InvecchiatIGP: Marco Capitoni - Orcia Doc 2005


di Carlo Macchi

Se, per assurdo, Marco Capitoni incontrasse se stesso ad una presentazione dei suoi (loro) vini potrebbe esserci più di un battibecco perché la sua (loro) disarmante onestà intellettuale porterebbe a situazioni del tipo.

Marco 1: “La 2005 è stata una buona annata.”

Marco 2: “Proprio buona-buona no, poi abbiamo fatto troppi interventi in vigna e in cantina”

Marco 1: “In effetti potresti avere ragione, però il vino è venuto bene”

Marco 2: “E’ venuto bene ma poteva venire meglio perché le vigne erano solo al quarto anno.”

Potrei andare avanti così per parecchio ma credo abbiate capito che, rimettendo assieme i due Marco otteniamo una persona di una sincerità disarmante e con una passione ( lo so che il termine è inflazionato ma qui bisogna usarlo) incredibile per il suo lavoro. Il suo lavoro si svolge nella DOC Orcia, cioè in quella terra meravigliosa che sta tra due denominazioni famosissime come il Brunello di Montalcino e il Vino Nobile di Montepulciano. La famiglia di Marco ha sempre avuto la terra e la vigna e Marco ha quindi seguito una strada quasi segnata, sviluppandola però dal punto di vista tecnico in vigna e in cantina e ampliandola.


Oggi Capitoni è una cantina tradizionale che però propone molte innovazioni: è stata una delle prime ad usare gli orci in terracotta ed è sicuramente la prima ad utilizzare una vasca in vetro di un metro cubo per produrre un rosso assolutamente senza solfiti aggiunti che fermenta e matura in assenza assoluta di ossigeno. Quindi è un innovatore ma è anche tradizionalista perché i suoi vini hanno la ruvida e sana tannicità dei vini di questi luoghi, anche quando nel sangiovese si mette un po’ di merlot.


E’ proprio il caso dell’Orcia DOC 2005 (sangiovese 80%, merlot 20%) che ho assaggiato pochi giorni fa in cantina da lui. Vino, come detto sopra, nato da viti di quattro anni e per Marco con troppi interventi enologici in cantina, oggi assenti nel suo affinarsi come viticoltore-produttore. Il vino ha un colore rubino ancora molto vivo e un naso dove il sangiovese si fa sentire in maniera chiara: i profumi terziari partono da leggeri tocchi speziati e arrivano a note di cuoio fresco e di tabacco, con lievi note fruttate e sentori di china. Un naso netto, profondo e giustamente maturo ma assolutamente non in fase discendente. In bocca il vino è equilibrato, con tannini ancora vivi ma dolci e una bella e succosa persistenza.


Un vino che dimostra molte cose: in primo luogo la possibilità di grande invecchiamento dei vini della DOC Orcia, in secondo luogo che i vini di Marco Capitoni vanno attesi, con tranquillità, per anni e infine che il merlot in tante zone della Toscana “chianteggia”, cioè perde alcuni connotati definiti classici e si avvicina molto alle caratteristiche di un buon sangiovese. In definitiva questo 2005 di Marco Capitoni è un vino che mi ha insegnato molto e di questo ringrazio sia Marco 1 che Marco 2.

Fratelli Agnes - Bonarda dell’Oltrepò Pavese DOC Campo del Monte 2023


di Carlo Macchi

La Bonarda per me è frizzante, rotonda ma austera, profuma di frutta rossa, ha buona freschezza ma anche un discreto corpo e soprattutto accompagna in maniera goduriosa dai salumi fino al bollito. 


Questa 2023 dei Fratelli Agnes, ancora giovanissima è perfetta anche perché costa poco più di 10 €.

Bazzini a Canneto Pavese: classicità e guizzi di genio, l'indirizzo sicuro per la grande tradizione dell'Oltrepò


di Carlo Macchi

Canneto Pavese è in alto. In realtà non tanto in alto, nemmeno a 250 metri, ma tanto basta per vedere e sentire dalle prime colline dell’Oltrepò Pavese Broni, Stradella e la Pianura Padana come qualcosa di lontano e di diverso. Il silenzio qui la sera è di quelli che non scherzano e anche di giorno il traffico è un concetto astratto.


Il concreto è l'opposto dell'astratto e se c’è una cosa concreta a Canneto Pavese è Bazzini, osteria dai piatti classici e sostanziosi che fino a pochi anni fa era gestita dall’omonima famiglia. Dieci anni fa però Mariella Mariotti e Riccardo Rezzani prendono in mano il locale e lo trasformano in maniera che potrei definire gattopardesca: cambiare tutto perché nulla cambi. Quindi abbandonano la veste rustica da osteria e, con tanto bianco e tocchi eleganti e sapienti, lo trasformano in un ristorante che però ha nell’anima e nella cucina la sana concretezza della gastronomia locale, con alcuni tocchi che non possono non farvi innamorare. Ve ne dico subito uno: lo zabaione tiepido con sopra del tartufo bianco, un insieme di puro piacere e godimento che raccoglie in sé lo stile del locale: piatti semplici, classici, ben fatti, con qualche guizzo di genio.

Riccardo e Mariella

Ma prima dei piatti, il locale: ti dà l’idea di essere piccolo e raccolto, ma è grande e lo dimostra con la terrazza panoramica, immersa nel verde e da dove veramente la Pianura Padana appare come una terra lontana. Il bianco è il colore dominante, ma macchie di colore e vecchi mobili restaurati danno un tono più soffuso e tranquillizzante. L’apparecchiatura è elegante ma non impegnativa, il servizio è impeccabile con un tocco di familiarità e infatti, dopo pochi minuti che ti sei seduto, ti senti un po’ a casa. Ma veniamo ai piatti, dove la tradizione locale si sposa a idee quasi irriverenti ma centrate, come il baccalà in tempura. Io ho preferito il cotechino caldo, nonché gli ottimi salumi accompagnati da insalata russa e giardiniera. Ottima anche la tartare di manzo.

