo, non ossidato o stanco, percezione che non cambia all’assaggio (rigorosamente sopra i 13 °C), dove la base acida che lo ha sorretto in questi 8 anni è ancora percepibile, ben fusa con la polpa che ne trae vantaggio scansando eccessi terziari che ne determinerebbero la possibile discesa. 


Invece tutto è in sintonia, direi armonico, integro e generoso, come non sarebbe mai potuto essere nel 2015, quando è uscito. Del resto o iniziamo a capire una volta per tutte che in Italia ci sono fior di vini bianchi longevi, o tanta meraviglia non la troveremo mai.

Château du Cleray - Famille Helfrich - Sauvion Haut-Poitou Sauvignon Blanc 2020


di Roberto Giuliani

Les Grands Chais de France, fondato nel 1979 dalla Famille Helfrich è il primo esportatore di vino francese nel mondo. 


Questo Sauvignon proviene dal dipartimento di Vienne, terreno calcareo, costa una decina di euro e profuma di peperone giallo, mela verde, lime e pompelmo. Bocca succosa e sapida.

InvecchiatIGP: Villa di Geggiano, Chianti Classico Riserva 2007


di Andrea Petrini

La Villa di Geggiano, di proprietà della famiglia Bianchi Bandinelli dal 1527, si trova a circa 6 km da Siena e, dal punto di vista vitivinicolo, si trova in pieno Chianti Classico, tra i vigneti del comune di Castelnuovo Berardenga. La struttura, che in origine consisteva in un casale con due torri, deve il suo aspetto maestoso oggi grazie a radicali rifacimenti e restauri effettuati tra il 1780 ed il 1790 e da allora, grazie anche ad una disposizione testamentaria di Giulio Ranuccio Bianchi Bandinelli che vietava la possibilità di porre in essere modifiche, la villa è rimasta sempre la stessa, compresi gli eleganti arredi e decorazioni settecentesche in stile “veneziano rustico” con motivi ornamentali tratti dalle Carte di Francia e dalle stoffe Toile de Jouy che rivestono le pareti di alcune sale. 


La Villa di Geggiano (utilizzata da Bernardo Bertolucci come set del film “Io ballo da sola”), dichiarata Monumento Nazionale nel 1976, è anche una apprezzata azienda agricola le cui origini risalgono al 1725 quando Niccolò Bandinelli, che da anni produceva vino nelle cantine della Villa, iniziò ad esportare in Gran Bretagna. Oggi, i fratelli Andrea e Alessandro Boscu Bianchi Bandinelli, e il socio Malcolm Caplan, seguono i principi dell'agricoltura biologica nella gestione dei circa 50 ettari di vigneto dai quali, ogni anni si producono circa 40.000 bottiglie. 

Andrea Boscu Bianchi Bandinelli

Pochi giorni fa, durante un press tour a Castelnuovo Berardenga, ho potuto degustare il Chianti Classico Riserva 2007 di Villa di Geggiano che mi è piaciuto talmente tanto che ad Andrea Boscu Bianchi Bandinelli ho chiaramente detto che avrebbe trovato la recensione all’interno di InvecchiatIGP. 


Questo Chianti Classico Riserva, blend di sangiovese (95%) e cabernet sauvignon (5%), dal punto di vista organolettico rappresenta l’esempio di lampante di come un vino possa assomigliare a chi lo produce. Dal punto di vista aromatico il vino vanta un corredo olfattivo molto raffinato ed austero, accomodato su sensazioni di piccole bacche scure, fiori rossi secchi, macchia mediterranea, cuoio, tabacco da pipa, sandalo ed humus. Al sorso è ancora assolutamente integro, in equilibrio, un raro vestito da sera che ammalia con gentilezza tannica e freschezza minerale. Coerente nei rimandi olfattivi di legni antichi e cuoio. 

Un Chianti Classico Riserva che dimostra come il tempo sia solo un buon amico per i grandi vini italiani. 

Fattoria Carpineta Fontalpino – Chianti Classico “Fontalpino” 2019


di Andrea Petrini

Se il territorio di Castelnuovo Berardenga, in Chianti Classico, si caratterizza per la sua grande luminosità, allora questo Fontalpino, prodotto dalla bravissima Gioia Cresti, ne è l’esatta fotografia. 


Questo sangiovese in purezza è fulgido e leggiadro come un passo di danza classica e fa della beva, assolutamente irresistibile, il suo punto di forza.

