La Locanda del Poeta a Collalto Sabino: mangiare bene in un luogo incantato


di Roberto Giuliani

Abitando da più di vent’anni a Fiano Romano, alle porte della Sabina - rinomato territorio che si estende a nord-est di Roma, i cui confini anticamente valicavano Umbria e Abruzzo, ma che oggi ha il cuore nella Provincia di Rieti – posso dire di averlo approfondito sia dal punto di vista storico-paesaggistico che da quello enogastronomico. Ho perso il conto dei numerosi borghi che ho visitato e rivisitato, ormai scoprirne altri è diventato quasi impossibile. Così le mie gite serali o nei fine settimana, diventano più selettive, scelgo i luoghi che più mi hanno colpito o, come in questo caso, quelli più alti e freschi. Sul percorso che porta al ridente Comune di Collalto Sabino (uno dei più alti del Lazio, infatti sfiora i 1000 m. s.l.m.) mi piace fermarmi a mangiare alla Locanda del Poeta, sia per la posizione in cui è collocata, all’interno di un parco lontano da qualsiasi rumore, sia per la cucina davvero gustosa.


Erano un po’ di anni che non ci andavo, ho trovato i locali ingranditi e una gastronomia ancora più stimolante. Qui si lavora quasi esclusivamente con i prodotti del territorio e dell’orto bio, la tradizione sabina viene reinterpretata con un tocco di originalità, senza però stravolgimenti o voli pindarici, i piatti sono concepiti per dare piacere, soddisfazione, e ci riescono piuttosto bene. La cucina sabina è sorprendente per varietà e per influenze storiche, basti pensare che qui sin dall’800 si fanno risotti, chi lo avrebbe mai pensato? C’è poi una forte tradizione della pasta fatta in casa, con nomi spesso originali e curiosi come “cecamariti”, “falloni”, “frascarelli”, “fregnacce”, “ciufulitti”, “gnucchitti pilusi”, “curioli”, “mafriculi”, “jacculi” e tanti altri. La Sabina è fortemente collinare, tappezzata di ulivi, frutteti, boschi di querce, faggi, cerri, prati e pascoli; nonostante la vicinanza con la capitale è riuscita a preservare un territorio stupendo, ricco di fauna, tant’è che è bene percorrerne le vie con molta attenzione, capita spesso di incontrare volpi, tassi, istrici, cinghiali e persino mucche, quindi massima cautela, soprattutto di sera!


Ma tornando alla Locanda del Poeta, che la famiglia Lattanzio porta avanti dal 2006, il luogo in cui è collocata è uno dei più suggestivi che si possano trovare, circondata da boschi, vi si affaccia un piccolo lago dove si possono vedere numerose tartarughe acquatiche, gli unici suoni che si ascoltano sono quelli degli uccellini, delle rane e degli animali da cortile. Si può mangiare nell’ampia sala interna, circondata da vetrate che consentono di ammirare il panorama da ogni lato, oppure sotto un altrettanto spazioso gazebo in legno nelle serate fresche.

Fazzoletto di primo sale in pasta fillo

Il menu offre una scelta abbastanza ampia, tra gli “Sfizi della Valle” abbiamo scelto il “Fazzoletto di primo sale in pasta fillo con mele, noci e miele di castagno” e “Gazpacho di pomodoro, baccalà cotto al vapore, mayo al basilico e frutti rossi”. Due antipasti molti diversi ma ugualmente vincenti, almeno per il nostro palato; temevo che i Fazzoletti (ben quattro!) fossero un po’ pesanti, invece li ho trovati perfetti, asciutti e con un sapore equilibrato, piacevolmente accompagnati dalle sensazioni agro-dolci offerte dai frutti e dal miele. Gustosissimo il gazpacho, che mi ha veramente sorpreso (purtroppo ho dimenticato di fotografarlo…), un piatto altamente rinfrescante e balsamico, perfetto per il periodo estivo.

Maltagliati con baccalà, capperi ed olive

Non essendo dei gran mangioni né io né mia moglie, abbiamo scelto di passare ai primi e lasciare i secondi alla prossima occasione: “Tagliolini con ragù di cortile a modo nostro” e “Maltagliati con baccalà, capperi e olive”. I tagliolini erano veramente saporiti, cottura perfetta, le carni deliziose e ben amalgamate con la pasta; i maltagliati altrettanto buoni, unico neo una presenza un po’ esigua del baccalà.

Tagliolini con ragù di cortile

Ci siamo concessi di chiudere con un “Tiramisù della Locanda con savoiardo fatto in casa”, che ho apprezzato molto per la dolcezza contenuta.
La carta dei vini tocca varie regioni, forse manca un po’ di originalità nella scelta dei produttori, ma c’è ampio spazio per trovare vini più che adeguati a ricarichi onesti, noi abbiamo scelto il Cerasuolo d’Abruzzo di Marramiero che si è comportato benissimo con tutte le portate. Un pasto completo (antipasto, primo e secondo) viene a costare dai 40 ai 50 euro vini esclusi. La prossima volta non mancheremo di provare i secondi a base di carne.

La Locanda del Poeta
Via Turanense, km. 39,400 Collalto Sabino (RI)
Tel: 329 2428900
Aperto a pranzo e cena tutti i giorni

InvecchiatIGP: La Guardiense – Sannio DOP Fiano “Janare” 2016


Nel mondo del vino italiano, spesso aleggia un pregiudizio difficile da estirpare: quello secondo cui le cooperative sarebbero sinonimo di produzione industriale e qualità mediocre. Una visione ormai superata dai fatti, soprattutto quando si osservano realtà come La Guardiense, che da oltre sessant’anni rappresenta una delle eccellenze più virtuose del Sud Italia. Fondata nel 1960 a Guardia Sanframondi, in provincia di Benevento, grazie all’iniziativa di 33 viticoltori lungimiranti, La Guardiense è diventata oggi una delle cooperative vitivinicole più importanti del Paese, sia per dimensioni che per visione strategica. Conta circa 1000 soci che coltivano oltre 1500 ettari di vigneti, situati in una zona collinare dal grande valore ambientale e viticolo, incastonata tra i monti del Matese e il Taburno, nel cuore della Valle Telesina. Ogni anno produce 150.000 ettolitri di vino e circa 6 milioni di bottiglie, distribuite in Italia e nel mondo.


