Agricola Vallecamonica - Valcamonica Bianco Igt “Bianco dell’Annunciata” 2021


di Lorenzo Colombo

La Valle Camonica è conosciuta in tutto il mondo per le Incisioni Rupestri dichiarate Patrimonio Mondiale dell’Unesco, meno conosciuta, perlomeno presso il grande pubblico, è la sua vocazionalità per la viticoltura praticata da circa 500 viticoltori che si occupano, generalmente nel tempo libero, di gestire i circa 140 ettari di vigneti dell’Igt Valcamonica. La viticoltura in queste zone è attestata sin dall’epoca romana, si è poi sviluppata nel basso Medioevo, periodo nel quale esistono molti documenti che attestano la presenza della vite e, con alti e bassi, si giunge al periodo delle grandi malattie, fillossera anzitutto, che arriva in zona nel 1887 riducendo drasticamente la superficie vitata. Il parziale recupero inizia nel primo Novecento per poi vedere nuovamente crollare la viticoltura negli anni Settanta a causa dell’abbandono dei vigneti a favore di un più redditizio e meno oneroso lavoro in fabbrica. Negli ultimi trent’anni si assiste ad un rinnovo dell’interesse per la viticoltura, con un progressivo recupero dei vecchi vigneti e con la richiesta, seppur limitata, di reimpianti.


L’IGT Valcamonica creata nel 2003 s’estende sul territorio di 25 comuni situati nella valle che dal Lago d’Iseo s’inerpica sino a Edolo ed è, dal punto di vista viticolo, suddivisa in tre macroaree che partono da Piancamuno – a pochi chilometri dal Lago d’Iseo- e in una quarantina di chilometri si spingono sino a Berzo Demo nella parte più a Nord della valle. Il disciplinare prevede la produzione di cinque tipologie di vino: Bianco, Bianco passito, Rosso e con l’indicazione dei vitigni Merlot e Marzemino mentre le uve più diffuse, oltre ai già citati Merlot e Marzemino, sono il Riesling renano, l’Incrocio Manzoni 6.0.13 ed il Müller Thurgau.


L’Agricola Vallecamonica di Alex Belingeri dispone di quattro ettari di vigna collocati su terrazzamenti su entrambi i versanti della bassa valle, i vitigni presenti sono Marzemino, Riesling renano, Incrocio Manzoni 6.0.13 oltre a vitigni PIWI, ovvero Bronner, Johanniter e Souvignier gris e vitigni antichi prettamente locali dai nomi dialettali: Ciass Negher, Baldamina, Valcamonec, Gratù e Hibebo. La produzione annuale è di circa 20.000 bottiglie suddivise su nove etichette.

Il vino in degustazione

Primo vino prodotto dall’azienda, prende il nome dal Convento della Santissima Annunciata nei pressi del quale, tra i 600 e gli 800 metri d’altitudine si trovano i vigneti di Incrocio Manzoni 6.0.13, il sistema d’allevamento è a Guyot basso con densità di 7.000 ceppi/ha e con resa di 60 ettolitri/ha, mentre il suolo è composto da sabbie con infiltrazioni d’argilla su un sottosuolo roccioso con presenza di fossili marini. Fermentazione e affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta sui lieviti per sette mesi. Le bottiglie prodotte sono 4.000.


Il colore è giallo-oro luminoso. Discretamente intenso al naso dove cogliamo note floreali e di frutta a polpa gialla, accenni di pera e mandorle uniti a leggeri sentori idrocarburici. Fresco, intenso e decisamente sapido, dotato di buona struttura e di bella verticalità, presenta accenni piccanti di zenzero, note fruttate dove emergono la mela e gli agrumi, buona la sua vena acida e lunga la persistenza.

Nota: L’azienda è conosciuta soprattutto per il VSQ Metodo Classico Nautilus Crustorico prodotto con l’utilizzo di oltre dieci vitigni a bacca rossa molti dei quali prettamente locali come i giù citati Ciass Negher, Baldamina, Valcamonec, Gratù e Hibebo, il vino s’affina per 48 mesi nelle acque del Lago d’Iseo.

InvecchiatIGP: Podere Marcampo - Toscana Rosso IGT "Giusto alle Balze" 2013


di Stefano Tesi

Di vite da romanzo (scusate l’enogioco di parole, non ho resistito) il mondo del vino è pieno. Si tratta poi di vedere quali siano il frutto di un abile storytelling e quali basate su fatti veri e non purgati ad hoc in favore di marketing. Quando si tratta di assaggi, la questione non cambia molto: contano quello che c’è nel bicchiere e magari le comparazioni con gli assaggi precedenti, mentre le chiacchiere stanno a zero.


Nel 2021 avevo già assaggiato il Giusto alle Balze 2013, un Igt Toscana al 100% Merlot, quando al Podere Marcampo c’era ancora Genuino Del Duca, fondatore e protagonista del romanzo in parola (a pensarci bene, un destino avventuroso già dal nome): carabiniere abruzzese stanziatosi in Toscana, andato in pensione, diventato ristoratore di successo e poi vignaiolo a Volterra, zona dove, secondo la vulgata, “il vino non ci viene”. L’ho riassaggiato qualche settimana fa, quando alla guida dell’azienda ho trovato la figlia Claudia, ma a far la guardia alle vigne è rimasto Genuino, immortalato nel bassorilievo di terracotta che oggi ospita le sue ceneri, murato sul muro della cantina ovviamente orientato sugli amati filari.


La storia dell’azienda in sé, nata un po’ per ostinata scommessa e un po’ per esigenze burocratiche - serviva la vigna per giustificare la creazione di un agriturismo dal rudere acquistato nel 2003 con vista sulle balze volterrane, su terreni di origine sedimentaria, con depositi marini e marne argillose - è e rimane familiare: gli ettari vitati sono cinque, certificati Bio dal 2021 e affidati dall’anno successivo all’enologo Luca Rettondini. Oltre al Merlot si coltivano Vermentino, Sangiovese, Pugnitello e un Ciliegiolo che, in purezza, ci anticipa Claudia, sarà il protagonista del nuovo vino del Podere Marcampo.


Ero però molto curioso di risentire il Giusto alle Balze 2013, l’ultima annata affinata in barrique (oggi si usano i tonneaux). Curioso sia per la mia nota, scarsa simpatia per il Merlot in generale e sia perché, viceversa, quell’assaggio mi aveva incuriosito parecchio per le sue (rileggo gli appunti) “note balsamiche e di erbe selvatiche o officinali, con un punto di rabarbaro e, in bocca, una certa acidità, tannino ben definito e una piacevole nouance amaricante”. In pratica, mi era piaciuto.