Cotechino Caldo

Come primi non potete non provare i "bata lavar", ravioli ripieni di brasato e tipici di Canneto Pavese. Come fuori menù c’era una notevole minestra di ceci e ugualmente ottimi si sono dimostrati gli gnocchi di patate arricchiti da tartufo bianco. 

Bata Lavar

Tra i secondi, dopo la cotoletta alla milanese (che mangiai qui per la prima volta più di dieci anni fa e che anche sotto la gestione di Mariella e Riccardo è sempre squisita), potete andare sul sicuro (e sull’abbondante) con il bollito misto e con il coscio di faraona ripieno al forno. Quando sono in carta, non potete perdervi le costolette di agnello fritte: il vecchio Bazzini ordinò praticamente a Mariella e Riccardo di tenerle in menù. Come vedete siamo sulla tradizione, che però è vincente perché le materie prime sono di alto profilo.

Cotoletta

Bollito

Dei dolci vi ho già parlato dello zabaione tiepido, ma la tarte tatin è veramente assolutamente squisita.

Zabaione

La carta dei vini è esclusivamente territoriale ma non per questo ridotta, perché ormai in Oltrepò Pavese, partendo dai Metodo Classico e arrivando ai rossi importanti come il Buttafuoco Storico, si possono trovare molte e ottime soluzioni.
Alla fine avrete mangiato molto bene, magari anche un po’ troppo viste le porzioni e, vini esclusi, andrete a spendere al massimo sui 60 euro, ma con due piatti potete tranquillamente fermarvi a 40.


Adesso vi confido un segreto: da Bazzini ormai ci sono stato sei o sette volte e, pur mangiando benissimo, non avevo mai scritto nulla. Così quest’anno ci sono voluto tornare proprio per rimediare a questa mancanza e mai "rimedio" è stato così gustoso.

InvecchiatIGP: Tenuta San Guido - Sassicaia 1993


di Roberto Giuliani

Non sto certo qui a raccontarvi la storia del Sassicaia, del Marchese Incisa della Rocchetta e di Tenuta San Guido, sono stati spesi fiumi di parole su una realtà e su un vino tanto unico da essersi guadagnato una DOC proprietaria, ovvero “Bolgheri Sassicaia”, come per le grandi eccellenze francesi. Il Sassicaia, la cui prima annata risale al 1968 (presentata tre anni dopo), ancora oggi ottiene quotazioni elevatissime nel giro di pochi anni dalla sua uscita. Ottenuto da Cabernet sauvignon in prevalenza con una quota di Cabernet franc, fa parte del novero dei cosiddetti “Supertuscan” e stimola frequenti dibattiti sulla sua fama, chi lo adora e chi lo considera sopravvalutato.


Personalmente ritengo che sia un vino di elevatissima caratura, che nel tempo ha subito ovvie mutazioni, dovute ai cambi climatici, al rinnovo dei vigneti, a evoluzioni tecnologiche ma senza mai perdere smalto. Come tutti i grandi vini esce alla distanza, pertanto è facile che un’annata nuova, soprattutto se non tra quelle più equilibrate e leggibili, non sia facilmente inquadrabile e trovi dei giudizi contrastanti. Ecco a cosa serve stappare vecchie annate! Il 1993 qui fu un millesimo eccellente, sebbene non abbia raggiunto il livelli di altri come ’78, ’85, ’88, ’90, ’95, ’97, ’04, ’15 ecc.


Proprio per questo ho voluto stapparla, pur potendo sceglierne altre come la ’95, la ’97 e la ’04, mi incuriosiva molto di più saggiare cosa volessero dire 32 anni per il Sassicaia, allora semplice “vino da tavola”. Ebbene, sono ancora a chiedermi come sia possibile che dopo pochi minuti di ossigenazione, questo ’93 si comporti come un giovanotto capace ancora di fare 50 flessioni senza che gli venga il fiato corto!


Sì, perché è questa la sensazione che mi rimanda sia al naso che all’assaggio, devo scavare a fondo per sentire qualche cenno terziario evoluto, nascosto da una patina di freschezza e di frutto ancora integro; e la cosa mi stupisce ancora di più di fronte a una gradazione alcolica oggi introvabile su un vino del genere di 12% vol.!

Quale magia ha consentito a questo rosso incredibile di mantenersi così bene per 32 anni?

Sinceramente non lo so, quello che posso dirvi è che al momento non sta neanche ipotizzando di intraprendere la discesa, è semplicemente una sinfonia perfetta, una delle ragioni per cui dopo tanti anni riesco ancora a provare entusiasmo a scrivere di vino.


Certo, l’esperienza ci insegna che più passa il tempo e più ogni bottiglia è diversa, anche a causa della differente tenuta dei tappi di sughero. Ho un altro esemplare ’93 in cantina, sarà un’ottima occasione per fare anche questa verifica. Intanto questo me lo godo!

Antica Fattoria di Caserotta - Chianti Classico "Ridolfo" 2022


di Roberto Giuliani

A pochi chilometri da San Casciano in Val di Pesa, questo bellissimo agriturismo propone il Chianti Classico Ridolfo, omaggio al Ghirlandaio, dai profumi freschi e floreali, con intarsi di ciliegia e arancia sanguinella.


Gusto fruttato, molto piacevole e sapido, peccato siano meno di mille bottiglie.

