di Luciano Pignataro
C’è
un tesoro in Italia ma pochi intenditori lo hanno capito e ne approfittano: i
vini bianchi italiani in alcune regioni invecchiano alla grande. Stavolta siamo
in Friuli da una vecchia conoscenza tra gli amanti del genere, Edi Kante che
dal 1980 imbottiglia buonissimi bianchi capaci di sfidare il tempo sul Carso,
territorio particolarmente vocato in questo segmento. C’è stata la fase tra gli
anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 in cui il Friuli era indeciso su che strada
incamminarsi, molti hanno immaginato una seconda Borgogna con l’uso abbastanza
eccessivo dei legni, poi il bivio che ha visto da un lato lo stile alla
Gravner, dall’altro un ritorno alla freschezza e alla mineralità, giocata
soprattutto sugli autoctoni.
Ecco perché quando Gianni Piezzo, esperto e
navigato sommelier della Torre del Saracino di Gennaro Esposito, mi ha
proposto lo Chardonnay di 24 anni fa non
ho resistito e ho detto subito di sì. Ricorderete
che la 1997 fu definita l’annata del secolo, soprattutto per la sua eccezionale
regolarità. Il vino nasce da un vigneto a 250 metri in una zona fresca del Carso triestino con una
reso di meno di un chilo per pianta, si parla di 700 grammi circa.
Il
risultato dopo tanti anni è ben spigato dalle righe che ci precedono. Mentre
l’uso eccessivo del legno ha presentato molti bianchi friulani stanchi
all’appuntamento con lo stappo, in questo caso la freschezza è quasi integra,
avvolta in una incredibile complessità olfattiva che rimanda alle note di
pasticceria, al miele, alla nocciola tostata, in un corredo leggermente fumè.
Nessun segno di cedimento, la beva è vibrante, precisa, pulita e termina con
una piccola nota amara che ripulisce il palato.
C’è poco da dire, lo Chardonnay
quando viene rispettato è davvero una grande uva ovunque venga piantata. Ecco
dunque, un piacere immenso, che un bianco giovane non potrà mai regalarti.
Questo vino vivo, bevuto insieme a cari amici in una giornata piovosa e
autunnale in riva al mare così lontano dai luoghi di produzione, ci ha
riconciliato con noi stessi, portandoci verso quella piacevole atarassia in
cui, come primo segale positivo, non guardi più il telefonino e l’orologio e ti
lasci andare.
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