E mi piace ancora oggi, con undici anni sulle spalle e, quindi, un’età che può anche essere critica per vini di questo tipo. Alla vista il colore è scurissimo, quasi impenetrabile. Al naso il vino è maturo ma non evoluto, con note complesse e varietali, che poi virano in sentori di liquirizia. La parte migliore è però in bocca: il sorso è integro, vivo, profondo e quasi pungente, con una bella ampiezza e un nerbo al palato perfino inaspettato per vigore e agilità. In poche parole: una gradita conferma.

Fattoria I Veroni - Chianti Rufina Riserva DOCG Terraelactae "Vigneto Quona" 2021


di Stefano Tesi

La bontà del progetto Terraelectae (solo Sangiovese da unico vigneto) varato anni fa dal Chianti Rufina non ha bisogno di riprove, ma le conferme fanno sempre piacere e questo vino dal colore intenso, sentori di frutto maturo e accenni salmastri, ricco, composto ed asciutto in bocca ne offre in abbondanza.


L'identità di Carmagnini del '500, luogo del cuore a Calenzano


di Stefano Tesi

La cucina, anzi la tavola, è una brutta bestia. Da un lato ti sobilla e ti acceca con lo star-system pompato dai social e dal marketing, dall’altro ti blandisce con la camomilla della memoria e la tradizione. Ma, in entrambi i casi, spesso si tratta di bubbole. Mangiare oggi infatti è diventato come il sesso: se ne parla troppo e lo si pratica poco e male.
La trappola del tipico, del resto, è insidiosa, perché tende a ingessare la cucina nella fissità di un’ortodossia innaturale o a tramutarla nel suo opposto, ossia nell’inseguimento della novità a tutti i costi, con risultati non di rado patetici e – vogliamo dirlo? – spesso assai costosi. Perché cucinare, in fondo, non è un’arte, come sovente si tenta di far credere, ma una forma di artigianato molto creativo, che comporta la necessità di replicare all’infinito cose buone con quello che passa il convento, in una sorta necessitato adattamento destinato alla fine a diventare una lenta evoluzione.


Forse è per questo che, chi mangia per mestiere, quando non lo fa per lavoro bensì per puro piacere va a cercarsi certe nicchie capaci di regalare certezze collaudate, piatti solidi e gratificanti, assaggiati tante volte ma mai noiosi, venati di ricordi senza nostalgia. Frutto di un’idea anche un po’ antica, ammettiamolo, dei piaceri della tavola, intesi come appagamento del palato e dello spirito, dove l’”esperienza” c’è già stata e si cercano, casomai, conferme. Quella cucina insomma che qualcuno, prima di mettere il naso dentro al piatto, chiama polverosa. Ma poi lo spazzola bene bene e ci fa pure la scarpetta.
Uno di questi posti rassicuranti, da pranzo della domenica (nel senso dello spirito che lo accompagna) o da cena in fraterna compagnia, è il Carmagnini del ‘500, ultracentenario ristorante lungo la boscosa strada che da Calenzano, nella piana tra Firenze e Prato, sale verso Barberino del Mugello. Luogo d’altri tempi. Non per l’architettura, che anzi è ariosa, ma per l’atmosfera che vi aleggia.

Ci sono tornato qualche tempo fa. Troppo fa, lo ammetto.

Ho ritrovato subito, però, la familiarità che cercavo, i sapori non banali e l’equilibro rassicurante di certe ricette assaggiate mille volte, eppure difficili da trovare così centrate e così godibili. Abbondanti ma non tracimanti. La sapidità dei crostini di fegato al vinsanto, ad esempio, si sposava con una consistenza e una misura rara ormai a trovarsi in una portata così abusata nei vicini mangifici cittadini, rivelando una mano sapiente.


La delicata, profumata, densa cremosità della carabaccia (la zuppa di cipolle rinascimentale toscana), con il suo pane secco un po’ abbrustolito e quel gusto inconfondibile in bilico tra intensità e carezza, la morbida tenacia della pasta dei tortelli mugellani (quelli col ripieno di patate) intrisi in un sugo robusto e tirato a dovere, il petto d’anatra all’arancia intriso, questo sì, di reminiscenze e un peposo coerente, quadrato, quasi filologico nella sua esecuzione fatta di semplicità e gran cura, mi hanno regalato un’ora e mezza di puro relax, anzi di otium latino, direi. 


Il tutto accompagnato ovviamente dall’amabile conversazione con lui, il cavalier Saverio Carmagnini, appassionato ciclista, oste, patron, sommelier, nel locale di famiglia dal 1968 (l’attività risale al 1912), memoria storica della ristorazione fiorentina e della sommellerie toscana. Uomo, per anagrafe e soprattutto per carattere, assai lontano dal glamour frou-frou della gastronomia contemporanea.


No, stavolta non gli ho chiesto di accompagnarmi a visitare la leggendaria cantina (ma consiglio caldamente di chiederglielo), che poi è lo specchio della sua cucina e del suo stile: ho preferito inframmezzare i copiosi bocconi con amarcord, aneddoti, discettazioni sulle ricette rinascimentali (una delle missioni di Saverio e di sua moglie Giulietta) e non, inevitabili quanto salaci battute. E per l’intero convivio, però, ho frugato nella mente alla ricerca di un aggettivo che avevo sulla punta della lingua, ma che lì per lì proprio non mi veniva, per descrivere quei cibi e quella sensazione di pacioso appagamento quasi letterario, o forse esistenziale, che stavo provando. Ora che scrivo, l’ho trovato. Ed era semplice, perfino banale, addirittura abusato ma in questo caso semplicemente veritiero: “identitario”. 
Devo tornarci presto.


Carmagnini del ‘500
Via di Barberino 242, Calenzano (FI)
055 8819930
www.carmagninidel500.it

Terre di Vite: seicento vini artigianali da assaggiare


Oltre centrotrenta produttori di vino artigianale, degustazioni, laboratori, food truck, musica, performance artistiche e un contesto affascinante. Sono i seducenti ingredienti della tredicesima edizione di Terre di Vite, in programma sabato 26 e domenica 27 ottobre a Bomporto via Gorghetto n. 92/100, in provincia di Modena, all’interno della storica Villa Cavazza – Corte dalla Quadra.


La manifestazione offre la rara opportunità di assaporare un migliaio di varietà di vini prodotti con metodi artigianali. Barolo, Traminer Aromatico, Vernaccia, Cesanese, Aglianico, Cirò, Ribolla Gialla, Chardonnay, Albana, Barbera, Dolcetto, Merlot, Pinot Bianco, Pinot Nero, Nebbiolo, Aleatico, Moscato, Botticino, Vermentino, Schiava, Sauvignon, Bonarda, sono solo alcuni dei vini tra cui scegliere.

Protagonista assoluta della manifestazione sarà una nutrita e qualificata rappresentanza di vignaioli che alla qualità del prodotto uniscono il rispetto delle tradizioni contadine e dei ritmi della natura, applicando metodi di coltivazione tradizionali e sostenibili, rifiutando l’impiego di prodotti chimici di sintesi come pesticidi o diserbanti, e valorizzando i vitigni autoctoni e le antiche pratiche agronomiche.