Vigneti Tardis - Paestum IGT Aglianico "Giovedì" 2018


di Roberto Giuliani

Ho conosciuto Bruno De Conciliis agli inizi del 2000, quando ancora era legato a “Viticoltori De Conciliis”, azienda fondata con i fratelli Paola e Luigi negli anni ’90; già allora si percepiva la sua voglia di sperimentarsi, di approfondire il territorio cilentano, di intraprendere nuove avventure. Così, nel 2018, ha lasciato l’azienda di famiglia e si è dedicato a nuovi progetti come “Tempa di Zoè” con Vincenzo D’Orta, Feudi di San Gregorio e Francesco Domini e “Vigneti Tardis” a fianco di Jack Lewens, sommelier e ristoratore presso il Leroy nel quartiere londinese di Shoreditch. Un progetto realizzato senza acquistare vigneti, ma prendendo in affitto quelli ritenuti più interessanti, affacciati sul mare, poco più di 6 ettari totali distribuiti tra Acciaroli (3), Agnone (1,8) e Casalvelino (1,5), allevati a Fiano, Aglianico e Primitivo.


L’indirizzo è sia biologico che biodinamico (esperienza maturata in anni di collaborazione con Saverio Petrilli di Tenuta di Valgiano), sia in vigna che in cantina, dove tutti i vini sono ottenuti da fermentazioni spontanee, macerazioni mai spinte, pochissima solforosa aggiunta in fase di imbottigliamento. Dovevano essere vini “facili”, di pronta beva, ma la terra ha raccontato altro e quei vigneti hanno espresso una qualità ben superiore alle attese, rivelando caratteri più determinati, un’intensità espressiva che lascia un inequivocabile timbro delle potenzialità del territorio cilentano. Così le macerazioni si sono allungate, perché valeva la pena farlo, anche il legno si è dimostrato un degno compagno di una materia così complessa e articolata.


Ogni vino realizzato ha preso il nome – in sequenza produttiva – di un giorno della settimana, non potevo quindi che scegliere l’Aglianico 2018 che, guarda caso, si chiama “Giovedì”, perfetto per la nostra rubrica: proviene dalle vigne di Acciaroli, quelle più vicine al mare (circa 50 metri), effettua quaranta giorni di macerazione e un affinamento in barrique, la solforosa totale è di 25 mg/l, 14% vol.


Rubino profondo, note di prugna, marasca, granito sbriciolato, pellame conciato, ferro; al palato è intenso, articolato, austero, con un tannino importante ma dall’aggressività contenuta, traccia salina evidente, buona vena acida che gli dona spinta e dinamica evitando appesantimenti. Un vino che sembra rappresentare un passo intermedio tra classicità e uno stile più moderno, destinato sicuramente a un lungo invecchiamento.

InvecchiatIGP: Cascina Gentile – Colli Tortonesi DOC Timorasso Derthona 2016


Tra le colline del Tortonese, là dove il Piemonte si apre al respiro del mare e le argille si mescolano ai venti liguri, il Timorasso ha trovato la sua seconda vita. Vitigno complesso e identitario, capace di sfidare il tempo come pochi bianchi italiani, oggi è il simbolo di un territorio che ha scelto la profondità alla facilità, la verità alla moda.


Cascina Gentile, a Capriata d’Orba, interpreta questo spirito con misura e sensibilità. L’azienda nasce negli anni Sessanta grazie a Giovanni Gentile, contadino caparbio che piantò le prime vigne nel “Gazzolo”, una collina allora sconosciuta ma già vocata. Oggi è Daniele Oddone, nipote del fondatore, a guidare la cantina con mano sicura, in equilibrio tra tradizione e consapevolezza moderna. 

Daniele Oddone

 I vigneti di Cascina Gentile si estendono su un altopiano di circa diciannove ettari, undici dei quali piantati a vite, condotti con metodo biologico certificato e circondati da appezzamenti coltivati a cereali e ortaggi. I terreni, argillosi e ricchi di scheletro, conferiscono ai vini densità e tensione, mentre le forti escursioni termiche e i venti marini asciugano le uve e ne preservano la sanità.


Tra le etichette dell’azienda, il Derthona Colli Tortonesi Timorasso 2016 è un piccolo manifesto. A quasi dieci anni dalla vendemmia, racconta con eleganza la straordinaria capacità evolutiva di questo vitigno: il colore, un oro lucente appena velato da riflessi ambrati, annuncia un naso di rara complessità. Si passa dai profumi iniziali di acacia e miele di tiglio a note di cera d’api, frutta disidratata e pietra focaia, in un continuo gioco tra dolcezza e rigore. In bocca è profondo, quasi masticabile: l’acidità, viva ma integrata, sostiene una struttura densa e salina, mentre il finale regala echi di mandorla tostata e idrocarburo, segno di una maturità nobile.


È un vino che non cerca l’effetto, ma la sostanza. Parla piano, con autorevolezza, e racconta il tempo come fosse un ingrediente. In lui si ritrova la voce più autentica del Timorasso, la dimostrazione che questo vino, se fatto con animo contadino, e lasciato crescere, non è solo un grande bianco: è un vino che pensa, respira e racconta.

Caparra & Siciliani – Cirò Rosso Classico Superiore Riserva “Lice” 2021


Lice è un Gaglioppo in purezza da viti trentennali coltivate accanto alla “Fontana del Principe” di Cirò, adiacente la cantina. 


Frutto dello studio dell’enologo Jacopo Vagaggini, fermenta in cemento e affina in barrique, offrendo personalità, note agrumate e tannini setosi: il volto autentico della Calabria.

Feudo del Balio: la Sicilia che unisce due mondi


Ci sono progetti che nascono da un sogno, e altri che nascono da un bisogno più profondo: quello di tornare alle proprie radici. Feudo del Balio appartiene alla seconda categoria. È la storia di tre uomini — Giuseppe Rando, Giuseppe Perniciaro e Mario Papotto — che hanno scelto di costruire qualcosa di autentico nella loro terra, la Sicilia, senza compromessi, partendo dal rispetto per la natura e dalla consapevolezza che la qualità non si improvvisa.


