Soave Terroir: recensione del libro su un grande territorio del vino italiano

di Roberto Giuliani

Non ci sono dubbi, ci voleva proprio un volume come "Soave Terroir", frutto di un lavoro di ricerca molto approfondito durato parecchi anni, realizzato in occasione dei 50 anni del Consorzio Tutela Vini Soave e Recioto di Soave.


Il libro non si limita a descrivere le 33 unità geografiche aggiuntive, soggetto principale, avrebbe corso il rischio di diventare pesante e troppo "per addetti ai lavori". Invece, oltre a essere scritto in modo molto chiaro e comprensibile anche per i meno esperti, ti porta per mano sul territorio attraverso splendide immagini, frutto dello sguardo attento e sensibile di Aldo Lorenzoni, Chiara Mattiello, Ana Stanciu, Charley Fazio, Michele Lorenzoni e Giancarlo Comparotto, che sono riusciti a cogliere molto bene lo straordinario paesaggio che caratterizza il territorio del Soave. 
Come bene esprime Sandro Gini, straordinario produttore e presidente del consorzio "Il valore espresso intorno al concetto delle Unità Geografice Aggiuntive è superiore alla semplice identificazione di confini territoriali, ed è la conclusione di un percorso di studio delle singole particelle di vigna, con un'identità e un nome unico che molto spesso trova le sue radici nei secoli". 


Il Soave occupa un'area della provincia di Verona piuttosto ampia ed eterogenea, il lavoro sulle UGA mette a fuoco gli aspetti identificativi di un territorio che si divide in 4 tipologie distinte di suolo, che occupano il 38% della superficie vitata del Soave e riguardano solo le zone collinari. È in queste aree che risiedono le vigne storiche del Soave, che ha il privilegio di essere diventata la prima Doc del Veneto nel 1968 e la prima Docg nel 1998 (Recioto di Soave). 
Il comparto coinvolge quasi 3.000 aziende viticole a testimonianza di un enorme numero di piccole realtà. Come è accaduto in altre zone vinicole italiane, il lavoro è iniziato con la cosiddetta zonazione; nel 1995 è stata pubblicata la prima mappa del Soave Classico, vigneto per vigneto e cantina per cantina. Successivamente, su proposta dell'Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano, il Consorzio ha avviato il programma di caratterizzazione della produzione e zonazione viticola. Dapprima sono state evidenziate 14 sottozone sulla base dell'importanza storica e delle peculiarità dei diversi suoli collinari. 


Nel 2002 sono stati pubblicati i risultati della ricerca, che hanno messo in luce quanto sia importante la gestione del vigneto per dare origine a vini di maggiore qualità. Un ulteriore passo avanti è stato fatto con la pubblicazione di una nuova Carta dei Grandi Cru del Soave; la realizzazione, infine, del volume "Soave Terroir", dedicato alle 33 nuove unità geografiche aggiuntive, già riconosciute con i tre disciplinari Soave Doc, Soave Superiore Docg e Recioto di Soave Docg, conclude il prezioso lavoro di elaborazione e qualificazione che ha prodotto per ciascuna unità geografica i dati tecnici, gli elementi storici, etimologici e umani ad essa legati. È giusto ricordare che il 21 gennaio 2016 "Le colline vitate del Soave" sono state inserite nel registro nazionale dei paesaggi storico rurali e nel 2018 le "Vigne Tradizionali del Soave" sono entrate a far parte dei Patrimoni agricoli di rilevanza mondiale (GIAHS), che sono solo 62 in tutto il pianeta. 


Ma entriamo nel dettaglio di "Soave Terroir": la prima parte è dedicata i suoli, alla loro formazione e alle loro caratteristiche, non dobbiamo dimenticare che questo è un territorio principalmente di origine vulcanica, fattore che incide non poco sulle caratteristiche dei vini. Molto interessante e dettagliata la "Carta dei suoli del Soave", che distingue due tipologie principali: i suoli nelle pianure dei torrenti lessinei e i suoli dei rilievi collinari alpini. Si scende poi nel dettaglio delle colline vulcaniche: qui i suoli vengono distinti in base alle unità geografiche, raggruppate per caratteristiche condivise. 