A fare la differenza, oltre ai numeri, è la scelta di puntare con forza sulla qualità, sulla sostenibilità e sull’innovazione, mantenendo però saldo il legame con la tradizione contadina del Sannio. Sotto la guida del presidente Domizio Pigna, e grazie anche alla collaborazione con Riccardo Cotarella, la cooperativa ha avviato un profondo processo di modernizzazione, investendo in tecnologie all’avanguardia, ricerca agronomica e valorizzazione delle varietà autoctone come la Falanghina, il Greco, il Fiano e l’Aglianico.

Domizio Pigna e Riccardo Cotarella - Ph: Matesenews.it

Questa cooperativa dimostra che fare vino in forma associativa non significa rinunciare all’eccellenza, anzi. Prova ne è questo Fiano 2016 che ho degustato recentemente facente parte del progetto Janare che rappresenta una scommessa nella sperimentazione di tecniche agronomiche, finalizzate a valorizzare i vitigni principi del territorio. Il nome del progetto è tutt’altro che casuale.


Le Janare, nella tradizione popolare sannita, erano le seguaci di Diana, dea della luna e degli incantesimi notturni, custode delle selve, dell’agricoltura e delle donne. Secondo il mito, queste donne del Sannio erano indomite al punto da essere ritenute streghe, le cui pratiche rituali erano legate ai cicli della natura e alla magia ancestrale del territorio. Il progetto Janare non è solo un tributo alla forza femminile e alla cultura contadina del luogo, ma anche una dichiarazione di intenti: fare vino che esprima l’anima più autentica e mistica del Sannio.


Tornando a questo Fiano, ciò che colpisce immediatamente — prima alla vista, poi al naso e al palato — è l’integrità sorprendente del vino, che conserva energia e vitalità nonostante siano trascorsi quasi dieci anni dalla vendemmia. Al naso non cede nulla alla stanchezza dell’evoluzione terziaria: si apre invece su note fresche e nitide di mela, pera, fiori di campo e fieno, in un bouquet ancora integro e vibrante. Al sorso è pieno, perfettamente equilibrato, con una struttura che unisce eleganza e spinta acido-sapida. Nessuna concessione alla morbidezza fine a sé stessa: qui è la grinta minerale a guidare la beva, rendendo questo Fiano non solo longevo, ma profondamente espressivo del territorio meraviglioso come il Sannio.

Castello di Torre In Pietra – Lazio Fiano IGT “Macchia Sacra” 2023


Versione mediterranea del Fiano laziale, il Macchia Sacra, che prende il nome dall’antico bosco mitologico che protegge il Castello, profuma di agrumi e timo, con tocchi salmastri. 


Al palato è ricco, con vertiginosi ritorni iodati che stanno a ricordare il vicino Mar Tirreno verso cui affacciano le viti.

Clos Regain e il Jurançon che non ti aspetti


Il Jurançon, situato nel sud-ovest della Francia, ai piedi dei Pirenei, nella regione della Nouvelle-Aquitaine, è una delle zone vinicole più suggestive e al tempo stesso meno conosciute del Paese. La coltivazione della vite risale all’epoca romana, ma fu nel Medioevo, grazie al lavoro dei monaci benedettini, che la produzione vinicola assunse maggiore rilevanza. La fama del Jurançon si consolidò nel 1553, quando il vino fu usato per bagnare le labbra del neonato Enrico di Navarra, futuro Enrico IV di Francia, durante il battesimo: un gesto simbolico che gli valse l’appellativo di “vin royal”. Da allora, il Jurançon divenne simbolo di prestigio, molto apprezzato nelle corti nobiliari francesi.


Oggi il Jurançon è una zona vinicola che continua a distinguersi per la qualità dei suoi vini, grazie all’unicità del suo territorio situato attorno alla città di Pau, favorito da un microclima ideale dovuto alla protezione dei Pirenei e all’influenza del fiume Gave de Pau. I suoli variegati — marne, argille e calcari — donano ai vini una marcata mineralità, mentre le forti escursioni termiche tra giorno e notte favoriscono una perfetta maturazione delle uve.


La maggiore particolarità del Jurançon è la sua capacità di produrre sia vini secchi che dolci, sebbene la denominazione sia maggiormente conosciuta per questi ultimi. Il segreto della sua unicità risiede nei vitigni impiegati, tra i quali spiccano senza dubbio il Petit Manseng e il Gros Manseng (in misura minore troviamo anche Courbu Blanc, Petit Courbu, Camaralet de Lasseube e Lauzet), tutti caratterizzati da una spiccata aromaticità e da un’acidità che dona freschezza al vino.

Petit Manseng

Il Petit Manseng, in particolare, è il vitigno che meglio rappresenta l’identità della denominazione, ed è utilizzato per la produzione di grandi vini da vendemmia tardiva grazie al suo grappolo spargolo e alle particolarissime condizioni climatiche della zona, che impediscono lo sviluppo di muffe sugli acini. I forti venti che soffiano dai Pirenei fino alla valle permettono infatti un lento appassimento in pianta (passerillage), un fenomeno raro in altre aree vitivinicole.

Michel Boutin

Qualche tempo fa ho scoperto, grazie all’enologo Julien Seigneurie e alle dritte del mitico Guido Invernizzi, i vini della cantina Clos Regain, fondata da Michel Boutin, un canadese originario del Quebec che, innamoratosi del territorio, decise di trasferirsi nel Jurançon con l’intenzione di creare una cantina capace di produrre vini tanto tradizionali quanto contemporanei.


Se da una parte sono rimasto sbalordito per l’equilibrio sopraffino dei vini dolci di Clos Regain – cosa tutt’altro che scontata quando c’è una bella percentuale di zucchero residuo in gioco – il mio coup de cœur è andato senza dubbio al Clos Regain Sec 2022, che, grazie a un sapiente assemblaggio tra Petit Manseng e Gros Manseng, dona al vino un sorprendente equilibrio di sapori e una personalità davvero travolgente. Il naso, infatti, è di straordinaria territorialità ed esprime una girandola di profumi che spaziano dal tiglio alla pesca percoca, fino ad arrivare alle erbe aromatiche, agli agrumi e alla pietra focaia, il tutto in un quadro di leggiadra armonia. 