L’avventura comincia a Trapani, nel cuore della Sicilia occidentale, dove le colline dolci e ventilate si affacciano sul mare e la luce sembra più viva che altrove. È qui che prende forma un progetto “artigianale ma ambizioso”, come amano definirlo i fondatori: una cantina urbana che dialoga con la città e con il territorio, capace di raccontare la Sicilia contemporanea con vini puliti, eleganti e di forte identità.


Al centro dell’azienda sorge una torre di avvistamento del XVI secolo, un tempo presidio di difesa costiera e oggi simbolo di rinascita. Restaurata e pronta a diventare, entro il 2026, il punto d’accoglienza e degustazione del Feudo, la torre racchiude in sé l’anima del progetto: tutela del bello, rispetto dell’ambiente e valorizzazione paesaggistica. È un luogo che rappresenta perfettamente la filosofia aziendale — custodire la memoria del territorio per trasformarla in futuro.

La voce dei produttori

«La nostra è una piccola produzione, in un territorio particolarmente vocato alla viticoltura da secoli, quello della Sicilia occidentale, in provincia di Trapani» raccontano Rando, Perniciaro e Papotto. «Qui non c’è nulla da stravolgere: basta rispettare ciò che la natura offre in modo meraviglioso. Il compito del viticoltore è proteggere la vigna e preservarla, anche a costo di perdere quantità. Le nostre bottiglie, poche e numerate, sono frutto di impegno, dedizione e rispetto. Lavoriamo in regime biologico e favoriamo la biodiversità tra le viti, perché il vino deve essere il risultato di un equilibrio naturale e non di un artificio.» Un messaggio chiaro, che si traduce in un approccio produttivo coerente: poche etichette, rese basse, grande attenzione alla materia prima e una gestione in vigna e in cantina che mette al centro la sostenibilità e la verità del territorio.

I vigneti: tra mare e vulcano

Oggi Feudo del Balio si estende su 26 ettari complessivi, di cui 22 tra Paceco e Fulgatore, nel Trapanese, e 4 sull’Etna, tra contrada Fornazzo e Caselle. Due terroir lontani ma complementari, due espressioni dell’isola che si guardano da opposti versanti. Nella Sicilia occidentale, i suoli sabbiosi e calcarei e la costante brezza marina regalano vini dalla spiccata salinità e luminosità aromatica. Qui crescono Catarratto, Grillo, Zibibbo, Nero d’Avola e Frappato, insieme a una preziosa vigna trentennale di Syrah in contrada Sorìa, testimonianza viva di un legame profondo con la tradizione trapanese.


Sull’Etna, invece, tutto cambia. A Milo, in contrada Fornazzo e Caselle, i vigneti si arrampicano tra i 700 e gli 800 metri di quota, su terreni vulcanici ricchi di sabbie nere e minerali. Qui regnano Carricante e Nerello Mascalese, vitigni che danno vita a vini tesi, minerali, di grande profondità, capaci di raccontare il lato più verticale e vibrante della Sicilia. Questo dialogo tra Occidente e Oriente, tra il mare e il vulcano, è la cifra distintiva di Feudo del Balio. Come spiegano i fondatori: «Sul versante orientale dell’isola, la tenuta di Milo sull’Etna amplia la nostra visione: un ponte ideale tra due terre straordinarie».


A guidare la parte enologica di Feudo del Balio è Stefano Chioccioli, professionista di grande esperienza e sensibilità, che accompagna l’azienda nel suo percorso di crescita con una visione limpida e coerente. La sua mano si percepisce nella precisione stilistica e nella chiarezza espressiva dei vini: etichette che non cercano effetti speciali, ma raccontano con sincerità il territorio da cui nascono.

Due, a mio giudizio, i vini più rappresentativi:

L’Etna Bianco “Pietrarsa” 2024 è il volto elegante del vulcano: un Carricante in purezza che profuma di agrumi e fiori bianchi, con una vena minerale che ricorda la pietra bagnata e la cenere leggera dopo la pioggia. Al palato è teso, vibrante, scandito da una freschezza che non cede mai alla morbidezza. È un vino che parla sottovoce, ma lascia un’eco lunga e salina, come una brezza che risale dai crateri.


Il Nero d’Avola “Torremurata” 2022, invece, racconta la parte più mediterranea e solare della Sicilia occidentale. Rubino profondo, al naso intreccia ciliegia matura, prugna e note di macchia mediterranea, mentre al gusto rivela una trama setosa, ampia, sostenuta da tannini fini e da una scia sapida che rimanda al mare vicino. È un vino che abbraccia e accarezza, capace di coniugare struttura e delicatezza, calore e misura.


Il futuro si chiama territorialità, ma anche connessione: Trapani e Milo, il mare e il vulcano, la sabbia e la lava. Due mondi che Feudo del Balio unisce nel segno del rispetto, della sostenibilità e dell’amicizia.

Perché, come raccontano i fondatori, tutto è cominciato da una frase semplice: “Guarda quelle vigne… vedi quello che vedo io?”

Oggi, in quelle vigne, si vede chiaramente un pezzo del futuro del vino siciliano: autentico, sostenibile, e profondamente legato alla sua terra.

InvecchiatIGP: Portinari - Soave Doc “Albare” 2009


di Lorenzo Colombo

Riassaggiamo questo vino a distanza di 14 anni da quando l’assaggiammo per la prima volta, era il giugno del 2011, quando, a margine dell’evento Vulcania ci ritagliammo un mezzo pomeriggio per visitare l’Azienda Portinari, a Brognoligo, una frazione di Monteforte d’Alpone.
Conoscevamo già alcuni dei vini aziendali, ma non avevamo ancora avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con chi questi vini produce, e dobbiamo dire che queste due ore, in compagnia di Umberto e Maria, sono volate, tra un buon numero d’assaggi, corredati dalle note produttive dei vini, e la ricostruzione da parte di Umberto, del percorso aziendale proiettato anche nel futuro. Ad affiancare Umberto che aveva fondato l’azienda nei primi anni ’80 ci sono i figli Silvio (in campagna) e Maria (in cantina), l’azienda, che dal 2019 è in regime biologico dispone di quattro ettari di vigna suddivisi un due diversi appezzamenti, Ronchetto nella zona classica e Albare in pianura.