A questo punto entriamo nel vino del volume, con la descrizione accurata delle 33 Unità Geografiche, corredate di una mappa dettagliata e con una sezione dedicata per ciascuna di esse. Per ogni unità sono previsti un testo descrittivo, una serie di piantine con la descrizione dei toponimi e le diverse caratteristiche geofisiche. Il capitolo successivo affronta il tema della biodiversità nel territorio, suddiviso in versanti, con illustrazioni e descrizioni delle piante che lo contraddistinguono zona per zona. Tutto questo lavoro non poteva non tenere conto anche di un opportuno esame dei vini alla ricerca degli elementi che sono stati evidenzianti nella ricerca. Infatti nel successivo capitolo "Unità Geografiche e profilo metabolomico", si entra nell'analisi di alcuni vini prodotti in 6 diverse unità geografiche, distinte per suolo calcareo (Broia, Monte di Colognola e Paradiso) e vulcanico (Duello, Foscarino e Carbonare). L'analisi metabolomica è in grado di individuare nei vini molecole note e non note, presenti anche in quantità infinitesimali, utilizzando un cromatografo che consente in modo scientifico di ottenere dati su polifenoli, precursori aromatici e aromi liberi.  I risultati sono stati ampiamente documentati e corredati di tabelle descrittive dei valori. 


Il vino è fatto con l'uva, non poteva quindi mancare un capitolo dedicato alle due varietà che caratterizzano il Soave, garganega e trebbiano di Soave. A corollario di un già ampio lavoro, una sezione dedicata alle caratteristiche delle ultime annate, dalla 2019 alla 2014, con un'appendice sull'andamento stagionale dalla 2013 alla 1998. L'ultima parte riporta per intero i disciplinari delle tre denominazioni di origine e l'elenco dei produttori del Soave con i loro riferimenti e indirizzi. A mio avviso si tratta di un libro indispensabile perché fornisce ai lettori una panoramica del territorio del Soave in tutti i suoi aspetti, corredato di dati, tabelle, splendide fotografie a colori, un viaggio completo in una delle zone vitivinicole più affascinanti, non solo da leggere, ma da consultare a ogni occasione.

Il Chianti Classico Gran Selezione di Mazzei e i suoi tre Cru da tre Comuni diversi. Potere del terroir!

Ci sono poche famiglie nel mondo che possono vantare un legame pluricentenario con il vino. Una dei queste è sicuramente la famiglia Mazzei visto che dai documenti in loro possesso risulta che Ser Lapo Mazzei, nel 1398, fu l’autore del primo documento conosciuto per l’uso della denominazione “Chianti” e nel 1435, quando sua nipote Madonna Smeralda Mazzei sposa Piero di Agnolo da Fonterutoli, la tenuta toscana diventa patrimonio di famiglia. 


Da allora, passando per 24 generazioni, i Mazzei producono vino al Castello di Fonterutoli che ho recentemente visitato anche per capire meglio il progetto 3 Cru, 3 Comuni, 3 Gran Selezione che ha visto luce a partire dalla vendemmia 2017. 

I Mazzei

Parlando con Francesco Mazzei, CEO della Marchesi Mazzei, il concetto da cui si parte è molto semplice: i vigneti di Castello di Fonterutoli, storicamente, si collocano nei territori di 3 Comuni confinanti del Chianti Classico: Castellina in Chianti, Castelnuovo Berardenga e Radda in Chianti che rappresentano per condizioni pedoclimatiche e geologiche tre terroir estremamente differenti tra di loro. Da qui l’idea di presentare al pubblico tre Chianti Classico Gran Selezione (sangiovese in purezza) che sono il risultato di ricerca in vigna e lavoro sartoriale in cantina, con l’intento di anticipare le menzioni geografiche aggiuntive che si spera prima o poi possano essere riconosciute visto che ciascuno di questi tre vini ha proprie sfumature e identità fornite dal terroir di provenienza.

Paesaggio di Fonterutoli

Prima di approfondire il discorso su tre Comuni da cui provengono i tre Gran Selezione mi piacerebbe analizzare quali sono le caratteristiche dell’annata 2017 a cui i vini che ho degustato fanno riferimento. Il millesimo, infatti, come ben sappiamo è stato caratterizzato da temperature medie piuttosto elevate fin dalla primavera e la vendemmia del sangiovese, fortunatamente, è stata salva in parte solo grazie alle piogge di settembre, seguite da un deciso calo termico, che hanno regalato mediamente uve di buona qualità anche se la rese sono state inferiori del 35% rispetto alla media. 


Insomma, come mi hanno spiegato alla Mazzei, il 2017 è una delle classiche annate nelle quali per raggiungere importanti risultati sono necessari una grande esperienza e un’attenta gestione del singolo vigneto, con un approccio tagliato su misura parcella per parcella. Veniamo alla degustazione dei tre Gran Selezione 2017.