Filo conduttore della tredicesima edizione è la creatività come espressione naturale del territorio di provenienza dei vini, del paesaggio che si racconta con i suoi contorni e colori: un trait d’union che accomunerà i seminari, le degustazioni guidate, le mostre e le performance artistiche che animeranno le due giornate. I vignaioli presenti arrivano da tutta Italia, in rappresentanza di diciotto regioni, con alcuni sconfinamenti in Francia e Germania, e proporranno i loro vini artigianali in assaggio libero.

“Sin dalla prima edizione, in stretta collaborazione con Roberto Giuliani, direttore della rivista online Lavinium www.lavinium.it, abbiamo selezionato produttori che hanno scelto di privilegiare il prodotto artigianale e, anche quest’anno, abbiamo sviluppato questo percorso. Si tratta di un evento che valorizza scelte produttive basate sulla tradizione e sul rispetto di tutto ciò che ci circonda. Non a caso tra gli ospiti più prestigiosi abbiamo il giornalista Sandro Sangiorgi, il maggior esperto italiano di vini naturali. Nostro obiettivo è anche creare un clima di festa, relax e condivisione, col piacere di andare alla scoperta di sapori nuovi” sottolinea Barbara Brandoli, organizzatrice dell’evento.

L’offerta è arricchita dalla presenza di una trentina di spazi espositivi collocati sotto i portici di Villa Cavazza, dedicati prevalentemente al buon cibo, con la presenza di alcuni artisti che realizzano gioielli a mano e candele artigianali. I più golosi potranno completare la propria esperienza culinaria approfittando dei truck presenti che, oltre a proporre gelato artigianale, prepareranno piatti tipici emiliani.

UN RICCO PROGRAMMA

Accanto alle degustazioni, durante la due giorni, a partire dal primo pomeriggio, saranno proposti otto Laboratori del Gusto, opportunità da non perdere per assaporare prodotti tutti da scoprire, sotto la guida di esperti e comodamente seduti all’interno di splendidi spazi.

Sabato 26, alle 13, si inizia con “Finger Food and Wine” dedicato all’abbinamento tra cibo e vino per un aperitivo perfetto, si prosegue alle 14.30, parlando di “Cucina Vegetale e vino”, per poi passare, alle 16, a un incontro ravvicinato con una delle eccellenze modenesi, il salame di San Felice. La chiusura della prima giornata è dedicata all’Oro Nero di Modena: in collaborazione con il Consorzio Produttori Antiche Acetaie, guidati dall’Associazione Esperti Degustatori Aceto Balsamico Tradizionale di Modena D.O.P. i partecipanti potranno conoscere la storia e il gusto del prezioso condimento in abbinamento con diverse marmellate.

Il giorno successivo, domenica 27, sempre alle 13, il primo protagonista sarà il lievito madre ingrediente del pane da assaggiare con olio extra vergine di oliva e un ottimo bicchiere di vino; si prosegue alle 14.30 con l’arte dell’abbinamento tra dolci e vino, mentre alle 16, con “Modena e gli altri”, si esploreranno percorsi meno frequentati e si parlerà di pairing tra piatti tipici della tradizione modenese e vini di altre regioni. Decisamente fuori dagli schemi, infine, l’ultimo laboratorio durante il quale, a partire dalle 17.30, si terrà una masterclass dedicata alle possibili contaminazioni nell’ambito della mixology contemporanea tra il gin, peraltro di produzione modenese, il Ghirlangina, il vino e la pasticceria.

Cinque laboratori sono organizzati in collaborazione con Modena con Gusto e a guidare i partecipanti durante la degustazione dei vini selezionati saranno i sommelier Alessandra Caroni e Alessandro Ticci. La partecipazione a due Laboratori del Gusto, fino ad esaurimento posti, è compresa nel biglietto d’ingresso: 20 euro in prevendita sul sito www.terredivite.it fino al 25 ottobre, 25 euro durante i giorni della manifestazione con acquisto diretto al botteghino.

A loro si aggiungono due speciali seminari con degustazione tenuti da Sandro Sangiorgi, giornalista esperto di cultura del cibo e di vino, fondatore della rivista indipendente Porthos, convinto sostenitore dell’idea che parte integrante della cultura del vino siano la sua storia e la custodia del territorio e del benessere. Sabato 26, alle 13, il noto divulgatore condurrà una degustazione di sei vini diversi nell’ambito dell’incontro “La piccola poesia: il vino e la delicatezza impalpabile che può lasciare un ricordo indelebile.” Domenica 27, alla stessa ora, Sangiorgi si soffermerà, invece, su “Vino e mediterraneo: la generosità e il vigore, la partecipazione e il sapore” dando anche in questo caso l’opportunità di apprezzare sei vini differenti serviti a bottiglie coperte. In questo caso la partecipazione, previa prenotazione via mail info@terredivite.it, ha un costo di 50 euro e comprende anche il biglietto d’ingresso.

Alla riuscita della manifestazione contribuiranno anche le scuole alberghiere Nazareno di Carpi e I.A.L. di Serramazzoni. Diversi studenti che frequentano i due istituti saranno impegnati a garantire un servizio accurato, mettendo in atto quanto stanno imparando nell’arte dell’accoglienza.

Per info: www.terredivite.it, mail info@terredivite.it, cellulare 338 5474185

InvecchiatIGP: Angiolino Maule - Garganega IGT Veneto "Sassaia" 2017


di Luciano Pignataro

Vulcanico è il suolo, vulcanico è Angiolino Maule, personaggio mitico della viticultura italiana, fondatore di Vinnatur. Siamo andati a trovarlo questa estate, era luglio, a la Biancara, nata nel 1988 a Gambellara in provincia di Vincenza, quando lui e la moglie Biancamaria decisero di comprare sei ettari e costruire la cantina. Come sempre accade quando visiti aziende familiari interamente dedite alla viticultura, sei di fronte ad un personaggio che ha tanto da raccontare, si parla più che degustare il vino. La sua filosofia è molto semplice: niente chimica in vigna e in cantina, la buona frutta nasce dalla composizione del suolo e dalla sua tutela anche nel modo di lavorarlo, evitando di essere invasivi anche con i trattori, falciando poco e rispettando tutti i micro organismi che aiutano la pianta, per esempio nei periodi di siccità e di caldo eccessivo come quest’anno.


Oggi l’azienda ha 18 ettari complessivi (15 di proprietà, 3 in fitto) coltivati essenzialmente a Garganega e a Tai Rosso (a Sossano nei Colli Berici).
Per Maule la pianta ha tutte le risposte necessarie ai problemi che possono nascere nel corso di una annata fino alla vendemmia, comprese le difficoltà che derivano dal cambiamento climatico. Non a caso ha caso lui e Biancamaria hanno puntato sulle uve che stanno in questo territorio da almeno un millennio. La biodiversità è la ricchezza, dice, ed è una grossa opportunità commerciale nel mondo del vino ormai troppo omologato e uguale a se stesso.