Il vigneto Albare, impiantato nel 1985 su suoli alluvionali, argillosi, “anche se ad una profondità di circa due metri si trova uno strato ciottoloso basaltico, che conferisce un gusto particolare ai vini” - dice Portinari – quel gusto che ricorda ancora l’ha colpito tantissimo nell’annata 1994 “peccato non ci siano più bottiglie”. In questo vigneto, dove le viti, allevate a pergola monolaterale, con una distanza tra i filari di quattro metri (avete letto bene), poiché “il problema della Garganega sta nel contenerne la produttività, ora produciamo circa 100 q.li /ha, ma trent’anni fa si arrivava anche a 350 q.li/ha ed inoltre non va costretta in piccoli spazi”, ha dapprima sperimentato, -avvalendosi della collaborazione dell’Istituto di Conegliano, nella figura del Prof. Carniello, direttore dell’Istituto- e quindi utilizzato in toto il sistema di “doppia maturazione ragionata”, che prevede il taglio, a circa metà lunghezza, del tralcio produttivo, lasciando i grappoli in pianta. In questo modo si ottengono due diverse maturazioni del frutto: la parte rimasta connessa alla pianta va in surmaturazione, mentre quella ormai scollegata appassisce. Successivamente viene effettuata la vendemmia contemporanea delle due tipologie di grappoli, che vengono quindi vinificati. Questa pratica è ormai consolidata, tanto che il Cru Albare viene prodotto in questo modo sin dal 1994.


Che sia o meno metodo di questa particolare maturazione, sta di fatto che questo vino ottiene sempre più spesso notevoli apprezzamenti, sia da parte dei consumatori che dalla critica enologica – Umberto ricorda a tal proposito un vecchio articolo scritto da Luigi Veronelli sull’Espresso relativo all’Albare “Non è un vino “gabbadeo””, scriveva il grande Gino, e consultando un vecchio dizionario -Novissimo Dizionario della lingua italiana “Palazzi” seconda edizione 1957 - troviamo, relativamente a questa parola ormai desueta “gabbacristiani, gabbamondo” -, e soprattutto ha dato prova di notevole longevità (in quell’occasione avevamo assaggiato l’annata 2002). In realtà quella sopra descritta è solamente la sintesi del lungo percorso -iniziato nel 1992- che ha portato a questo vino, un percorso costellato da numerose sperimentazioni, con tagli del tralcio effettuati in diversi momenti della maturazione, sino ad arrivare alla formula attuale, che è comunque sempre legata all’andamento stagionale. “Le conoscenze vengono costruite anno per anno – dice Umberto – ogni anno si aggiunge un nuovo tassello”.


Ovviamente abbiamo trovato un vino diverso rispetto a quanto lo descrivemmo allora, sono infatti passati quasi tre lustri di conseguenza ora si presenta con un color oro antico.
Media la sua intensità olfattiva che non denota alcun segno d’ossidazione, si colgono sentori di confettura di pesca e d’albicocca, albicocca disidratata, frutta secca, nocciole, mandorle, accenni di vaniglia e di miele. Buona la sua struttura, alla bocca ritroviamo tutte le sensazioni colte al naso unite a sentori di susine e mela matura, buona la sua persistenza.

Il Cipresso - Terre del Colleoni Doc Incrocio Terzi “Gregorio” 2021


di Lorenzo Colombo

L’Incrocio Terzi è un vitigno poco diffuso (44 gli ettari censiti nel 2010), realizzato da Riccardo Terzi nella prima metà del Novecento incrociando Barbera e Cabernet franc. 


Il vino degustato mostra una buona struttura, sentori di prugne e ciliegie, decisa la sua trama tannica e lunga la persistenza.

L’anima bianca dell’Etna: i Carricante di Nicosia raccontano il vulcano


di Lorenzo Colombo

Fondata nel 1898 da Francesco Nicosia l’azienda è giunta alla quinta generazione, l’azienda moderna si può dire che però nasce poco più di vent’anni fa, ad opera di Carmelo che la gestisce con i figli Francesco e Graziano, l’estensione vitata è di circa 60 ettari la maggior parte dei quali sono situati su terrazzamenti posti tra i 550 ed i 750 metri d’altitudine nel comune di Trecastagni. Altre vigne si trovano in Contrada Cancelliere Spuligni, a Zafferana Etnea, a Santa Venerina, a Linguaglossa e a Fleri, frazione del comune di Zafferana Etnea, infine l’azienda dispone di vigneti anche al di fuori del territorio etneo, nelle zone di Noto e di Vittoria.


Lo scorso anno eravamo stati a Trecastagni in occasione della quinta edizione di Bolle in Vigna, evento organizzato presso la Tenuta Nicosia di Contrada Monte Gorla e avevamo potuto assaggiare buona parte dei vini da loro prodotti. Questa volta invece Graziano ha presentato alla stampa i suoi vini a base Carricante a Milano, presso la Terrazza Maio, all’ultimo piano della Rinascente tramite una degustazione guidata da Cristina Mercuri.

Il Carricante

Un tempo assai diffuso  -il censimento agricolo del 1970 ne contava 1.800 ettari - questo vitigno ha visto sempre più ridotta la sua superficie vitata che attualmente è stimata in circa 260 ettari, 146 dei quali in Sicilia, quasi tutti attorno all’Etna, soprattutto sul versante Sud-Est. Vitigno autoctono dell’Etna dove si spinge sin poco sotto i mille metri d’altitudine, il Carricante è caratterizzato da una decisa nota acida il che lo rende molto adatto anche alla produzione di vini spumanti.