Castello di Fonterutoli – Chianti Classico Gran Selezione 2017 (Castellina in Chianti): in questo Comune il microclima è il risultato di un perfetto bilanciamento tra una zona di alta collina e i vigneti rivolti verso la val d’Elsa che dona calore a tutta la zona sovrastante. Qui, si registrano forti escursioni termiche grazie alle correnti fresche notturne provenienti dai boschi attorno alle vigne. Un microclima ideale che, unito alle caratteristiche del suolo calcareo ricco di rocce di alberese, regala vino dalle caratteristiche gustative ricchi di spunti minerali. Il Chianti Classico Gran Selezione 2017 (100% sangiovese proveniente da ben 11 parcelle) proveniente dal terroir Castellina in Chianti conferma questo Comune come terroir che fa della eleganza e la complessità il suo segno distintivo. Naso profondamente territoriale che incanta con vive sensazioni di ciliegia nera, viola mammola, ribes, grafite a cui seguono tocchi di tabacco da pipa e spunti balsamici. Palato pieno, intenso, avvolgente, con una precisa eco minerale che accompagna il lungo finale.


CHIANTI CLASSICO GRAN SELEZIONE " VICOREGIO 36" 2017 (CASTELNUOVO BERARDENGA)
: nasce dall'omonimo vigneto dove sono stati piantati 36 biotipi di Sangiovese, 18 cloni 18 selezioni massali propietarie, frutto di 50 anni di ricerca e studio su questo vitigno. Il Vigneto si trova a Castelnuovo Berardenga, su un plateau molto ben illuminato durante tutta la giornata, ad un'altitudine di 350 m s.l.m, ed è caratterizzato da grandi escursioni termiche giorno/notte e da un terreno composto da alberese e argilla. Il risultato è un Chianti Classico Gran Selezione ancora giovane, quasi in stato embrionale, tutto giocato su irruenza fruttata e spunti di spezie dolci orientali. Al sorso, soffuso di calore alcolico, si caratterizza per serrata tannicità, stille minerali di buona persistenza e per un finale di polpa rossa decisamente goloso. Un vino che è una bomba ad orologeria che esploderà tra qualche anno. Da dimenticare in cantina per un lustro. 


CHIANTI CLASSICO GRAN SELEZIONE “BADIÒLA” 2017 (RADDA IN CHIANTI)
: questo vino che nasce a 570 m di altitudine, da vigneti che sono tra i più alti del Chianti Classico, con terreno composto da galestro e arenaria. Il comune di Radda in Chianti, dove sono ubicati i vigneti, beneficia di un clima nel complesso più fresco e soprattutto delle temperature diurne più basse di tutta l’azienda: germogliazione posticipata, maturazioni più tardive e vendemmie intorno alla metà di ottobre restituiscono da sempre un sangiovese teso e verticale. E questa 2017 non fa assolutamente eccezione regalando un Chianti Classico Gran Selezione estremamente rarefatto che sa di susina rossa, fiori, fragolina, erbe aromatiche e pepe bianco. Al palato è nervoso, sprizza terroir di Radda in Chianti da tutte le molecole, ha dinamismo, progressione sapida e una freschezza che avvolge il palato nel finale di beva che rinvoglia a riprendere il bicchiere il prima possibile. Un vino delizioso oggi e buonissimo domani!


Antonella Pacchiarotti – Lazio IGT Rosso “Cavarosso” 2018

di Andrea Petrini

La Tuscia è anche grande aleatico e questo vino sa rendere onore al territorio grazie ad una suadenza olfattiva, giocata su ricordi di rosa canina e amarena carnosa, che al gusto viene ben bilanciata da una sapidità sferzante tipica di questi suoli vulcanici. Bottiglia finita in un amen. 


Il Lazio che mi piace ha la tenacia dei vini di Antonella!

Joy Kull è La Villana di Gradoli!

di Andrea Petrini

Ci sono storie che partono da lontano, molto lontano, dove l’amore per il vino può diventare la scintilla decisiva per cambiare l’andamento di una realtà che non era così come la progettavamo o, meglio, la sognavamo.

Joy Kull

Joy Kull, originaria del Connecticut, a due passi dalla frenetica New York, può essere tranquillamente la protagonista di una di queste storie dove la trama ha imboccato strade talmente vorticose ed inaspettate da farle cambiare vita in pochissimo tempo “scaraventandola” dai grattaceli di Manhattan fino alle più bucoliche colline di Gradoli, nella zona nord-ovest del Lago di Bolsena, dove oltre a vecchie vigne di aleatico ha trovato un altro amore, forse più grande, quello per suo marito Simone, pastore locale, con il quale da qualche anno ha anche messo su famiglia. 


E’ proprio tra i vigneti della sua azienda agricola, La Villana, che incontro Joy Kull la quale, dopo anni di gavetta, è diventata in tutto e per tutto uno dei tasselli fondamentali della “nuovelle vague” del vino dell’Alta Tuscia laziale che ha preso il via circa 15 anni fa grazie a Giammarco Antonuzi che è stato un punto di riferimento fondamentale per avviare la sua attività.