Al sorso è sostanzioso ma, al tempo stesso, ha una trama perfettamente bilanciata, espressa da una pingue morbidezza sostenuta da un’acidità affilatissima. Chiude il quadro gustativo un finale minerale decisamente interessante, così come il rapporto qualità/prezzo di questo vino che, se riuscirete a trovarlo, vi lascerà senza parole.

Nota tecnica: vino vinificato in acciaio inox. Dopo la fermentazione, il vino viene lasciato a riposare sulle fecce fini per qualche mese e sottoposto a regolari bâtonnage.

InvecchiatIGP: – Henri Bourgeois - Sancerre “Etienne Henri” 2012


di Lorenzo Colombo

La famiglia Bourgeois pratica la viticoltura da dieci generazioni nel villaggio di Chavignol, nella Loira centrale, ma la svolta che ha portato al successo l’azienda è dovuta a Henri Bourgeois che, negli anni ’50 del secolo scorso, si concentrò nella produzione di Sancerre nei due ettari di vigna situati a Chavignol. Negli anni ’60 i figli di Henri, Jean-Marie e Rémi, si aggiunsero al padre e acquistarono altri vigneti portando l’azienda ad essere conosciuta dapprima in Francia ed in seguito in tutto il mondo.


Attualmente l’azienda che è gestita da Arnaud, Lionel e Jean-Christophe Bourgeois, dispone di 72 ettari, suddivisi in 120 parcelle tra le appellations Sancerre e Pouilly Fumé e si è espansa anche al di fuori della Francia, acquistando nel 2001 90 ettari di terreni, nella regione di Marlborough in Nuova Zelanda e fondando l’azienda Clos Henri produttrice di notevoli Pinot noie e, naturalmente, Sauvignon.

Il vino

I vigneti sono situati su suoli composti da argille silicee e calcare sulle colline dei villages di Chavignol e Sancerre, la densità d’impianto è molto alta e gli intefilari sono inerbiti. La vinificazione è molto semplice, ovvero pressatura soffice e fermentazione in vasche d’acciaio dove il vino s’affina sui lieviti per circa sei mesi prima d’essere imbottigliato.


Si presenta con un color oro. Media la sua intensità olfattiva, ampio e complesso al naso, affascinante, minerale, verticale, ricorda i sassi bagnati, frutta tropicale, frutta a pasta gialla, arancia candita, mandorle, crema pasticcera, note vanigliate, leggeri accenni d’idrocarburi.


Dotato di buona struttura e verticalità, sapido e fresco, spiccata note minerali, acidità pronunciata, leggeri accenni speziati, pesca gialla, agrume maturo, mandorle, lunga la persistenza.

Alessio Brandolini - Provincia di Pavia Igt Bianco “Il Bardughino” 2023


di Lorenzo Colombo

Dapprima colpisce l’etichetta, opera del poliedrico artista Beppe Pasciutti, poi nel bicchiere si coglie la delicatezza del vino, frutto di uve Malvasia provenienti da San Damiano al Colle.


Fresco, sapido, asciutto, leggermente aromatico con note floreali, di frutta a polpa bianca e d’erbe officinali.

La Val di Cembra e il Müller Thurgau


di Lorenzo Colombo

Era da qualche anno che non salivamo nella valle del porfido, l’occasione di è presentata nella seconda metà del mese giugno quando Stefania Casagranda - conosciuta qualche mese addietro durante un evento a Milano - che si occupa tra altre mille cose dell’Ufficio stampa dell’Ufficio stampa Müller Thurgau: Vino di montagna, ci ha invitati a partecipare come commissari della 22ª edizione del Concorso Internazionale Vini Müller Thurgau che si è tenuta lo scorso 19 giugno a Cembra. Ma il concorso, che metteva in competizione 64 vini di diversa provenienza (45 trentini, 8 altoatesini, 1 proveniente dalla Valle d’Aosta e 10 dalla Germania) e che vedeva la partecipazione di 18 degustatori (19 in realtà), suddivisi in 3 commissioni, è stato solo l’inizio di questo interessantissimo viaggio in Val di Cembra, iniziato per l'appunto giovedì 19 con una serata nella Risto-Pizzeria Durer, a Segonzago, locale decisamente consigliato e che vede una clientela proveniente anche dalla città di Trento per la varietà e l’originalità delle sue pizze. Per il pernotto eravamo ospitati presso l’Agriturismo Maso Valfraja, un’oasi di pace a pochi minuti dal centro di Cembra, circondato da boschi e vigneti, dove al mattino Andrea ci preparava la colazione con le uova delle sue galline.


Detto del concorso, tenutosi il 20 giugno mattino e dopo il pranzo presso l’Agritur Le Cavade, con salumi, tortel de patate e smacafam, nel pomeriggio ci aspettava un tour panoramico in e-Bike tra i vigneti terrazzati, con partenza da Villa Corniole dove Maddalena Nardin si ha proposto alcuni dei suoi vini, il Trento Doc Salísa Zero Riserva del millesimo 2018, e il Dolomiti Igt Kròz Bianco 2020, frutto di un blend in parti uguali tra Chardonnay e Müller Thurgau. Dopo un paio d’ore di pedalata tra le vigne siamo infine giunti presso Cembra Cantina di Montagna dove, ovviamente, ci attendeva un’altra degustazione con il Trento Doc Riserva Oro Rosso ed un paio di Trentino Doc Riesling di diverse annata.


Dopo un’intensa giornata è infine giunta l’ora di cena tenutasi presso la Distilleria Pilzer, con le specialità di carne della Macelleria Palazzi che ci ha proposto tre costate di diversa provenienza e frollatura, oltre allo Speck dell’Imperatore, di loro invenzione. Durante e dopo la cena Bruno Pilzer ci ha a lungo intrattenuti raccontandoci il suo percorso di distillatore e le prossime novità in cantiere, non poteva naturalmente mancare la visita al reparto degli alambicchi.