Angiolino Maule

Sassaia, da uve garganega con un saldo di trebbiano, è stata la prima etichetta della coppia. E noi lo beviamo a pranzo sulle pizze di Simone Padoan, fratello di Biancamaria, un grande pizzaiolo che nel piccolo paesino veronese San Bonifacio ha rivoluzionato il concetto di pizza italiana creando uno stile un po’, come abbiamo avuto modo di scrivere in altra sede, come Marchesi ha inciso sulla nostra cucina. Una magnum del 2017.


Il bianco di Angiolino si avvia con una fermentazione di lieviti indigeni in botti di rovere. Non viene né filtrato e né chiarificato. E’ tenuto però lontano dalle macerazioni esasperate oggi tanto di modo e il risultato è di una gustosa eleganza coinvolgente e allegra. Le prime sensazioni olfattive a distanza di sette anni ci parlano di polpa di frutta bianca ben evoluta, sbuffo fumé, nota balsamica, in parte anche agrume (tra cedro e arancia, non so distinguere. Meglio, varia. Si, come tutti i grandi vini una volta aperto è cangiante. 


Lo proviamo nella giusta temperatura, ossia non freddo ma fresco di cantina tra una meraviglia di Simone e l’altra e ne godiamo tantissimo. Al palato in fatti si ritrovano con assoluta coerenza le sensazioni che ho tentato di descrivere, il sorso è polposo, corretto da una magnifica sapidità e da una assoluta verve acida che gli da un tono quasi giovanile. Mai alla cieca avrei detto che si tratta di un bianco di sette anni.
Un vino di equilibrio, senza eccessi, assolutamente bevibile. Favoloso. Rientra fra le bevute che si ricordano, merito del vino, della compagnia e delle pizze di Simone: anche la degustazione deve avere il suo giusto ecosistema!

Santa Barbara - Castelli di Jesi Classico Riserva "Tardivo ma non tardo" 2019


di Luciano Pignataro

Il Verdicchio di Stefano Antonucci mi appassiona sempre. Tardivo ma non Tardo, col disegno di Catia Uliassi in etichetta è fresco, coinvolgente, autorevole sul cibo e confortante al palato. 


Il 2019 era un bambino, non abbiamo avuto pazienza di aspettare: troppo buono, ed è andata anche la seconda bottiglia sulla frittura di mare.

Luigi Tecce e i vini culturali


di Luciano Pignataro

I personaggi che legano la propria esistenza alla produzione di vino sono sempre particolari, coinvolgenti, a volte forse spiazzanti. Almeno quelli della prima ondata post metanolo. Luigi Tecce è sicuramente un produttore di carattere, con le idee ben chiare, andare a trovarlo ti consente anche di far un aggiornamento e capire in che direzione va chi ha qualcosa da dire nel mondo del vino. Ecco perché con lui ci prendiamo sempre tempo, meglio il primo pomeriggio, e iniziamo a rilassarci sin dalle curve che salgono a Paternopoli che insieme a Castelfranci costituisce la parte più alta dell’areale della DOCG Taurasi. Che adesso per noi diventa un riferimento puramente geografico visto che il Nostro ha deciso di mandare a quel paese il disciplinare e di uscire con i propri vini senza marchio europeo. “Vedi, l’ultima bottiglia che a breve va in commercio, Io Vino? Mai avrei potuto mettere questo termine ed associarlo a me, alle mie idee. Uscire dalle regole me lo consente ed ecco a voi Io Vino”. Un grande aglianico che costerà, in uscita dalla cantina, sui cento euro per poco più di 2500 bottiglie.


Luigi è sostanzialmente una persona libera che ama raccontare la resilienza contadina alle banalità del mondo moderno. La metafora anarcoide degli irpini di montagna, avulsi dall’algoritmo come i loro nonni hanno sempre fatto a meno dell’orologio. I sei ettari di vigneto da cui escono circa 22mila bottiglie sono posizionati sul versante di una collina battuta di continuo da venti freschi, le uve vengono comunque selezionate con grande attenzione: ogni grappolo arrivato in cantina deve essere perfetto. Infatti i tempi di vendemmia sono piuttosto lunghi ed un sapiente uso dei legni, carato, barrique e tonneaux, danno il tocco finale: ogni annata stabilisce il giusto impiego delle varie botti le cui tostature sono sempre ben digerite dal corpo del vino e mai dominanti. Il risultato di tanta attenzione si materializza sempre in un vino straordinario. Luigi racconta che nei giorni precedenti la vendemmia assaggia di continuo i vinaccioli e solo quando sono maturi e quindi hanno perso l’asprezza ostinata, si decide a vendemmiare. Senza ombra di dubbio anche il territorio fa la sua giusta parte, siamo nella zona tra i 500 ed i 600 metri, con una esposizione a sud che consente una buona maturazione dell’uva in una zona dove il freddo è stato sempre piuttosto pungente. 


Luigi Tecce ha senza dubbio il dono di saper assecondare e valorizzare al massimo l’esuberanza a tratti spigolosa ed a tratti avvolgente dell’aglianico. Gli è bastato seguire l’insegnamento dei nonni a loro volta viticoltori, i quali, seguendo semplici principi dettati dalla lunga esperienza tramandata di generazione in generazione, puntavano principalmente ad ottenere un’uva sana ed a raggiungere la giusta maturazione. l segreto di questi vini, non è retorica scriverlo, è proprio nel rapporto maniacale con la frutta che è poi il filo conduttore di tutte le annate, con diverse sfumature ma certo.


Come spesso diciamo, non saranno i vini migliori del mondo, ma sono unici. E l’unicità, oltre al tempo, sono i due valori più importanti nella epoca della velocità e della omologazione. Un piccolo artigiano questo deve fare, non rincorrere perché la modernità in questo caso è andare lento pede. Si potrebbe pensare che siamo di fronte a un leader dei vini naturali….niente affatto!
La retorica commerciale su questo tema lo vede insofferente quanto le certezze della viticoltura convenzionale. Ecco perché nella sua cantina ha usato una vite centenaria prefillosssera alla quale ha appeso le sue bottiglie, quasi una composizione artistica che lui chiama ironicamente “l’albero del vino naturale”.
Il vino è la sintesi dell’uomo e della natura, il primo deve capire la seconda e assecondarla, ma anche intervenire quando è necessario. “Lo sapevano bene i nostri nonni che hanno sempre sudato vicino alla vigna”. “Il vino – aggiunge – è un progetto, non conta quello che sta nel bicchiere, ma il paesaggio in cui è compreso anche l’uomo, non solo la natura”. Insomma, una sorta di terza via nello scontro fra vini naturali e convenzionali o meglio, una visione pasoliniana della viticoltura che si aggancia alle al modo di vedere che Mario Soldati ci ha lasciato nei suoi documentari del 1957 e nel mitico “Vino al Vino”: è il momento del “vino culturale


Il vino come occasione di incontro, di essere comunità, essere conviviali. Dunque le bottiglie le proviamo fra formaggi. Salsicce, soppressate, uova sode, pane con burro e alici: una merenda pomeridiana, anche se Luigi Tecce è un ottimo cuciniere e ama ricevere e le persone in questo modo. Inizia così, fra le chiacchiere che in qualche modo vi ho anticipato e un boccone di pecorino di Bagnoli Irpino, una bella cavalcata della sua attività di viticoltore, iniziata con la vendemmia 2003 che, se ricordata, fu la prima veramente calda da quando è la moderna viticoltura italiana.