I vini

I primi due vini che sono stati presentati sono Spumanti Metodo Classico prodotti con uve Carricante, il disciplinare dell’Etna Doc nella tipologia Spumante prevede l’utilizzo esclusivo di Nerello mascalese con il contributo massimo del 20% di altri vitigni a bacca nera, di conseguenza i due suddetti Spumanti escono con la denominazione Doc Sicilia. Le uve provengono dai vigneti posti sul Monte Gorna e da altre contrade situate sul versante sud-est del vulcano ad altitudini tra i 650 ed i 750 metri slm, il sistema d’allevamento è a Cordone speronato con densità d’impianto di 6.000 ceppi/ettaro ed i suoli sono composti da sabbie vulcaniche e la resa è di 60 q.li/ha. La vendemmia s’effettua a fine settembre e la vinificazione avviene in vasche d’acciaio, la primavera successiva viene imbottigliato per la rifermentazione, la sosta sui lieviti è rispettivamente di 24 mesi e di 60 mesi.


Doc Sicilia Carricante “Sosta Tre Santi” Brut Metodo Classico Millesimato 2020

Paglierino dorato luminoso. Bel naso, frutta a polpa gialla, sentori di fieno, leggeri accenni di lieviti. Sapido, verticale, bel frutto, spiccata vena acido-agrumata, leggere note citrine, lunga la persistenza.

Doc Sicilia Carricante “Sosta Tre Santi Sessantamesi” Brut Metodo Classico Millesimato 2019

Molto bello il colore, giallo dorato luminoso. Elegante al naso, frutta a polpa gialla, accenni di frutta candita, cedro. Molto verticale, intenso, sapido e con spiccata vena acida, citrino, accenni affumicati e note speziate di zenzero, lunga la persistenza.


Doc Etna Bianco “Contrada Monte San Nicolò” 2024

La Contrada Monte San Nicolò di trova nel comune di Trecastagni ed i suoi vigneti sono situati tra i 550 ed i 650 metri d’altitudine. Il vino viene prodotto con 95% Carricante e 5% Minnella, raro vitigno quest’ultimo dell’Etna. Vinificazione e affinamento s’effettuano in vasche d’acciaio dove il vino sosta sulle fecce fini, dopo l’imbottigliamento passano almeno altri sei mesi prima della messa in commercio. Color paglierino con riflessi dorati. Discretamente intenso al naso, note d’agrumi e accenni d’erbe officinali. Fresco e sapido, con spiccata vena acida, sentori di lime e buccia di limone, buona la persistenza.  Anche la Contrada Monte Gorna di trova nel comune di Trecastagni ma i suoi vigneti sono situati ad un’altitudine più elevata, dai 700 ai 750 metri slm.



Doc Etna Bianco “Contrada Monte Gorna”

90% Carricante e 10% Catarratto provenienti dai vigneti situati sui suoli vulcanici del Monte Gorna, fermentazione in vasche d’acciaio dove l’80% del vino s’affina sulle fecce fini, il rimanente 20% viene posto per un breve periodo in tonneaux d’acacia, una volta assemblato viene imbottigliato e riposa per almeno sei mesi prima della commercializzazione.

Il vino ci è stato proposto in due diverse annate, 2024 e 2020

2024 - Color verdolino scarico. Mediamente intenso al naso, verticale, agrumi freschi, pesca bianca. Fresco e sapido al palato, buona vena acida, accenni vegetali, chiude leggermente amaricante con lunga persistenza.

2020 - Color oro verde, luminoso. Intenso al naso, frutta tropicale, pesca gialla, fiori gialli, accenno tostati e affumicati. Dotato di buona struttura, frutta tropicale e a polpa gialla, accenni di canditi, accenni di zenzero, leggeri accenni idrocarburici, note amaricanti sul fin di bocca. Un poco evoluto.


Etna Bianco “Monte Gorna Vecchie Viti”

Prodotto con uve Carricante provenienti dalla parte più antica dei vigneti posti sul Monte Gorna, la fermentazione e la prima parte dell’affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta sulle fecce fini, viene quindi posto in barriques di rovere francese dove rimane per un anno prima dell’imbottigliamento, passa quindi almeno un altro anno prima della sua messa in commercio. 

Anche questo vino ci è stato presentato in due diverse annate: 2020 e 2011, quest’ultima è stata la sua prima annata di produzione.

2020 - Giallo paglierino luminoso con leggeri riflessi dorati. Bel naso, elegante, intenso, sentori d’agrume maturo, cedro candito. Buona la struttura, spiccata la vena acida, erbe aromatiche, timo, salvia, macchia mediterranea, ricorda a tratti le botaniche di un Vermouth, buona la sua persistenza.

2011 - Color oro antico, luminoso. Intenso al naso, elegante, balsamico, fiori secchi, mela matura, note idrocarburiche. Dotato di buona struttura, sapido, note piccanti di zenzero, mela gialla, confettura d’arancio, accenni nocciolati, acidità ancora ben presente, lunga la persistenza. Un vino ancora in perfetta forma dopo quasi tra lustri dalla sua vendemmia.

InvecchiatIGP: Costaripa - Valtènesi DOC Chiaretto Molmenti Costaripa 2011


di Stefano Tesi

A Mattia Vezzola da Moniga non mancano certamente né la scienza, né la facondia. E così, per parlare di longevità dei vini e per presentare Rosamara 2024 e Molmenti 2019 – l’ultimo frutto della sua antica idea di “rosati da invecchiamento” prodotti da Costaripa, la quasi centenaria azienda di famiglia sulle sponde bresciane del Garda – prima dei dati tecnici e agronomici l’enologo veneto ha sciorinato una serie di massime e di aneddoti folgoranti. Il principio di partenza è che, facendo tesoro dell’esperienza del passato, “bisogna ristrutturare il concetto di rosè”, abbandonando la nozione di vino facile ricavato da uve spesso di scarto e affidandosi invece alla vocazionalità e a una coltivazione dedicata espressamente alla produzione di quella tipologia.