Il sabato mattina è riservato alla visita all’interessantissimo Museo del Porfido di Albiano, peccato sia aperto unicamente su prenotazione e per gruppi di almeno 15 persone; una piacevole, inaspettata ed emozionante sorpresa è stata quella di vedere tra le numerose foto esposte di città più o meno importanti con strade e piazze pavimentate con porfido estratto dalle cave di Albiano, la piazza del mio paese di nascita, Vedano al Lambro. Ci ha guidati alla scoperta del museo Maurzio Gilli, sindaco di Albiano, che ci ha quindi condotti con una breve ma piacevolissima passeggiata tra boschi e castagneti sino al Parco faunistico per vedere i cervi, sempre con lui siamo poi stati a pranzo presso il Ristorante Borgo Antico, hotel e ristorante inaugurati nel novembre dello scorso anno. Nel pomeriggio abbiamo partecipato al Trekking enogastronomico Baiti en festa (vedi), organizzato dall’associazione Cembrani Doc, altra piacevole passeggiata inframmezzata purtroppo da un acquazzone che ci ha colti in campo aperto tra due tappe del percorso.


Nella mattinata di domenica 22 abbiamo effettuato la visita guidata alla Chiesa di San Pietro con le pareti (ed i soffitti) completamente ricoperti da affreschi di diverse epoche e quindi ci siamo trasferiti al grazioso Lago Santo dove abbiamo pranzato presso l’omonimo Rifugio prima d’intraprendere il viaggio verso casa. Parte delle esperienze da noi vissute -che avranno creato un poco d’invidia-possono essere godute partecipando alla 38ª edizione della rassegna “Müller Thurgau: Vino di Montagna” in programma dal 4 al 6 luglio prossimi.

InvecchiatIGP: Villa Calcinaia - Rosso dei Colli della Toscana Centrale IGT "Casarsa" 2004


di Stefano Tesi

Non ho mai capito se è l’amarcord che induce a stappare le vecchie bottiglie con i vecchi amici, o se è la compagnia dei vecchi amici che t’invoglia ad aprire le vecchie bottiglie. Probabilmente tutte due le cose. Ma poiché il discorso rischia di scivolare nel patetico, forse è meglio sorvolare e andare dritti all’oggi. Anche se è difficile sottrarsi alla fascinazione dei corsi e dei ricorsi, soprattutto enoici. E’ un anno quasi tondo che, compiendo un tuffo nei luoghi gloriosi di un gaudente passato (aridaje…), avevo raccontato in questa rubrica i fasti di un Chianti Classico risalente addirittura a quando, bambino, il vino lo bevevo solo di nascosto e senza troppo andare per il sottile con tannini e sentori vari.


Dodici mesi dopo, però, il fato mi ha riportato con gli stessi amici e la stessa cantina, quella di Villa Calcinaia dei conti Capponi a Greve in Chianti. Ed ha voluto che Niccolò e Sebastiano stappassero per l’occasione – la presentazione, al ristorante fiorentino Cibreo, della Linea 1524, che include il Metodo Classico Mauvais Chapon e i vini IGT prodotti nella storica tenuta di famiglia - alcune rare bocce, tra cui una 1997 e le venerabili magnum 2004 e 2010 del Casarsa, il loro Merlot 100% (all’epoca Colli della Toscana centrale Igt, oggi Toscana Igt), per metterle a confronto con l’ultima annata entrata in commercio, la 2019. La tenzone comparativa meriterebbe un’approfondita e dedicata trattazione, ma mi è impossibile tacere oltre di quel sontuoso 2004 assaggiato.


Il colore rubino profondo e caldo non tradisce l’età, mentre al naso il vino riflette tutta la riconoscibilità dell’annata calda e la tipicità del vitigno, con le note appena agèe di un bouquet integro, muscolare, dotato di una vitalità piena e di un’asciuttezza bella dritta, che non dà adito a strascichi o cedimenti e lascia onestamente compiaciuti. Nemmeno al sorso delude. Anzi: il palato è opulento, sapido, integro e rotondo, pienamente godibile, a suo modo un vero classico, da apprezzare in sé e nel quadro dell’epoca in cui fu prodotto. “Fermentò in vasche di cemento e poi maturò per venti mesi in barrique da 225 litri, solo più tardi iniziammo a usare per il Merlot i tonneaux che cominciavamo ad avere in cantina”, rievoca oggi Sebastiano Capponi.


Io l’ho accompagnato con un tenero rollè di coniglio riccamente farcito. Chi volesse emularmi (se non nell’abbinamento, almeno nella bevuta), sappia che il vino è ancora disponibile in cantina.

Giacomo Scagliola - SiFaSol Canelli DOCG Moscato 2024


di Stefano Tesi

Mai snobbare le degustazioni che paiono scontate. 


Questo sorprendente Moscato, sentito quasi per caso al Vinitaly, mi colpì immediatamente per l’imprevista asciuttezza, le note quasi esplosive di mela verde, una pastosità piacevole e non appiccicosa al palato, un’acidità che lo rende intrigante assai.

Tra Spiritualità e Terroir: i migliori assaggi dall'evento Vini d'Abbazia 2025


di Stefano Tesi

Mi dilungherò in altra sede, e con un taglio più ampiamente territoriale, nel racconto della recente esperienza vissuta durante l’edizione 2025 di Vini d’Abbazia, terzo appuntamento della kermesse organizzata nel chiostro e nel refettorio del (bellissimo, diciamolo) complesso abbaziale di Fossanova, a Priverno (LT). Kermesse dal nome azzeccatamente ammiccante e dedicata, in teoria, alle bottiglie prodotte da o all’interno di realtà monastiche. Ma in realtà allargata anche a produttori che alle abbazie sono vicini, o che con esse collaborano, o di cui gestiscono vigne e cantine, o che si limitano portarne il nome. Un piccolo infingimento che nulla toglie alla bontà dell’iniziativa, risultata invece capace di fungere non solo da attrattore di un vasto pubblico, ma di farlo in un contesto monumentale, in un certo senso intimo e soprattutto in un’area non scontata, di grande e in crescita sotto il profilo qualitativo come questo spicchio di Lazio, con i suoi vitigni-emblema: Cesanese, Nero Buono e Bellone.