Mamam 2020

Partiamo con il bianco, un blend di fiano, greco e coda di volpe. La capacità di trasmettere la sensazione di frutta al palato è incredibile, viene voglia di masticare non perché il sorso sia denso, ma proprio perché ha la percezione di aver e frutta in bocca. Fresco, dai toni finali amari, bevibile, meraviglioso.

Calipso 2022

Cerco ancora un produttore italiano che abbia la capacità di farmi provare l’emozione dei rosati di Lopez de Heredia e stavolta con questo ci siamo andati molto vicino. Rispetto agli spagnoli citata manca un po’ di finezza, ma ha la complessità, la freschezza, il sorso lungo che avvolge e fa sognare.

Io Vino 2021

Coniamo un termine più complesso per questa etichetta, il «vino culturale», come espressione completa della sinergia fra natura e uomo. Aglianico straordinario, assolutamente bevibile, ricco di energia, lavorato fra legni grandi e piccoli e con una parte in acciaio, sicuramente ricco ma al tempo stesso agile e scattante, più a la page rispetto alle tendenze moderne. Un vino da stappare anche subito se si vuole godere del frutto, da conservare chi ama pazientare in attesa delle evoluzioni che inevitabilmente ci saranno.

Diavolo Pazzo

Questa edizione in meno di 700 bottiglie vede la collaborazione di Gianluca Cestone di un vino dedicato alla convivialità, in cui l’aglianico monumentale di Paternopoli incontra la Volpe Rossa, uva dai contorni non ancora studiati con decisione ma che contribuisce a rendere, grazie ai tannini delicati simili a quelli del Piedirosso, l’Aglianico più delicato e bevibile. Quello che però mi piace di questo rosso è che la semplicità non vuol dire banalità, anzi, il naso è complesso e affascinante, il sorso comunque pieno e lungo.

Poliphemo 2016 Taurasi docg

Andiamo allora all’ultimo suo Taurasi ufficiale, quello con la fascetta. Le 1250 bottiglie sono uscite centellinate dalla cantina, l’annata pine e solare esplode in tutta la sua potenza. Mi viene in mente un paragone che ho fatto spesso con i rossi di Luigi, che ricordano al tempo stesso la potenza e l’agilità di Cassius Clay. Note di camino. Immortale.

Purosangue 2014 Taurasi Riserva docg

Interrompiamo il sequel dei Poliphemo con l’intrusione di quello è da più parti è stato considerato il vino più buono ed emozionante mai fatto da Luigi Tecce. Figlio di una annata considerata minore, questa circostanza ha incrociato bene la sensibilità manuale sulla frutta che il nostro viticultore ha letteralmente nel sangue e l’uva è arrivata semplicemente perfetta. Il vino ha sostato un anno in più del necessario e si presenta al naso ancora con frutta croccante, note ematiche, di sottobosco, funghi, fumé, cenere, scorza di arancio. Al palato a dieci anni dalla vendemmia è agile e scattante. Imperdibile.

Poliphemo 2011 Taurasi DOCG

Scendiamo verso un’altra annata calda, che nelle zone fredde come l’Irpinia ha dato non poche soddisfazioni. Ogni annata ha la sua storia, ed eccoci allora con 6500 bottiglie, un rosso in splendida forma, esuberante, composto, capace di fondere benissimo il frutto e il legno, sempre usato in maniera magistrale, come le pinne per un nuotatore. Magico

Poliphemo. 2010 Taurasi DOCG

Scaliamo di un anno e la differenza di annata di sente, siamo all’opposto del precedente, le bottiglie prodotte sono 4800 più cento magnum. Il sorso è più veloce, molto fresco, la frutta si fonde a sentori di tabacco, spezie, humus, ha davvero ancora tanto da spendere nei prossimi anni.

Poliphemo 2006 Taurasi DOCG

Tecce si ricorda perfettamente dei miei gusti, sa bene che quest’annata generò enorme entusiasmo da parte mia e devo dire, modestia a parte, che non mi sbagliavo. A distanza di anni questo capolavoro si mantiene intatto, sfida il tempo come un dolmen in una posizione di assoluto equilibro fra legno e frutto, alcool e tannini, il tutto sostenuto da una straordinaria energia e una conclusione praticamente infinita.

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Ci alziamo, sono trascorse quattro ore e il buio silente inizia ad avvolgere le operose colline di questa Irpinia affascinante, laboriosa, discreta. L’ultimo sorso è una bottiglia di Poliphemo 2003, di quelle rimaste in cantina senza etichetta, la sua prima vendemmia commercializzata. Inutile dire in perfetta forma. Sono questi incontri di verità che mi appagano e che mi evitano la noia. 

Vini unici firmati da un personaggio unico.

Champagne Experience: la VII edizione si svolgerà a Modena il 20 e 21 ottobre


Mancano ormai pochi giorni all’apertura della VII° edizione di Champagne Experience, manifestazione di riferimento in Italia dedicata allo champagne e che si svolgerà negli spazi di ModenaFiere domenica 20 e lunedì 21 ottobre 2024. L’evento è organizzato da Excellence - Società Italiana Distributori e Importatori Srl, realtà che riunisce ventuno tra i maggiori importatori e distributori italiani di vini e distillati d’eccellenza.


Anche questa edizione offrirà agli operatori professionali e agli appassionati un’occasione unica per approfondire la conoscenza del mondo dello champagne grazie alla presenza di più di 900 etichette in degustazione in rappresentanza di 167 realtà suddivise tra storiche Maison e piccoli vigneron.

La suddivisione espositiva dei vini, in base alla loro appartenenza geografica, corrispondente alle diverse zone di produzione della Champagne – Montagne de Reims, Vallée de la Marne, Côte des Blancs, Côte des Bar – oltre alle “maison classiche” riunite in una specifica area, è confermata anche quest’anno all’interno dei cinquemila metri quadrati dei Padiglioni di ModenaFiere.

“La macchina organizzativa di Champagne Experience è pronta per accogliere tutti i professionisti, gli operatori e gli amanti dello champagne che si sono già accreditati” afferma Luca Cuzziol, presidente della Società Italiana Distributori e Importatori. “Sono ormai quasi esauriti anche i posti a disposizione per le master class che, come ogni anno, rappresentano un fiore all’occhiello della manifestazione e consentono di approfondire temi specifici grazie alla presenza di ospiti esclusivi e relatori di grande professionalità”.