“Dopo la laurea – mi spiega Joy mentre passeggiamo tra i grappoli di aleatico - ho subito iniziato a lavorare negli USA nel Food and Beverage Management svolgendo quasi tutti i lavori dedicati al vino, dal sommelier fino alla vendita on-line, ma nessuno di questi mi dava piena soddisfazione. Allora, quasi per sfida, mi sono detta: “Joy, perché non inizi a produrre vino?”. L’idea iniziale, ti confesso, era quella di venire in Italia, imparare il mestiere e poi ritornare negli USA, magari in Oregon, e avviare là la mia azienda agricola. Grazie ad un mio amico ristoratore di New York, amante dei vini naturali, sono stata messa in contatto con Antonuzi (Le Coste) al quale ho chiesto di fare un anno intensivo di stage al fine di imparare tutto il possibile. Era il 2013, me lo ricordo bene, sono bastate due settimane a Gradoli, che non conoscevo assolutamente, per innamorarmi visceralmente di questo territorio e dei suoi vini. Sono bastate due settimane di lavoro per capire che questo era il mio sogno e che non sarei più tornata negli Stati Uniti…”


Dopo un anno passato a lavorare presso Le Coste, Joy ha deciso di fare il passo successivo ovvero mettersi in proprio e capire se poteva concretizzare tutto ciò che aveva imparato. Per perseguire questo obiettivo, per capire se la strada intrapresa era quella gusta, inizia a prendere in affitto e gestire tre ettari di vecchi vigneti non più gestiti dagli anziani della zona e nel 2015, all’interno di una grotta, quasi clandestinamente, produce le sue prime 3000 bottiglie che, mi confida, verranno quasi tutte bevute l’anno dopo durante i festeggiamenti per il suo matrimonio.

Oggi, dopo quattro vendemmie, Joy Kull alleva secondo metodi biologici (certificata dal 2017) e biodinamici vigne, sia vecchie che di nuovo impianto, di aleatico, grechetto rosso, montepulciano, ciliegiolo, procanico, roscetto, malvasia e moscato e gli ettari vitati, grazie anche al contributo economico di una sua amica americana, sono passati da circa tre a cinque col progetto di costruire finalmente una nuova cantina più funzionale alle esigenze di una azienda agricola in fase di crescita come La Villana.


Joy, a proposito, perché questo nome, La Villana?”

Beh, quando sono arrivata a Gradoli molti anziani della zona mi raccontavano storie agricole locali al centro delle quali, spesso, c’erano i litigi e le contrapposizioni tra il villano, ovvero l’agricoltore, e il pastore che con le sue pecore rovinava i suoi raccolti. Da queste parti, perciò, sono considerata una vera e propria villana anche se molto atipica visto che ho sposato un pastore le cui pecore, strano il destino, sono invece mie care amiche visto che mi aiutano moltissimo nella concimazione delle mie vigne. Secondo me questi racconti contadini dovrebbero essere rivisti…...”


Con Joy decidiamo di scendere giù a Gradoli per degustare qualche bottiglia e per farmi visitare l’attuale cantina di vinificazione, circa 60 metri quadri, ospitata all’interno di un locale posto al piano terra di un vecchio palazzo nel centro del Paese.


Il Bianco La Villana 2019, blend di procanico e malvasia, è un po’ il simbolo dell’artigianalità del lavoro di Joy che dà vita ad un bianco deciso, essenziale, spiazzante per chi è abituato ai vini troppo tecnici ed industriali. Con questo Bianco si beve puro succo d’uva, sembra di masticare le uve da cui proviene e la territorialità è assolutamente debordante grazie alla sapidità finale di questo vino che ti fa ricordare che Gradoli è territorio vulcanico.


Il Rosato La Villana 2019, 100% aleatico, è succoso, dinamico, la sua leggera aromaticità lo rende poliedrico nei profumi e assolutamente complesso al palato caratterizzato da acidità vibrante che dona freschezza, carattere e, soprattutto, una beva irresistibile.


Il Rosso La Villana 2019, greghetto (sangiovese) in purezza, è pieno, polposo, nitidamente varietale. L’ho apprezzato per il suo essere vivo, tagliente, per certi versi rustico, ma al tempo stesso appagante grazie ad un sorso scorrevole grazie ad una trama tannica viva ma decisamente controllata. Vino assolutamente delizioso e senza sovrastrutture che rende bene l’idea del timbro che Joy vuole dare a tutti i suoi vini che, dietro un’apparenza di semplicità, sono di una purezza e di una territorialità disarmante.