Ho trovato pertanto quello che mi aspettavo: un luogo piacevole e logisticamente adeguato, dove avere l’opportunità di assaggiare in un clima vivibile, magari approfondendo se del caso, etichette non sempre facili da reperire, o curiose, o minori o semplicemente meno note. Il tutto, come ho detto, con la possibilità di allargare i confini dell’esperienza a un territorio ricco, poco omologato e, sotto il profilo socioculturale, profondamente laziale e italiano. Ma di questo, appunto, riparleremo.


Tornando ai vini, interessante innanzitutto la masterclass dedicata al Cesanese del Piglio, che in nove assaggi ha cercato di illustrare le virtù e le prospettive (nonché i rischi, a modesto parere del vostro cronista) della DOCG del Frusinate. Un vitigno, il Cesanese, e una denominazione dall’ottimo potenziale, se i produttori avranno l’accortezza di sfuggire alle sirene di certe prevedibilità troppo commerciali e di tenere la barra dritta sull’identità. Facile a dirsi e abbastanza, difficile a farsi, lo so.


Tra gli assaggi più convincenti del panel, il Bivi! CdP 2015 di Maria Elena Sinibaldi (gradevoli note balsamiche, frutta secca e prugne al naso, in bocca profondo e reso vivo da una marcata acidità), il Raphael CdP 2022 di Maria Ernesta Berucci (un Triple A vivamente pungente, nervoso e screziato al naso, in bocca pimpante e freschissimo) e l’Hernicus 2022 di Coletti Conti (vino elegantissimo all’olfatto, con frutto pieno e gentile, e con un sorso ampio, diretto e sapido).


Nei passaggi random tra i banchi e cantine del territorio ci ha colpito innanzitutto la potenza e la fragranza del Madam Terre di Cosenza doc 2022 di La Matina, un rosato più rosso che rosè, da Magliocco 100% lavorato in acciaio, affine al Cerasuolo per impronta, dal naso ricco e fruttato e dal palato sapido, perfino salino, molto conviviale. Bene anche il Capitolo Uno Moscato d’Asti Canelli docg 2023 di Beppe Marino, per la balsamicità e il delicato sentore di erbe officinali che si rispecchiamo in un palato pulitissimo, piacevole e tentatore. Riconferma per il Polleo Toscana Igt 2020 del Monastero dei Frati Bianchi, una Pollera 100% quasi diafana al colore, molto varietale, ma in bocca tonico e agile.


Bella anche la freschezza e la marcata nota agrumata dello Nzù Lazio Igt 2023 di Marco Carpineti, un Bellone 100% lavorato in anfora che in bocca ha qualcosa di antico e di denso, ma non noioso. È sempre di Carpineti e sempre da uve Bellone il Collesanti 2023, che al naso sventaglia un campionario olfattivo ricchissimo - dalla frutta all’incenso - e in bocca è pulito e piacevolmente acido. Non delude il collaudato Kerner Sabiona Alto Adige Val d’Isarco doc 2021 della Cantina val d’Isarco, un classico che al naso mantiene la delicata componente aromatica e al palato arriva gentile ed elegante. Decisamente curioso, nella sua opulenza, il Cabernet Sauvignon Atina doc 2020 della Masseria Barone: scurissimo, molto varietale e al tempo stesso mediterraneo, caldo, quasi sovramaturo al naso ma in bocca asciutto, composto, di media struttura.


Last but not least, due intriganti assaggi francesi: il Petit Chablis Domaine del l‘Abbaye du Petit Quincy Domaine Gruhier, col suo naso asciutto, quasi metallico e dalle note burrose che tornano al palato in una cremosità per nulla stucchevole, e l’Abbaye de Morgeot Pinot nero 2017 Chassagne-Montrachet 1er cru, elegantissimo, etereo e lievemente balsamico, pieno di frutto e note terrose, in bocca lunghissimo, con bella vena acida e un bel finale amarognolo. Resta da dire del vino forse più semplice, meno pretenzioso, ma anche più divertente: è il Riflessi della Cantina Sant’Andrea, allegro spumante rosè extra dry fatto col 100% di Aleatico, un piccolo miracolo di equilibrio tra gusto popolare, trasversalità conviviale, basso costo, versatilità e un colore Crodino pieno distoglie dal cipiglio critico e mette semplicemente allegria.

Tralci Vulcanici - Naturalmente Vino vi aspetta il 29 Giugno all'Area Archeologica del Tuscolo con 15 vignaioli naturali


Un territorio vitale, ricco di realtà agricole autentiche che finalmente si incontrano e si raccontano. Così nasce Tralci Vulcanici – Naturalmente Vino, l’evento che il 29 giugno 2025, dalle 17:00 alle 22:00, riunirà 15 aziende vitivinicole del territorio del Vulcano Laziale all’interno della suggestiva Area Archeologica del Tuscolo, grazie alla collaborazione con Cooperativa Iperico.

Un progetto che parla di impegno collettivo

Alla base di questo evento c’è la visione e il lavoro di Ilaria Giardini, sommelier e professionista del vino, da anni attiva nella promozione delle realtà artigianali del suo territorio d’origine: “Sono autoctona castellana e lavoro nel vino da quando avevo 18 anni. Dopo una lunga esperienza su Roma, ho deciso di riportare la mia energia e la mia passione ai Castelli Romani, un territorio che ha bisogno di impegno e divulgazione.” Con questo spirito, Ilaria ha iniziato a riunire alcuni piccoli produttori locali, accomunati da un approccio artigianale e da scelte produttive consapevoli, nel rispetto di un’etica agricola trasparente e sostenibile. “Una sera, durante le feste di Natale del 2023, mi sono resa conto che molti vignaioli del territorio nemmeno si conoscevano tra loro. Così ho deciso di invitarli a cena. Da lì è nato tutto.”


Quell’incontro ha dato vita a un gruppo stabile di 8 aziende fondatrici – La Torretta, Colleformica, Marco Colicchio, Liane, Simone Pulcini, Casale Certosa, Emiliano Fini, Terracanta – che per oltre un anno si sono incontrate regolarmente, confrontandosi e creando una rete di collaborazione e amicizia. In occasione dell’evento, saranno presenti anche altri produttori affini per visione e metodo, dando così vita a una comunità allargata - e ancora in crescita - che si presenta oggi per la prima volta al pubblico con un messaggio comune.