Saranno 6 le master class, suddivise nei due giorni di manifestazione. Si parte domenica 20 ottobre, alle 12.30 con la master class dal titolo “DA CHOUILLY A MESNIL-SUR-OGER”, condotta da uno dei giornalisti e divulgatori più esperti di champagne in Italia come Alberto Lupetti: non sarà un generico confronto sui Blanc de Blancs, ma un vero e proprio viaggio sensoriale che permetterà ai partecipanti di comprendere le piccole, ma decisive differenze, di due terroir molti vicini tra loro.

Allo stesso orario il sommelier Luca Boccoli condurrà il coinvolgente incontro “IL BUIO OLTRE IL PERLAGE”, una master class dove i partecipanti assaggeranno 6 cuvée bendati, guidati da un grande degustatore non vedente.

Champagne Experience non può non avere un relatore d’oltralpe e quest’anno sarà presente Geoffrey Orban, direttore di Educavin, consulente e formatore che da oltre 20 anni si impegna e lavora per la divulgazione e la conoscenza della Champagne: unisce studi parcellari a degustazioni geo sensoriali dei terreni, per far comprendere le interazioni tra suolo, vite e frutto. Saranno due gli incontri che lo vedranno protagonista e conduttore, sempre domenica 20 ottobre: il primo, dal titolo: “AUBE, RICEYS E MONTGUEUX” alle ore 14.00, il secondo, “QUALITÀ TRA PICCOLE E GRANDI MAISON” alle 15.30.

Lunedì 21 ottobre altre due master class vedranno come relatore sempre Alberto Lupetti: si parte alle 12.30 con “DA BOUZY AD AY” e si conclude alle 15.30 con “COTEAUX CHAMPENOIS”. Quest’anno si rinnova la collaborazione tra Modena Champagne Experience e Champagne de Vignerons, associazione creata nel 2001 dal Syndicat Général des Vignerons de la Champagne con l’obiettivo di diffondere il lavoro svolto dai piccoli vignerons.

Il calendario degli appuntamenti, infine, contiene una serie di Sponsor Class, organizzate dai partner di Champagne Experience, dedicate non solo allo champagne, ma anche a prodotti d’eccellenza del territorio emiliano. A questo proposito anche quest’anno saranno presenti come partner della manifestazione il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano e il Consorzio Tutela Lambrusco.

Tutti i servizi di ristorazione durante la manifestazione saranno curati dal Consorzio Modena a Tavola, mentre quello dei vini, da ONAV (Organizzazione Nazionale degli Assaggiatori di Vino), storico partner di Champagne Experience.

Champagne Experience si svolge con il patrocinio del Comune di Modena e il sostegno della Camera di Commercio di Modena: il loro contributo e la loro presenza al fianco della manifestazione sono fondamentali per l’organizzazione di questa importante manifestazione.

Tutte le informazioni sulla manifestazione e sulle master class sul sito di Modena Champagne Experience: www.champagneexperience.it

InvecchiatIGP: Querciabella - Chianti Classico 1994


di Carlo Macchi

Le annate dal 1991 al 1995 in Chianti Classico (e non solo) sono state veramente difficili. A parte la catastrofica 1992, dove le uve dovevano avere maschera e pinne per arrivare in cantina, le altre annate sono state fredde e più o meno abbastanza piovose. Non per niente definisco questo periodo “la piccola glaciazione chiantigiana”. I vini di quelle annate sul momento erano nella migliore delle ipotesi scorbutici, con acidità pronunciate e tannini rustici, non certo facile da bere. Però negli ultimi 5-6 anni mi è capitato di assaggiare diverse bottiglie di quelle annate e sono sempre rimasto positivamente sorpreso dalla longevità e dall’eleganza di quei vini, dotati di pH più bassi e acidità più alte rispetto ad oggi. Se ci pensate bene in 20 anni si è rovesciato il clima e questo ci dovrebbe far capire quanto sia difficile fare il vignaiolo.


L’annata 1994 non è stata certo la peggiore del quinquennio ma nemmeno la migliore, parlando con qualche produttore mi hanno confermato che fare dei buoni vini era “quasi un miracolo”, ma il Chianti Classico 1994 di Querciabella, assaggiato a Greve in Chianti durante una degustazione di vecchie annate, è la dimostrazione lampante che i miracoli esistono!


Vorrei sottolineare che si parla di Chianti Classico annata, di vino fatto per essere bevuto da giovane, non certo per invecchiare 20 anni. Qui si innesta una mia certezza, che per valutare un’azienda chiantigiana (ma non solo) bisogna prendere in considerazione il vino base, quello più prodotto, e non i “figliol prodigo” a cui si prestano mille attenzioni e mille riguardi. L’uvaggio dichiarato è sangiovese al 95% con un 5% di cabernet sauvignon e merlot.


Il colore è sempre rubino e il naso, permettetemi la licenza poetica, è semplicemente il primo passo sulla scala che porta in paradiso: note balsamiche, di menta, di macchia mediterranea a cui si fondono sentori fruttati. Il legno, se una volta si sentiva, oggi è solo un remoto e piacevole ricordo. In bocca la freschezza che si immagina nel naso si conferma subito, accompagnata da una sensazione setosa data da tannini morbidi ma ancora ben presenti. L’equilibrio, assieme ad un elegante pienezza è tangibile e tutto questo non sparisce in un attimo ma ha una lunghezza notevole e una chiusura magistrale.
Un vino che oltre ad essere buonissimo, rappresenta perfettamente quel periodo di storia chiantigiana e devo dire grazie a Querciabella per avermi (anzi averci) permesso di “toccarla con bocca”.

Poderi Boscarelli - Toscana IGT "Il Bianco" 2022


di Carlo Macchi

Poderi Boscarelli è famoso per i rossi ma questo bianco, specie se bevuto non freddo, è “tanta, ma tanta roba!”. 


Viognier, petit manseng con spiccioli di vermentino (le uve arrivano dalla Maremma e da Cortona) vinificati in acciaio per un vino profumato, rotondo, equilibrato, piacevolissimo.

Facciamo bianchi sempre più buoni a scapito dei grandi bianchi?


di Carlo Macchi

Quando, per la nostra guida vini, abbiamo fatto il conto dei vini degustati e dei Vini Top ci siamo accorti subito che c’era qualcosa che non andava, nel senso che, rispetto all’anno scorso, ci siamo trovati con ben 26 Vini Top in meno, non certo giustificati dai circa 150 vini degustati in meno rispetto all’anno precedente. Anche rispetto al 2021 ci siamo ritrovati con 20 Vini Top in meno. A questo punto ci è venuta l’idea di controllare come, negli anni, sia andata la media punti per ogni tipologia di vini bianchi degustati e ci siamo accorti che la stragrande maggioranza della denominazione da noi degustate, da nord a sud, aveva una media punti sempre più alta a mano a mano che dal 2006 (primo anno della guida) si arriva ad oggi.