In anteprima ho anche degustato sia il Bianco che il Rosso “Uovo” che Joy affina in cemento all’interno di un'altra cantina. Il bianco è il blend di due uova di cemento dove il procanico, proveniente sia da vigne giovani che vecchie, ha tempi diversi di macerazione (una settimana e quattro giorni). Il risultato? Un vino che ad oggi è assolutamente graffiante, denso, dalla sapidità esplosiva la cui complessità non potrà che essere esaltata col tempo in bottiglia.


Il Rosso Uovo 2019 invece sembra già avere quella maturità e quella eleganza che il bianco ancora deve ricercare. A mio giudizio già oggi è un vino di assoluta piacevolezza e finezza e, tra i tanti greghetto assaggiati in zona, per me è quello che, ad oggi, potenzialmente avrà il futuro più radioso.

Ceraudo - Val di Neto Bianco IGT “Grisara” 2017

di Lorenzo Colombo

Dalla riscoperta del Pecorello vitigno minore calabrese, allevato sulle Colline di Strongoli, Roberto Ceraudo ha ricavato questo vino dai netti sentori di fiori gialli e frutto tropicale. 


La sua elevata nota alcolica (14,5% vol.) è talmente ben integrata nell’insieme che non si percepisce, morbido e ben strutturato non perde comunque in equilibrio ed eleganza.

Berlucchi e la verticale del loro Franciacorta Riserva DOCG "Palazzo Lana Extrême".

di Lorenzo Colombo

La scorsa settimana si è tenuta a Milano la Milano Wine Week, evento organizzato da Federico Gordini che, come dice il nome, coinvolge l’intera città per un’intera settimana.  Il programma era fittissimo (vedi) e anche con la massima buona volontà non era possibile partecipare alla moltitudine d’eventi. Tra le diverse Masterclass tenutesi a Palazzo Bovara, alle quali abbiamo partecipato ci ha molto colpito quella organizzata dalla Berlucchi, intitolata “Berlucchi: le Riserve Raccontate” e condotta da Arturo Ziliani, enologo e amministratore delegato della Guido Berlucchi.

Arturo Ziliani

La Berlucchi è la più grande azienda vitivinicola della Franciacorta, basti pensare che dei 2.900 ettari che costituiscono il vigneto franciacortino, ben 550 vengono gestiti da quest’azienda, 110 di questi ettari sono in proprietà, mentre gli altri 440 appartengono ad una settantina di conferitori. Tutto questo si traduce in una produzione che supera i 4 milioni di bottiglie annue (poco meno di un quarto di tutta la produzione della denominazione), suddivise in diverse linee produttive.

Palazzo Lana - Berlucchi

Dal 2016 i vigneti in proprietà sono certificati BIO e si sta pian piano convincendo i vari conferitori ad adottare questa pratica agronomica. La degustazione ha riguardato il Franciacorta Riserva Extrême l’unico vino appartenente alla linea Palazzo Lana, la più prestigiosa dell’azienda, ottenuto da uve Pinot nero in purezza. Non sono molti i Franciacorta prodotti unicamente con Pinot nero, e questo neppure tra quelli Rosé, poiché questo vitigno occupa unicamente il 15% del vigneto franciacortino, a fronte dell’oltre 80% di Chardonnay.


Le uve per la produzione di questa Riserva provengono da due piccoli vigneti di proprietà rinnovati nel 1999, il vigneto Brolo, situato in fronte alla sede dell’azienda, allevato a Cordone speronato con alta densità d’impianto (10.000 ceppi/ettaro), con esposizione Nord ed il vigneto Quindicipiò, collocato in media collina, su suoli leggeri, ricchi di ciottoli, con esposizione Est-Ovest. La resa in mosto è bassissima (inferiore al 30%), sfruttando unicamente il mosto fiore ricavato dalla prima spremitura delle uve (anziché la suddivisione nei due classici tagli di spremitura, per questo vino se ne effettuano quattro). 


La fermentazione alcolica si svolge in vasche d’acciaio, dopo di che una piccola parte del vino viene trasferita in barriques usate dove s’affina per sei mesi. La fermentazione malolattica viene in ogni caso evitata, per mantenere tutta la freschezza del frutto. Dopo la preparazione della Cuvée, che avviene nella primavera successiva alla vendemmia, il vino viene posto in bottiglia per la rifermentazione e vi rimane per almeno nove anni prima della sboccatura. Prodotto per la prima volta nel 2004, il Palazzo Lana Extr
ême rappresenta il vino di punta dell’azienda. La produzione è assai limitata e non supera le 5.000-6.000 bottiglie/anno.

Cantina Storica Berlucchi

Tre le annate poste in degustazione: 2009, 2007 e 2005. Un piccolo appunto sulla luminosità dell’ambiente, che non permetteva di valutare correttamente il colore dei vini, ma in fin dei conti questo non è così importante.