Non solo vino: un momento di festa e condivisione

Tralci Vulcanici sarà una festa del vino. I vignaioli presenteranno i propri vini: espressioni autentiche di un lavoro agricolo, naturale e rispettoso, radicato in un territorio unico come quello dei Castelli Romani. Ogni calice sarà occasione di conoscenza, confronto, scoperta.

Come racconta Riccardo Magno de La Torretta: “Il vino è condivisione. Comunicare che qui c’è chi lavora con rispetto per il territorio e per chi lo abita è fondamentale. L’unione fa la forza: Tralci Vulcanici è l’atto visibile di un percorso di confronto e amicizia.”

Gabriele Jacobini di Liane aggiunge: “Le nostre idee erano molto vicine. Ci siamo sentiti tutti sulla stessa barca, con gli stessi problemi. Questo evento è il primo momento concreto in cui proviamo a raccontare il vino dei Castelli con una voce collettiva.”

Simone Pulcini conclude: “Per me è già una grande risorsa poter assaggiare a vicenda i nostri prodotti e confrontarci. È l’inizio di un percorso nuovo per questo territorio.”

Il gruppo Tralci Vulcanici nasce proprio dalla volontà di raccontarsi collettivamente, con semplicità e coerenza. Come sintetizza Emiliano Fini: “È un ritorno alla tradizione, ma con una consapevolezza nuova. Un vino più autentico, più identitario, che nasce da questo meraviglioso territorio.”


Ad accompagnare i calici, una selezione gastronomica curata da cinque eccellenze della ristorazione dei Castelli Romani, che proporranno piatti in abbinamento ai vini presenti:

Tinello
Avus
Belvedere dal 1933
Il Torchio
DLR – DopoLavoroRicreativo

INFO UTILI

📍 Area Archeologica del Tuscolo – Monte Porzio Catone (RM)

📅Domenica 29 giugno 2025

🕔 Ore 17:00 – 22:00

🎟️ Biglietti su Eventbrite:


LE AZIENDE PARTECIPANTI

La Torretta
Colleformica
Marco Colicchio
Liane
Simone Pulcini
Casale Certosa
Emiliano Fini
Terracanta
Icaro
Sambuco
Vin Viandante
Farina
Cantina Ribelà
I Chicchi
Sassopra

Per informazioni, stampa e accrediti: Ilaria Giardini


📞 +39 347 166 1213

InvecchiatIGP: Mario Schiopetto - Riesling 2001


di Luciano Pignataro

Una delle più grandi emozioni che il vino può regalare agli appassionati è poter bere delle bottiglie lasciate in eredità dalla generazione che ci ha preceduto. A me è successo da Agli Amici di Michela e Emanuele Scarello a Udine: durante il nostro viaggio tra i vini friulani la sommelier Giorgia Lavaroni ci riserva una chicca da un fuori carta, quelle bottiglie che spesso i ristoratori riservano a se stessi per le occasioni speciali. Ecco dunque il Riesling 2001 di Mario Schioppetto a rendere memorabile questa giornata.


Agli esperti non c’è bisogno di ricordare questo grande personaggio, classe 1930. In estrema sintesi è stato uno dei padri del vino moderno italiano e il successo del Friuli è proprio dovuto alla sua visione pioneristica del vino in un’epoca pre-metanolo quando il consumo era di oltre cento litri a testa e in tutta la Penisola si aprivano fiaschi e boccioni oltre che taniche.

Mario Schiopetto - Foto: cinellicolombini.it

Lui si appassionò alla viticoltura di qualità, spese tutta la vita nella ricerca irrobustita da continue trasferte in Francia e in Germania e dagli scambi con i grandi dell’epoca, da Angelo Gaja e Franco Biondi Santi, tanto per dire, impostando così una narrazione che è durata in pratica sino ai giorni nostri in cui tutto sembra essere messo di nuovo in discussione.
La scelta del Riesling fu appunto il risultato degli interessi di Mario per la viticoltura e le tecniche d’Oltralpe, al punto da brevettare una bottiglia renana a sua misura con la quale presentarsi al mercato. Intendiamoci, è stato il mentore del Tocai, oggi Friulano, l’antesignano dei grandi vini bianchi della sua regione e dunque anche italiano, un segmento nel quale ancora oggi i protagonisti sono troppo pochi rispetto alle enormi potenzialità di invecchiamento che alcune uve (fiano, verdicchio, timorasso, ribolla, carricante) hanno ormai dimostrato di poter affrontare non solo resistendo ma anche migliorando con il passare degli anni.


Gli amanti del Riesling possono immaginare cosa è uscito da questo bicchiere e quale soddisfazione abbiamo avuto nel poterlo fare con persone competenti e dotate di memoria storica. Perché una delle caratteristiche di queste bottiglie è poterle condividere scambiandosi opinioni, sensazioni, informazioni. In primo luogo, va da sé altrimenti non avremmo potuto scrivere, dobbiamo confermare la vitalità assoluta di questo bianco dopo tanti anni, quasi un quarto di secolo per la precisione. Un naso complesso di frutta evoluta, camomilla, note balsamiche, lampi fumé e solo in parte di idrocarburi (non marcati come ci saremmo aspettati però), al palato il sorso è stato energico, fresco, palpitante, lungo, pulito, con un finale netto e preciso.


Una prova eccezionale di longevità e di bravura tecnica. Persino il tappo era ancora perfettamente integro. Vini del genere nascono da persone decise che però sono aperte e curiose e fanno ricerche. Oggi purtroppo vediamo troppi narcisisti del vino che dicono di sapere tutto e si negano al confronto. Schiopetto invece socraticamente sapeva di non sapere, perciò ci ha lasciato vini immortali.

Kante - Malvasia 2022


di Luciano Pignataro

Alla Subida, a Cormons, Mitja Sirk ci fa bere bene e con passione. Quando nel piatto tocca al tubetto con il midollo abbina questa fantastica Malvasia, il grande classico di Kante che evoca salsedine e iodio. 