In definitiva, prendendo in considerazione gli ultimi 5-6 anni della nostra guida, siamo di fronte a due situazioni che potremmo sintetizzare così: da una parte, anno dopo anno cresce la qualità media dei vini bianchi italiani ma contemporaneamente diminuiscono i vini di altissimo profilo. Se da una parte c’è sicuramente da essere contenti dall’altra crediamo occorra una seria riflessione. Prima di farla vogliamo inimicarci la maggioranza dei colleghi mettendo in discussione l’aumento annuale, spesso spropositato, dei premi distribuiti a destra e a manca. Questa ubriacatura di onorificenze, più o meno vere, mette delle dorate fette di prosciutto sugli occhi del sistema vino italiano, sugli appassionati, sul mercato, comunque sempre più increduli di fronte a questa “premiazione continua”.
Veniamo al dunque: i bianchi italiani sono mediamente più buoni ogni anno che passa e questo è un dato di fatto: i miglioramenti in vigna e in cantina sono stati continui e hanno portato a ottimi risultati, che si ripercuotono sul mercato e sull’aumento del gradimento e delle vendite di questa tipologia.


Sono sempre più buoni ma si assomigliano sempre più. La domanda è perché? Sicuramente gli sviluppi dell’enologia hanno aiutato e stanno aiutando a uscire dalle montagne russe di annate non solo molto più calde ma molto diverse tra loro, però alla fine si arriva solo a buoni bianchi che in più si assomigliano troppo spesso anche tra denominazioni diverse. Forse anche perché si vendemmia sempre più in situazioni dove la maturità delle uve non è il primo punto all’ordine del giorno; meglio stare attenti all’acidità, alla conservazione di determinate caratteristiche aromatiche che, grazie a lieviti e nutrimenti di lieviti si assomigliano al momento che vedranno la luce in cantina.
Scrivendo queste righe ci è venuto in mente il grido di dolore che lancia Yves Confuron (nel bel libro intervista di Camillo Favaro) dall’alto della Borgogna, parlando di standardizzazione che elimina il concetto di annata, ma soprattutto colpisce l’ammissione che con queste stagioni si possono fare dei buoni vini per il mercato ma non dei grandi vini, dei vini da vitigno ma non di territorio.

Yves Confuron

Anche in Italia il clima nelle ultime annate non ha certo aiutato e questo può essere forse il motivo principale di questa situazione: pur lavorando bene si può arrivare solo fino ad un certo (buon) punto, ma è difficile andare oltre. Inoltre (ops!) con il positivo andamento del mercato dei bianchi è forse logico puntare ad un buon risultato e a vini con precise aromaticità, freschezza e nerbo, ma ciò sembra inficiare la strada al grande bianco, sempre più difficile da trovare. Forse tante vigne sono state piantate o ripiantate da poco e anche questo può concorrere a creare un quadro molto buono per buoni/ottimi vini, ma ancora non adatto per il grande bianco, quello che va oltre i pur ottimi standard, quello che quando metti il bicchiere sotto il naso o lo assaggi ti fa sobbalzare e dire, come i bambini della canzonetta, ohhhhh.


Per favore non venite fuori con il solito ritornello che i grandi vini sono quelli rossi! I bianchi italiani hanno grandezza da vendere e vorremmo capire perché, partendo da una base sempre migliore, sempre meno vini bianchi si trasformano da bruco (pur bello) in farfalla. Se volessimo fare un paragone musicale potremmo definire tanti bianchi italiani “Belli senz’anima”.


Forse siamo soltanto noi di Winesurf in questa situazione e qui chiediamo consiglio ai colleghi assaggiatori delle altre guide, o forse ci siamo “adeguati al meglio” nel senso che l’assaggio di migliaia di vini ti porta ad essere un po’ meno attento ai particolari. Sinceramente non crediamo sia così ma lasciamo la porta aperta per il confronto.

Lux Wine, l'enoteca con degustazioni che mancava a Roma Nord


Mattia Favazza guida l’enoteca Lux Wine, progetto che unisce la vendita (in sede e online) e le degustazioni di etichette ricercate, da scoprire ogni giorno, con un ricco calendario di eventi e workshop. Il vino può essere un insegnante migliore dell’inchiostro, afferma l’attore comico e scrittore britannico Stephen Fry. E a ben vedere è un po’ la filosofia che sottende a Lux Wine, enoteca di Roma nord che non si limita a essere un luogo dove assaggiare e acquistare un gran numero di referenze, ma è uno spazio in cui si studia e approfondisce la cultura sul frutto della vite. Lo sa bene Mattia Favazza, mente del progetto, che nell’ultimo decennio ha costruito la sua formazione attraverso importanti tappe. Diventa velocemente un Bibenda Wine Master e dirige vari store a Roma della catena Signorvino.


Ho capito da subito che il vino non è solo ciò che bevi, è cultura, territorio, scoperta continua. E io, da grandissimo curioso, ho deciso di approfondire maggiormente, girare l’Italia e non solo, parlando con produttori, enologi e agronomi, scoprendo storie che oggi condivido con chi entra. Scegliere un’etichetta in enoteca diventa un viaggio che faccio insieme ai miei clienti.” 

Andrea Favazza

In questo percorso Mattia è affiancato dai suoi soci, Flavio e Alessandro Moretti, Diego Favazza, Daniele Ussia, tutti inseriti nella distribuzione di bevande da generazioni. La loro unione dà vita a Lux Wine, un progetto importante in cui si uniscono le passioni, le competenze e le professionalità di tutti loro.

Lux Wine, lo spazio polifunzionale

L’enoteca si trova all’interno del parco commerciale Pandora, in via Cassia. Il locale è una sala unica nel suo genere. Arredata da una bottigliera in legno di rovere lunga 14 metri, interamente illuminata e termocondizionata, ben progettata per mantenere le bottiglie alla giusta temperatura e inclinazione. Il vasto e attento lavoro di ricerca compiuto nei mesi precedenti l’apertura ha permesso di assortirla con le migliori denominazioni provenienti da tutta l’Italia e da svariate etichette internazionali, per un totale di 900 referenze. 


Nel salone spicca il grande tavolo sociale, che può accogliere fino a 35 persone. L’interno è arricchito da una splendida terrazza panoramica e da un parcheggio custodito. Lux Wine è anche eventi. La location è disponibile per cene aziendali di settore e anche per eventi privati, uno spazio da riservare in totale esclusività, nel quale poter esser guidati da un event planner, interna al team del locale.