2009:
 115 mesi d’affinamento in bottiglia, 3,5 gr/l il residuo zuccherino, sboccato da 9 mesi.
Il colore è paglierino di buona intensità. Intenso, fragrante, elegante e complesso al naso, si colgono sentori di nocciole tostate, frutta a polpa bianca, canditi, pasticceria. Decisa l’effervescenza al palato, il vino è molto fresco e decisamente sapido, quasi salino, bella la vena acida, che s’esprime su sentori d’agrume maturo, lunghissima la sua persistenza. Un grandissimo vino con davanti a sé una lunga vita.


2007
: 107 i mesi d’affinamento in bottiglia, 2,5 gr/l il residuo zuccherino, 40 i mesi trascorsi dalla sua sboccatura.
Color paglierino, leggermente più scarico del precedente. Intenso al naso dove si presenta con sentori di nocciole tostate, brioche, pasticceria, marzapane e con accenni floreali. Intensa e decisa l’effervescenza al palato, sapido, presenta leggeri accenni vegetali e chiude leggermente amarognolo. Seppur di indubbia qualità è quello dei tre che meno ci ha convinti, apparendo un poco sottotono rispetto agli altri due.


2005
: 112 i mesi d’affinamento in bottiglia e 58 quelli trascorsi dal suo dégorgement, 4 gr/l il residuo zuccherino.


Il colore è paglierino luminoso di buona intensità. Mediamente intenso rispetto agli altri due vini, più delicato, si colgono note di crema pasticcera e di fiori secchi. E’ però alla bocca che il vino ci ha maggiormente colpiti, soprattutto per la sua freschezza e verticalità, la sua vena acida è decisa, spiccata, quasi tagliente, gli agrumi sono freschissimi e citrini (pompelmo, lime), leggere le sue note vegetali e lunghissima la sua persistenza. Un grandissimo vino, che, ancora una volta demolisce il luogo comune che racconta che dopo la sboccatura inizia il decadimento dei vini spumanti.

A Bologna il manifesto Slow Wine per il vino buono, pulito e giusto!

L’11 ottobre alle 14,30 c’è un evento imperdibile per tutti i vignaioli e gli appassionati del vino artigianale. Si terrà, infatti alla Fiera di Bologna, durante le giornate del Sana il convegno di presentazione del Manifesto per il vino buono, pulito e giusto.

Di che si tratta?

Nel 2020 Slow Food ha deciso di coronare un lungo lavoro che iniziò nel 2007 con la prima edizione di Vigneron d’Europe a Montpellier, proseguita nel 2009 con l’edizione della stessa manifestazione in Toscana. A Firenze fu letto, nella Sala dei Cinquecento, di fronte a centinaia di produttori, il Manifesto dei Vigneron (clicca qui per saperne di più). Fu un momento toccante e carico di significato. Non per nulla da quelle due esperienze prese vita la Fivi. 
Ora, Slow Food ha deciso di rivisitare quello stupendo documento e di aggiornarlo creando il Manifesto Slow Food per il vino buono, pulito e giusto.

Un decalogo che fissa alcuni punti fermi sul mestiere del vignaiolo, sull’agronomia e sull’enologia, allargando il discorso anche ad altri ambiti quali la biodiversità, la tutela del paesaggio e il rapporto con chi lavora in vigna e cantina.

Si tratterà di un punto di partenza per la creazione di una grande comunità internazionale che unisca produttori e appassionati che si riconoscono nei 10 principi enunciati dalla Carta. Infatti, dall’11 di ottobre in poi, durante i sei mesi di Terra Madre verranno organizzati momenti di firma e di adesione al Manifesto per coinvolgere tutti i vigneron che vorranno far parte di questo progetto di valorizzazione del vino buono, pulito e giusto.

Ecco il programma del convegno:

Moderatore:

  • Fabio Giavedoni – curatore della guida Slow Wine

Relatori:

  • Maurizio Gily – agronomo, giornalista e direttore di Millevigne, il periodico dei viticoltori italiani
  • Saverio Petrilli – vignaiolo, enologo e consigliere della FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti)
  • Francesca Rapisarda – architetto del paesaggio
  • Paolo Fontana – presidente della World Biodiversity Association – onlus
  • Maria Grazia Mammuccini – vignaiola e presidente di FederBio
  • Giancarlo Gariglio – curatore della guida Slow Wine

Scrivi a slowine@slowfood.it per iscriverti alla presentazione e ricevere il codice omaggio che consentirà l’ingresso gratuito alla Fiera Sana.

Ricordiamo, per chi non potrà essere presente a Bologna, che sarà possibile seguire la presentazione in streaming sul sito terramadresalonedelgusto.com

Pomona - Chianti Classico 2017

di Stefano Tesi

Ecco un vino che, anche in un’annata calda e siccitosa, sa mantere il nerbo vibrante e spigliato della sua produttrice, Monica Raspi, vignaiola in quel di Castellina: un naso vivo e quasi croccante, una bocca corposa ma agile ed elegante, con un finale godibile e finissimo. 