Poco più di tre anni di attesa per un bianco friulano di carattere, freschissimo, lungo, appagante.

Alla scoperta dell'Etna Rosso Doc 2021 di Tasca D'Almerita declinato nelle sue tre contrade: Pianodario, Rampante e Sciaranuova


di Luciano Pignataro

Michele Brusaferri è come un bambino felice in un parco giochi. Tutto il giorno scorazza impolverato nei 28 ettari acquistati da Tasca d’Almerita nell’ormai lontano 2007, distante mille chilometri dalla sua Milano di cui non sembra avvertire nostalgia. Un cambio di paradigma di un emigrante del Nord che viene al Sud perché ama il proprio lavoro di enologo.
Così mentre l’Etna emette di continuo fumo bianco, un po’ come i tombini di New York, Michele gira tra i vigneti ad alberello, gli ulivi, i boschi di castagno per poi rinchiudersi nella nuova cantina a Contrada Rampante nel comune di Randazzo dove vengono lavorati i vini. Non sappiamo se da bimbo abbia poppato il nebbiolo di Ar.Pe.Pe, certo è che alla cieca si farebbe fatica a distinguere quel rosso nordico dal nerello mascalese di Pianodario. Un vino etereo, che quella volpe commerciale di Leonardo Vallone ha deciso di ritirare dalle vendite per assegnarlo solo a 40 ristoranti nella versione 2021 presentata al Vinitaly lo scorso maggio e in distribuzione da maggio. Un progetto sartoriale che questo rosso etneo merita, uno dei più straordinari che abbia mai provato: e si che in oltre 50 anni di militanza attiva fra nel partito dei bevitori ne ho bevuti di vini.


Pianodario (pieno di aria) è l’emblema di cosa sia diventato l’Etna in questi ultimi 30 anni, da quando Benanti ne capì le potenzialità seguito da imprenditori lungimiranti e costringendo anche tante aziende siciliane ad investire sul vulcano che qui, come del resto il Vesuvio, è chiamato semplicemente ‘a Muntagna.
L’Etna, come il mare, pretende rispetto, le sue colate laviche, sciare, si possono coniugare alla memoria degli individui di ogni generazione, a differenza delle eruzioni del Vesuvio che ormai sono nel ricordo solo di chi era bimbo nel 1944. Sono vulcani diversi, uno quieto e pericoloso, l’altro esuberante ma tutto sommato domesticabile, anche se alcune sciare hanno fatto non pochi danni nel corso negli ultimi decenni. In questo casino naturale Michele Brusaferri cerca di applicare il razionalismo cartesiano di chi nasce al Nord ma il contatto quotidiano con la Divinità lo ha costretto a dare sfogo all’istinto, alla percezione, ai suggerimenti di ciascuna annata e alla fine a proporre un rosso esile, sottile ma di carattere, proprio come l’Etna, che merita rispetto.

Michele Brusaferri

Noi italiani siamo figli dei comuni, non dell’Impero Romano come voleva la retorica del Ventennio, istintivamente amiamo il piccolo e anche parte del mondo del vino resta abbagliato dal giovane che fa il vino come il nonno. Ma la realtà è che per fare un grande vino sono necessari investimenti, spalle larghe e una pazienza commerciale che vada oltre le declamazioni. Non ha importanza, almeno per me, come si fa il vino, quel che conta è il risultato finale nel bicchiere, anfora, acciaio, legno piccolo, legno grande, cemento, vetroresina. Ne abbiamo viste e subite di mode dagli anni ’90 in poi, ma quando hai un bicchiere di Pianodario sei di fronte a qualcosa che dal reale ti porta all’irreale, come scriveva Veronelli. Abbiamo avuto il piacere di saggiare in anteprima l’annata 2021 e l’offriamo ai lettori di questa disgraziata rubrica che ormai va avanti da oltre un quindicennio. Eravamo giovani e forti, il fisico cede ma la nostra testa è fresca, freschissima, dotata di strumenti di intercettazione della realtà decisamente efficaci di chi ci ha preceduto e di chi ci segue visto che siamo passati dalla carta all’immateriale. Una generazione di mezzo.


Il progetto rosso di Tasca d’Almerita ha alle spalle una storia agricola che risale all’800 quando fu acquistata la tenuta di Regaleali nel centro della Sicilia che oggi vanta 600 ettari tutti a conduzione rispettosa dell’ambiente. Ha dunque il grande vantaggio di non poter fare l’errore tipico di tutti gli imprenditori parvenue del vino, la fretta. Alberto Tasca e la moglie Francesca sanno che sono i tempi lunghi dell’agricoltura a determinare le scelte finali e che questi tempi non possono essere soggetti all’orologio che banalizza una giornata in dodici ore ripetute due volte. Possiamo dire che il progetto dell’Etna sta raggiungendo adesso la sua maturità espressiva, rubo questa felice espressione a Fabio Rizzari. Una maturità divisa in partes tres come la Gallia di Cesare. 


Contrada Rampante, Contrada Sciaranuova e, appunto, Contrada Pianodario. Tutte 2021 entro l’anno. Quest’ultima, come abbiamo detto, è la più eterea, ha un naso di una eleganza assoluta, al palato freschezza, tannini risolti, finale amaro tipico dei vini da zone vulcaniche. Quasi cento piccoli terrazzamenti continuamente ventilati, è qui che si fa l’ultima vendemmia della stagione.


Contrada Rampante si presenta più fruttata, quasi esuberante al naso per ricomporsi al palato in un sorso esile e preciso ma che gratifica. Infine Sciaranuova (ossia lava nuova) è quasi una via di mezzo fra le due, quella che appare più equilibrata e in grado di parlare sia a chi ama il frutto sia a chi punta sull’eleganza.
Michele è riuscito a marcare le differenze fra questi tre cru di Randazzo e berli insieme ha qualcosa di didattico e al tempo stesso emozionante perché l’assaggio tridimensionale dimostra ancora una volta quanto sia importante il terreno nel quale sono piantate le vigne e quanta differenza ci sia fra un versante e l’altro dello stesso territorio.