Vertis, il Verdicchio di Matelica di Borgo Paglianetto alla prova del tempo


di Andrea Petrini

Con poco più di due milioni di bottiglie prodotte da 19 produttori di vino, l’areale del Verdicchio di Matelica si estende per circa 300 ha attraverso i comprensori di 8 comuni (Matelica, Esanatoglia, Gagliole, Castelraimondo, Camerino e Pioraco nella provincia di Macerata; Cerreto D'Esi e Fabriano in quella di Ancona), nel cuore dell’Alta Vallesina, la sola vallata marchigiana con disposizione Nord-Sud. Un posizionamento parallelo e chiuso rispetto al mare e quindi alla sua azione mitigante, in cui si viene a creare un microclima diverso rispetto a tutte le altre vallate regionali: continentale nelle ore notturne e quindi capace di preservare al meglio l’acidità delle uve; mediterraneo durante il giorno, con un irraggiamento che esalta il contenuto zuccherino degli acini. Proprio queste particolari condizioni, unite ai terreni calcarei e all’altitudine dei vigneti (tra i 400 e gli 850 metri sul livello del mare), influenzano il ciclo vitale del Verdicchio e conferiscono alle uve caratteristiche peculiari che identificano in maniera inequivocabile i vini di Matelica. 


Tra le aziende più rappresentative del territorio, conosciuta già anni fa grazie alla mia continua frequentazione marchigiana, c’è sicuramente Borgo Paglianetto, nata nel 2008, che attualmente si estende per circa 25 ha all’interno delle colline matelicesi le cui uve sono certificate biologiche così come anche tutti i processi di vinificazione e cantina. 


All’interno del suo catalogo prodotti, che prevede ben sei tipologie di Verdicchio, compreso uno spumante metodo classico, il Vertis è stato sempre il vino aziendale che mi ha regalato più emozioni per cui sono stato piacevolmente sorpreso quando, grazie ad Alberto Mazzoni, direttore dell’IMT, è stata organizzata in cantina una verticale storica di questo Verdicchio di Matelica che normalmente viene vinificato ed affina in acciaio per 8 mesi e viene messo in commercio dopo successivi altri 4 mesi. 


Prima di dare qualche info sulle varie annate degustate (dal 2019 fino al 2008) una piccola curiosità sul nome: Vertis deriva dal latino “vertere” (“volgere”) e sta a significare “il punto più alto” ovvero, secondo Borgo Paglianetto, la massima espressione del vitigno di appartenenza grazie anche ad uve proveniente dai vitigni più vecchi, di oltre venti anni, ed esposti a sud. Di seguito le mie note di degustazione che, causa numerose annate, per non annoiarvi troppo, saranno abbastanza sintetiche. 


Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2019
(100% verdicchio): l’essenza del Verdicchio matelicese è tutta in questo bicchiere che contiene un vino luminosissimo, essenziale, teso, agrumato, piacevolmente minerale e con un finale lungo e leggermente ammandorlato. Vino che, presso una scuola sommelier, porterei come esempio didattico del territorio di Matelica vestito di bianco. 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2018 (100% verdicchio): rispetto al precedente ha un naso meno “squillante” e verticale, c’è meno tensione ma più complessità visto che alla frutta bianca croccante si aggiungono erbe aromatiche, salvia su tutte, e cenni di camomilla. Sorso di grande equilibrio e piacevole chiusura sapida. 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2017 (100% verdicchio): l’annata calda e secca non ha certo aiutato i Verdicchi di Matelica che, come questo Vertis, risultano spesso rotondi, “paciocconi” senza essere però, lo sottolineiamo più volte, seduti. Sorso piacevole a cui manca solo un po’ di freschezza e dinamismo in chiusura. 


Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2016 (100% verdicchio): l’annata particolarmente classica, come dicono quelli bravi, regala un Vertis che ha forza e armonia al tempo stesso. Sa di frutta gialla polposa, succosa, quasi esotica, ha cenni di anice e soffi salmastri. Di impatto alla gustativa ma rimane di equilibrio circense e termina con un finale salino e austero. 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2015 (100% verdicchio): dopo la prorompente 2016, questa annata di Vertis sembra leggermente sottotono ma solo perché il vino si veste di eleganza floreale e di sensazioni di selce bagnata che ritrovo specialmente alla beva, soave, che disegna un Verdicchio di Matelica come una dolcissima ballerina che danza sulle punte dei piedi. 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2012 (100% verdicchio): figlio di una annata calda salvata in extremis da gradevoli e costanti piogge settembrine, questo Vertis, dopo quasi dieci anni, subisce una evoluzione piacevolmente anomala visto che tira fuori aromi idrocarburici e di erbe medicinali che lo fanno somigliare aromaticamente ad un riesling della Mosella. Sorso coerente, austero, non di grande persistenza. 


Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2011 (100% verdicchio): l’annata ottimale, con solo il mese di Agosto molto caldo, regala a Matelica, in generale, e a Borgo Paglianetto in particolare, un Verdicchio di gioventù pazzesca i cui caratteri aromatici e gustativi somigliano molto a quelli del 2019. Vino di classe cristallina ed emozionante da comprare a casse…..se lo trovate! 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2008 (100% verdicchio): primo anno di produzione del Vertis che dopo 23 anni pecca leggermente in terziarizzazione spinta che esprime sentori di frutta secca, caffè e cera d’api. Sorso ancora importante che inizia però a sgranarsi e a mostrare tutti i segni dell’età.