Da bere con levità e attenzione

Il Pecorino dei Fratelli Farina è un grande formaggio delle Crete Senesi

di Stefano Tesi

Non c’è nulla di meglio, per esprimere un giudizio equanime, che approcciarsi a qualcosa verso cui non hai particolari aspettative né pregiudizi. Qualcosa che, in altre parole, ti aspetti “normale”. E’ in questo modo che giorni orsono mi sono avvicinato a un formaggio che avevo in dispensa da qualche settimana. Chi lo aveva assaggiato mi aveva detto che sì, era un ottimo formaggio, ma nulla di più però: un pecorino delle Crete Senesi arricchito con chicchi di pepe interi. 


Così, preso da un certo languorino, sono andato a frugare tra gli scaffali e ho trovato questa mezza forma. Formato massiccio, scalco alto, colore della buccia grigio-ambrato. Ottima premessa. Prendo il coltello e affetto.  Bellissima sezione compatta, di un giallo paglierino rotto qual e là dal nero dei grossi chicchi di pepe. Alveolatura ridotta e concentrata nella parte interna, buccia sottilissima.  Al tatto la fetta è dura, consistente, con un accenno di friabilità dettato dalla stagionatura che – ricostruisco – a questo punto dovrebbe essere di circa cinque mesi.  Subito si leva un profumo intenso e fragrante, penetrante, acuto, che racchiude l’aroma del pepe e quello delle erbe di campo, dei fiori secchi, di certi arbusti e del latte di pecora.

La sensazione olfattiva generale è quella di un prodotto che sta vivendo il massimo della sua evoluzione. Ingolosito, proseguo. Taglio tutto a losanghe e assaggio: la friabilità appena denunciata all’occhio e già più avvertibile al taglio si riconferma al morso, con l’elasticità del boccone resa più fragile e gentile dalla granulosità dell’incipiente scagliatura. In sostanza una tattilità perfetta. 


In bocca il sapore è pungente, netto e pulito, ma complesso e cangiante. E durante la masticazione si apre in un melange di piccantezze da pepe e da stagionatura, con ritorni retronasali a ondate di erbe, di pascolo e di campagna. Sentori che, con compiaciuta sorpresa, riconosco come familiari. 

E’ buonissimo, altro che storie! 

Un formaggio importante, quasi solenne ed eppure anche gastronomico, che invita al riassaggio e non satura certamente al primo boccone: si fa mangiare, ti chiama, soddisfa.  Io ci ho bevuto mezza bottiglia di Morellino di Scansano, con quel poco di ruvidezza perfetta per sposarsi col gusto scabro e verticale del formaggio. In sintesi: farne scorta, metterlo a maturare in cella frigo (o in cantina, alla faccia dell’Asl, se è una casa privata), curandolo ogni tanto con olio e cenere e ricordandosi che, portatolo in tavola, è difficile che duri.  Difficile spendere meglio 18 euro per un kg di formaggio 

Il problema casomai è procurarselo: lo fanno nel loro caseificio nel mezzo alle Crete, tra Asciano e San Giovanni d’Asso, in minuscole quantità, i fratelli Farina, sardi “intoscanati” di terza generazione, che lo vendono in un minuscolo food truck agricolo (ora va di moda chiamarli così, ma io la chiamerei miniroulotte) piazzato in mezzo all’aia-aia del podere di famiglia. 


Ed ecco, dalla viva voce di una delle titolari, la testimonianza di come il formaggio nasce, raccolta da un incuriosito giornalista-consumatore. 

ST: ma come nasce questo formaggio? 

Alessia Farina: semplicemente mettendoci i chicchi di pepe dentro. E’ un formaggio che ha un successo strapitoso anche senza pepe. Non perchè siamo bravi, ma perché è eccezionale la materia prima. 

ST: ma il formaggio come si chiama? 

Alessia Farina: semicotto, dal di lavorazione. E’ quella tradizionale di casa nostra. Un casaro specializzato ha ascoltato la spiegazione del mi’ babbo e l’ha adattato a una macchina ultramoderna. 

ST: e come funziona? 