L’Etna di Tasca si inserisce in un movimento collettivo imponente che ne fa, a nostro giudizio, un territorio che ha ancora grandi potenzialità di sviluppo e di apprezzamento delle bottiglie. Il tema del vino non è la salute e scendere su questo terreno è perdente, la verità è che il vino è cultura, paesaggio, emozione, energia mentale.

Grappoli 2025: il Wine Festival dei vulcani torna a Belpasso il 5 Luglio


Torna sabato 5 luglio al Parco Urbano “Peppino Impastato” di Belpasso la quarta edizione di “Grappoli”, manifestazione ideata dall’associazione giovanile Verde Basico che celebra l’incontro tra cultura, paesaggio e viticoltura. Un’edizione che si annuncia straordinaria, sia per la qualità che per l’estensione del racconto enologico: protagonista assoluto sarà il tema “L’Etna e vulcani del Mediterraneo”. 


Oltre 70 cantine — con una presenza significativa di aziende etnee — animeranno la serata con degustazioni e incontri, con produttori provenienti da Pantelleria, dalle Isole Eolie e un'area dedicata al territorio ospite con 10 cantine dai Campi Flegrei e dal Vesuvio, conoscenza che si potrà approfondire nella stessa giornata grazie a una speciale masterclass (posti limitati) organizzata in collaborazione con Associazione Italiana Sommelier e Organizzazione Nazionale Assaggiatori di Vino. 


«Grappoli continua nel suo percorso di crescita, inclusione e promozione del territorio con sguardo all'innovazione e nel rispetto della tradizione vitivinicola – dichiara
Salvo Laudani, rappresentante dell’Associazione Verde Basico – e siamo lieti di abbracciare realtà vulcaniche di altri territori che non fanno altro che aggiungere valore al patrimonio che ci tocca rispettare e valorizzare». Un viaggio tra i vini dei crateri, dunque, che esplorerà terroir differenti ma legati da un filo comune: la potenza identitaria delle comunità vulcaniche, capaci di generare vini intensi, ricchi, espressivi. «L’edizione 2025 è l’esempio perfetto di quello che per me vuol dire crescita costante – aggiunge Sergio Bellissimo, Direzione Esecutivo del Wine festival – grazie ad una rinnovata sinergia con il Comune di Belpasso, il 5 luglio avremo più di 70 aziende partecipanti, includendo per la prima volta delle aziende vulcaniche dalla Campania, ospiti sempre più importanti e, ancora, la prima edizione del Premio Grappoli. Sarà un’edizione sorprendente, frutto di un grande lavoro organizzativo». 


In programma talk, degustazioni guidate, momenti musicali e un’area food con eccellenze gastronomiche siciliane, per un’esperienza che intreccia gusto, conoscenza e territorio. «Grappoli non è solo un evento dedicato al vino - spiega il sindaco di Belpasso, Carlo Caputo - ma è un modo per raccontare il nostro territorio che dialoga costantemente col vulcano l'Etna. Questo evento, che noi come amministrazione promuoviamo, si allinea perfettamente con la più ampia visione di sostenere proattivamente il nostro patrimonio artistico e culturale, le eccellenze locali, stimolando la crescita economica e favorendo il turismo». L’appuntamento con Grappoli 2025 è per sabato 5 luglio a Belpasso dalle 18.00 presso il Parco Urbano “Peppino Impastato” sotto il cielo dell’Belpasso. Un brindisi collettivo alla cultura del vino e alla ricchezza dei territori vulcanici del Mediterraneo.

InvecchiatIGP: Contrada Salandra - Falanghina dei Campi Flegrei DOC 2014


di Carlo Macchi

Giuseppe Fortunato è tranquillo come un fiore ben piantato nel suo terreno e operoso come un’ape. Non produce fiori ma vini che ti fanno rifiorire e li produce grazie anche alle api che “lavorano assieme a lui”. Naturalmente non le ha messe a libro paga ma in arnie ben tenute e le api ricambiano svolazzando e aiutando la microdiversità dei suoi vigneti.


Giuseppe ha le vigne su un terreno ballerino, quello dei Campi Flegrei, dove coltiva piedirosso e falanghina. Sono vigne su piede franco perché il terreno è composto da sabbia e cenere vulcanica e qui la fillossera non campa. Nella piccola cantina ha solo acciaio, dove fermenta e tiene i suoi vini prima di lunghi affinamenti in bottiglia, tanto che esce sempre almeno un anno dopo tutti gli altri.

Giuseppe Fortunato

Durante l’ultima visita da lui ha stappato una Falanghina dei Campi Flegrei 2014 per capire quanto un’annata non certo facile viene interpretata da quello che potrei definire “apiviticoltore”. Intanto sgombriamo il campo dalla sterile diatriba sulla 2014: per quasi l’85-90% della produzione si è trattato di un’annata tragica, per il resto il clima fresco e le giuste attenzioni in vigna, hanno spesso prodotto delle piccole opere d’arte. Adesso quell’85-90% non esiste più, ormai bevuto e digerito da tempo, ma è rimasta una parte di quel 10-15% che fa gridare al miracolo e porta a ribaltare i toni sull’annata da chi non riesce a capire le percentuali suddette.


La Falanghina di Giuseppe fa parte del 10-15% e lo dimostra con un colore dorato giovane e brillante e soprattutto con un naso floreale, fruttato, minerale, profondo e intenso che veramente riesce a “miracol mostrare” in bocca la freschezza è netta ma è ormai ingentilita dal corpo equilibrato, portando ad una chiusura sapida e molto lunga. Un consiglio finale, anche senza arrivare agli 11 anni di questa falanghina, qualsiasi bianco anche di livello inferiore a questo di Giuseppe, bevetelo almeno dopo 3-4 anni dalla vendemmia: farete un favore al vino e a voi stessi.

Bodega del fin del Mundo - Patagonia IG Blanc de Noir Extra Brut Fin del Mundo


di Carlo Macchi

Dalla Susi al Giardino delle Esperidi a Bardolino sei certo di bere bene e… strano: prendi questo metodo classico Pinot Nero e Chardonnay (80%-20%) che viene dalla fine del mondo e si chiama proprio così.


Dalla Patagonia una bollicina cremosa, piacevole di grande bevibilità, tanto che è finita in baleno.