Parlando di epigenetica, Mattia ha quindi cominciato con una citazione del compianto Denis Dubourdieu: “Per capire un vino sarebbe necessario che tu gestissi per almeno cento anni una vigna di almeno tre generazioni”. Ha continuato con la più prosaica ma non meno efficace “teoria del gatto”: finchè sta fuori dal portone di casa, il gatto per mangiare deve adattarsi a ciò che trova e quindi si mantiene agile e scaltro, quando invece sta in casa e ha cibo con facilità, si imbolsisce sulle gambe del padrone”. Ciò per dire che la vite, come il felino, per dare il meglio le risorse deve andarsele a cercare nel tempo e nella profondità del terreno, trovando così un equilibrio stabile. Riferendosi poi all’uso delle botti, alla loro età e alla loro pulizia, Vezzola ha tirato fuori un vecchio suggerimento di Patrick Leon: “I rosati non si fanno come si fa il vino, si fanno come si fa lo Champagne”. Il fulmen in clausola è stato riservato alla relatività del concetto di qualità, così sintetizzato: “E’ molto più corta un’ora d’amore che un minuto col culo sulla stufa”.


E a riprova di quanto sopra ha stappato una bottiglia di Molmenti 2011, Valtènesi doc a base di Groppello gentile al 50%, 30% di Marzemino, 10% di Barbera e 10% di Sangiovese provenienti dall’omonimo vigneto, che comprende i 4 ettari di filari originari acquisiti da Vezzola nel 1992 e portati fino agli odierni 15, per un’età media di 60 anni. Il tutto, ha sottolineato, solo ed esclusivamente per fare un rosato da invecchiamento in botti da 4 ettolitri, destinato poi a maturare due anni in tonneaux e tre in bottiglia prima di andare sul mercato. Il colore è un ambrato carico e tendente al fulvo, che ricorda i riflessi della volpe.


Al naso è fatalmente cangiante e si evolve col passare dei minuti, fino a stabilizzarsi in un ventaglio elegante ed equilibrato di buccia di agrumi maturi e anche candita, melata di castagno, polvere da sparo, pietra focaia, idrocarburi. Al palato è complesso, asciutto ma di sorprendente freschezza, dotato di una godibile sapidità e di un bella lunghezza che nell’insieme danno una sensazione di composta solennità. Peccato che, ovviamente, non sia più disponibile per l’acquisto. Ma visto che Vezzola garantisce anche per le annate più recenti una vita di almeno vent’anni, ci si potrebbe fare un pensierino e poi dimenticare tutto in cantina.

Poggio delle Monache - Toscana Sangiovese IGT "Lanario" 2021


di Stefano Tesi

Vino e buoi dei paesi tuoi, perché no? Questo robusto Sangiovese fatto a pochi passi da casa mia, nelle sanguigne Crete Senesi, esprime tutto il calore del territorio e la potenza dell’argilla, ma con compostezza, pulizia e coerenza quasi filologica. 


L’ho fatto fuori con le opulente lasagne domenicali.

Barone Pizzini e la sua visione circa la longevità del Franciacorta Rosè


di Stefano Tesi

Ci sono parole di cui, nell’ansia di fare marketing, il mondo del vino spesso abusa. Una di queste è “visione”. Grazie alla quale, nelle veline correnti, chi la pratica diventa automaticamente un visionario. Ma la realtà insegna che i visionari veri, alla fine, sono pochi. E tra questi può essere certamente ascritto Silvano Brescianini, uno degli uomini-chiave della storia della Franciacorta, fino a pochi mesi fa presidente del Consorzio ma presente sul territorio da 35 anni, fin da tempi in cui, cioè, uno con le sue idee (ad esempio sul biologico, che Brescianini introdusse tra la diffidenza generale nel 2001 per uscire “certificato” nel 2004) non era destinato ad avere sempre vita facile. E che invece è riuscito, tra intuito e determinazione, a portare in alto sia la denominazione franciacortina che la sua azienda, la Barone Pizzini.


L’abbiamo rincontrato qualche settimana fa in occasione di una bella degustazione organizzata al Salotto Portinari di Firenze, accompagnata ai piatti del fidato Vito Mollica. Copiose spigolature, conversazione come al solito interessante e ancora più interessanti i vini: una verticale di Franciacorta rosè dal 2016 al 2021, con la chicca finale di un Bagnadore riserva rosè del 2011, tutti a base di Pinot nero e Chardonnay, tranne la 2011 e la 2018, fatte solo con Pinot Nero.


Ha “dirazzato” dalla verticale, alla fine della seduta, una sontuosa magnum di Bagnadore Dosaggio Zero Riserva 2015, fatto anch’esso con Pinot Nero e Chardonnay, ma non in rosa. Un’altra gran bella bevuta. Un’uva, il Pinot nero, che, nella circostanza, Brescianini ha voluto liricamente definire “ghermita dai boschi”. Ma neppure questa è fino in fondo un’iperbole: le vigne, ha spiegato, si trovano davvero nella zona collinare più alta del comprensorio, a contatto con le aree boschive prealpine che regalano al vino una ricchezza di sfumature e un’identità propria, altrove sconosciuta.


Anche al netto dell’argomento “forestale”, oggi decisamente di moda tra i produttori più fedeli alla filosofia del bio più spinto, gli assaggi sono stati però assai convincenti. E hanno rivelato una coesione stilistica, nonchè un ventaglio organolettico, oltremodo intrigante. “E’ la prima volta che facciamo una verticale di questo tipo”, ha ammesso lui. “Il nostro interesse cominciò nel 2008: fino a quel momento non ci eravamo molto curati di questa tipologia di vino. Poi, nel 2012, all’International Wine Challenge WC di Londra il nostro Franciacorta rosato fu stato premiato a sorpresa, così a sorpresa che al momento dell’annuncio io ero addirittura fuori dalla sala. Solo allora ne comprendemmo tutto il potenziale”.