Lux Wine, avvicinamento al vino: gli eventi di ottobre

“Non sono solo vini. Sono storie.” Il payoff di Lux Wine, caratterizza la ricca programmazione di degustazioni e masterclass. Nel mese di ottobre, il calendario si divide tra il corso di avvicinamento al vino, con cadenza settimanale e un cartellone eventi che si apre venerdì 4 con “Viaggio tra terra e mare nei Domini di Castellare di Castellina”, per continuare giovedì 10 con “La serata del Gin” e sabato 12 con “Alla scoperta di tre grandi vitigni: Nebbiolo - Aglianico - Nerello Mascalese”; si prosegue venerdì 18 con “L’eleganza del Pinot Nero” e infine martedì 22 si chiude con “St. Michael-Eppan”. Orgoglio di queste serate è la partnership con aziende esclusive. “Ci piace l’idea di accompagnare i calici con food selezionato. Per questo ci affidiamo a nomi come quello di Andrea Roscioli, del famoso forno all’Esquilino o a Francesco Loreti, proprietario della Formaggeria Roma, in Piazza Epiro.” Altro fiore all’occhiello in questo mix di eccellenze, la presenza delle Bevande Limori, più volte premiate dal Gambero Rosso, che fanno da contorno alla grande famiglia Lux Wine.


Enoteca Lux Wine
Via cassia 340, Roma
Aperto dal lunedì al sabato (10-19)
Tel. +39 350 069 1854

InvecchiatIGP: Fontodi - Flaccianello della Pieve 1994


di Roberto Giuliani

Quando ho deciso di proporvi un rosso d’antan avevo sperato di avere in cantina ancora una bottiglia di quel meraviglioso Flaccianello della Pieve ’88 che mi rimase nel cuore quando lo assaggiai nel 2001 (chissà se avrebbe retto fino ad oggi…), ma purtroppo non ne avevo più. Il Flaccianello della Pieve nasce nel 1981 dal vigneto omonimo, per mano di Franco Bernabei, enologo che non ha certo bisogno di presentazioni, e Giovanni Manetti, direttore generale dell’azienda Fontodi, acquistata dal padre nel 1968, e oggi al terzo mandato come Presidente del Consorzio Vino Chianti Classico.
In realtà, fino all’ingresso di Giovanni, la famiglia Manetti era conosciuta per la lavorazione di cotto pregiato, proveniente dall’Impruneta, ma la sua indole era diversa: amante della natura, si è subito innamorato della vigna ed ha lavorato con grande impegno e volontà, arricchendo la sua esperienza sul campo, studiando e visitando le più importanti zone viticole del mondo.


Nella mia cantina, tra le vecchie annate ho ancora a disposizione un quartetto 94-97, visto che siamo nel 2024, sebbene sulla carta è l’annata più “debole”, ho scelto la ’94, trent’anni dalla vendemmia mi sembrano un bel test per un sangiovese in purezza come questo, dal carattere certamente forte e indomabile. 

Vediamo com’è andata…

Apro una parentesi sull’etichetta, decisamente malconcia (e la retro è anche peggio), frutto di una conservazione fatta il primo anno dopo l’acquisto, in una cantina sotterranea che aveva un’umidità quasi del 100%. Dal secondo anno ha riposato fino ad oggi nella cantina climatizzata che avevo acquistato.


Bene, ho estratto il tappo senza difficoltà, integro e dalla tenuta rassicurante. Verso il vino con delicatezza nel calice, tutto fila liscio, nessun deposito e colore granato-aranciato trasparente senza particelle in sospensione.
Lo lascio respirare qualche minuto, giusto per permettergli di aprirsi un po’, poi faccio la prima immersione olfattiva (in realtà è la seconda, in quanto avevo già sentito subito come stava, per tranquillizzarmi…) e noto con piacere che è un profumo ancora vivo, invitante, senza puzzette o sensazioni troppo evolute.


Ragazzi, cosa posso dire, a me questo bouquet piace di brutto, non voglio elencarvi tutti i sentori, ma in sintesi è evidente una componente terziaria (e ci mancherebbe!) ma molto fine, è un trionfo del sottobosco, ma dai toni freschi, tanto da sciorinare una preziosa arancia sanguinella, poi tante spezie, dalla cannella alla curcuma, passando per il tabacco da pipa e il cuoio lavorato.


In bocca è pura seta, il tannino è dolce e la trama fruttata riesce ad emergere vincendo sulla parte terziaria, più soffusa, quasi timida; ma quello che più mi impressiona è la vena acida, ancora vivissima, vibrante, un vero piacere per i sensi. Certo, l’annata mette in evidenza che non ha un corpo possente, ma chissenefrega! È buonissimo e ancora pimpante, non potrei chiedere di più da un sangiovese di trent’anni. Per me è pura poesia, e stasera me lo porto al ristorante e ne offro un calice allo chef, sicuro di fargli un bel regalo.

Marco Carpineti - Nero Buono Nzù 2020


di Roberto Giuliani

Andare insieme, questo significa nzù in dialetto corese, Marco Carpineti ha investito molto in questo progetto, nella versione in rosso il vino è ottenuto da Nero buono di Cori, maturato in anfore di argilla di artigiani locali. 


Profondo, pieno, succoso, intenso, affascinante, lunghissimo, un gran vino!

Burlotto - Barolo Monvigliero 2017: l’annata che aiuta


di Roberto Giuliani

No, non fraintendetemi, il mitico Monvigliero di Fabio Alessandria non è al meglio delle sue condizioni neanche in un’annata dall’estate rovente e prolungata come la 2017, ma è un fatto che se proprio non resistiamo e vogliamo aprirne una bottiglia, questa è l’unica annata possibile, a meno che non si vada fortemente indietro nel tempo. Detto questo, la vita è breve, fuggevole, la salute non è sempre la stessa, aspettare sempre il momento opportuno per stappare è un rischio che aumenta con il passare dell’età, e io non intendo correrlo, soprattutto con un cru che per me rappresenta uno dei più affascinanti di tutta la Langa, posizionato sulla collina su cui si erge il poetico Comune di Verduno.


Ma bando alle ciance.

Osservo quel timbro luminoso, granato trasparente con ricordi rubini, che sentenzia la presenza di un grande nebbiolo. Lo accosto al naso (che essendo piuttosto lungo non fatica a raggiungere una certa profondità nel calice Bourgogne della Zalto, ma questo è un dettaglio…) e mi immergo in quelle note che da sempre mi incantano: viola, liquirizia, oliva, arancia sanguinella, prugna, cardamomo, cannella, cenni di tabacco scuro, nuances di spezie officinali e quella sensazione di sottobosco che mi capita di sentire in presenza delle querce.

Fabio Alessandria

All’assaggio si fa notare la componente alcolica (che non arriva a 15 gradi) non tanto per l’effetto pseudocalorico, quanto per l’avvolgenza che fornisce a frutta e spezie, qui in bella evidenza, su una trama tannica quasi dolce; finale profondo e suggestivo che sussurra: “ho appena iniziato a stupirvi”. Che dire…