Ecco una sintesi di come è andata la verticale.

Franciacorta Rosè Edizione 2021 (80% Pinot nero e 20% Chardonnay)

35 mesi sui lieviti, colore rosa antico, pallido, con sfumature di buccia di cipolla, perlage fine e persistente. Al naso è brillante, vivo, con piacevole sentore di fragola acerba. In bocca è sapido, con acidità spiccata e una cremosità morbida che accompagna la lunghezza con un retrogusto armonico ed elegante.

Franciacorta Rosè Edizione 2019 (70% Pinot nero e 30% Chardonnay)

Cromaticamente è di colore rosa antico, la bolla è ricca, mentre al naso il vino è più asciutto e neghittoso del precedente, quasi brusco. Al palato si rivela maturo, secco, ben equilibrato, con note salite e un finale appena amarognolo che ricorda il bitter.

Franciacorta Rosè Edizione 2018 (100% Pinot nero)

Se le sfumature cromatiche cambiano poco, qui il Pinot nero in purezza regala un perlage fitto e soprattutto un bouquet robusto, acuto, pungente, screziato, con note quasi opulente, sentori di piante grasse e, in bocca, una corposità profonda, sorretta da una bella acidità e da una lunghezza importante.

Franciacorta Rosè Edizione 2017 (80% Pinot nero e 20% Chardonnay)

Il rosa antico si fa appena più intenso, il perlage compatto, mentre gli anni regalano al vino al naso un netto sentore di arachidi salate che si evolve in un una nota quasi salmastra, di alghe e di scoglio. In bocca il sorso è cremoso, gentile, ampio, secco, preciso, grandemente gratificante.

Franciacorta Rosè 2016 Edizione (70% Pinot nero e 30% Chardonnay)

Qui l’occhio si fa più aranciato, tendente al mattone pallido. Al naso si impenna passando dalla sobrietà del lievito e della crosta di pane a eleganti note agrumate che ricordano il pompelmo, mentre al palato è quasi pastoso, complesso nella sua progressione di acidità e sapidità decisamente intriganti.

Franciacorta Bagnadore Riserva Rosè 2011 (100% Pinot nero)

Gran finale con questo monovitigno rimasto 120 mesi sui lieviti, di colore rosa antico carico con riflessi mattonati. Il bouquet è cangiante e si rivela a ondate: prima salmastre e marine, poi la balsamicità del sottobosco di querce e di foglie bagnate. In bocca è decisamente sapido, asciutto e severo, ma poi si scioglie in un’eleganza gentile, profonda e avvolgente.

InvecchiatIGP: Lungarotti - Rubesco "Vigna Monticchio" 1997


di Luciano Pignataro

Chi segue il mondo del vino dagli anni ’90 ricorda bene la 1997: unanimemente definita grande, fantastica. I giornali allora, sotto la spinta di Bordeaux e Montalcino, non esitarono a proclamarla “l’annata del secolo” — anche se poi ci si è fatta l’abitudine. Al di là delle esigenze mediatiche, non ci sono dubbi: ovunque si beva un rosso di quella vendemmia, si ricava una bella soddisfazione, grazie a una stagione regolare, da manuale, di quelle che si studiavano alle scuole elementari prima che nascesse il detto “non esistono più le mezze stagioni”. In particolare, uno straordinario settembre portò a compimento la maturazione in modo perfetto.


Anche a Brufa, frazione di Torgiano, in Umbria. Qui, su un agnello arrosto con zucchine alla scapece scelto nel menu di Olimpia, il bel locale dei fratelli Vittorio e Gregorio Valloni, Chiara Lungarotti decide di stappare il Rubesco Vigna Monticchio 1997: il momento clou di una giornata trascorsa tra i vigneti piantati dal padre Giorgio, pioniere visionario della viticoltura di qualità, la cantina e lo splendido Museo del Vino, la cui visita consiglio a tutti almeno una volta nella vita per capire quanto profondo sia il legame di questa bevanda sacra con le arti, i mestieri, la psicologia e la cultura mediterranea dello stare insieme a tavola — dagli Etruschi ai giorni nostri — prima che i servi delle multinazionali delle oncologiche bibite gassate ed energetiche finanziassero le campagne anti-alcol, segno evidente del regresso e della crisi della nostra civiltà occidentale, per la banalizzazione del tema.


L’etichetta ha ormai più di 60 anni: questa bottiglia di Sangiovese incrocia le tradizioni delle due regioni che premono da nord sulla piccola Umbria, riuscendo a darne un’interpretazione ben distinta e caratterizzata. La prima annata è del 1962, e fu proprio Giorgio a volerla, puntando su questo vitigno e anticipando i tempi in maniera incredibile: Torgiano divenne DOC nel 1968 e DOCG nel 1990. La 1997 è, tra l’altro, la penultima vendemmia firmata dal grande imprenditore, scomparso nel 1999. Insomma, l’avete capito: aprirla è stata una grossa responsabilità, densa di significati e di temi che si incrociano. E lo stappo, oltre a rivelare un vino in perfetta forma e vitalità, esprime anche la modernità con cui già all’epoca era lavorato in botte grande, senza cedere alla moda della barrique — allora mantra inevitabile in ogni cantina — oggi invece oggetto di condanna secondo una vulgata commerciale neopauperista molto in voga.


Il rosso esprime subito frutta al naso, ancora fresca, senza cedimenti né suggestioni ossidative. La freschezza rilassa il naso e accompagna la beva in modo appagante. Vive da solo ma anche ben accompagnato da questa carne, preparata e servita dai fratelli che hanno dedicato il ristorante alla loro mamma. Ed è in questo contesto — con questo vino pensato da un grande uomo, con Chiara, degna figlia di tale padre — che la serata si apre e ci convince che non tutto, in fondo, è perduto, se esiste ancora un’Italia capace di offrire queste meraviglie.