Alessia Farina: si caglia il latte a 40 gradi e poi, mentre si taglia la cagliata molto fina, si riscalda tutto fino a 46. Fatto il formaggio, lo si mette a stagionare in cella. Mio nonno in Sardegna aveva anche le vacche e lo faceva misto. Diceva: “la cagliata va riscaldata fino a quando ci riesci a tenere le mani”. E’ stato ganzissimo scoprire sul display della macchina che le mani ci si tenevano esattamente fino a 46 gradi! Poi sulla paiola di rame formavano una specie di grosso cilindro che tagliavano secondo la misura delle fuscelle. Noi con la caldaia elettrica e il controllo dei parametri riusciamo a fare un buon prodotto con molta più facilità. Comunque il formaggio va strizzato molto e, se vogliamo dargli un po’ di piccantezza, lasciamo dentro un pochino di siero che, fermentando, forma dei piccolissimi buchi. Con la misurazione del ph sappiamo esattamente fino a quando dobbiamo stringere le forme, perché l’acidità è una buona indicazione di quanto siero sia rimasto all’interno. 


ST: quindi? 

Alessia Farina: si tiene una notte in frigo e poi in salamoia. Mio babbo dice: “la salamoia è pronta, cioè l’acqua ha la giusta quantità di sale, quando se ci butti un uovo galleggia”. Noi ovviamente usiamo un densimetro. Terminata la salamoia in base al peso delle forme, le asciughiamo e le ungiamo con extravergine e cenere di legna di quercia.

Podere Conca: a Bolgheri c'è una bella novità!

L’areale di Bolgheri è sicuramente una delle zone dove negli ultimi tempi si è investito moltissimo e la nascita di nuove realtà vitivinicole non è ormai una novità. Una delle ultime arrivate è sicuramente Podere Conca, azienda nata nel 2015 grazie alla determinazione di Silvia Cirri (primario del servizio di Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva dell’Istituto Clinico Sant’Ambrogio del Gruppo San Donato di Milano) che dopo aver frequentato i corsi AIS Milano, ha voluto investire nella sua passione per il vino andando ad affiancare alla produzione dell’olio Bio, che da anni viene prodotto a Podere Conca, la proprietà di famiglia, anche quella del vino. Nell’avventura viene affiancata anche dall’amico Livio Aloisi, esperto e appassionato di agricoltura biologica.

Silvia Cirri

Fin dall’inizio Silvia ha un’idea precisa della tipologia dei vini che vuole produrre: ha una passione per il ciliegiolo e, appoggiata nella sua scelta anche dall’enologa Laura Zuddas, decide di accostarlo a cabernet franc e cabernet sauvignon per il rosso Agapanto Bolgheri DOC: un blend a cui vengono riconosciuti carattere e originalità. Per il bianco, Elleboro, si preferisce al vermentino, tipico del territorio, l’uso di uve internazionali quali il viognier, lo chardonnay e il sauvignon blanc, da poco entrati di diritto nel disciplinare Bolgheri DOC.


Nei primi anni Podere Conca decide di selezionare per i suoi blend le uve di piccoli viticoltori della zona, attentamente seguiti nella produzione dall’agronomo Paolo Granchi, e di vinificare presso la cantina di un produttore Bolgherese.
  Questa scelta ha permesso di sperimentare i blend nell’attesa che i vigneti raggiungessero la piena produzione. Oggi l’agronoma Linda Franceschi, sorveglia con un attento e competente lavoro quotidiano i 5,8 ettari di proprietà suddivisi in due terreni: 0,2 ettari tra le file degli ulivi che crescono intorno al Podere dove si coltiva il cabernet franc che sarà riservato al nuovo vino previsto per il 2021 e 5,6 ettari in località Ferruggini Sant’Uberto a un paio di chilometri di distanza in direzione del mare. Inoltre dalla vendemmia 2020 le uve, di produzione aziendale saranno vinificate e affinate nella nuova cantina di proprietà che sorge sulla via provinciale che collega Donoratico a Castagneto Carducci. 



In cantina si è scelto di privilegiare gli investimenti per la tecnologia, i contenitori in acciaio e cemento, le barriques in rovere, e, non ultimo, per la sicurezza, piuttosto che investimenti rivolti più all’estetica e al design.



Sono passato a trovare Silvia Cirri tornando dalle mie vacanze estive in Liguria, la Via Aurelia passa proprio parallela all’azienda bolgherese e non mi sono fatto sfuggire l’occasione di conoscere la vulcanica proprietaria che una mattina di estate mi ha organizzato una bellissima doppia mini verticale dei suoi due vini: Elleboro ed Agrapanto nelle annate 2017 e 2018. 

Podere Conca - Elleboro 2019: grande vivacità aromatica per questo bianco bolgherese dove il tocco graffiante e fruttato del sauvignon blanc viene ben modulato dall’uso di viognier e chardonnay che donano complessità ed un tocco di eleganza ad un vino che, in loro assenza, scalcerebbe in maniera sovrabbondante. Al sorso è teso, vigoroso, mediterraneo e di grande persistenza sapida. Buono oggi ma tra un paio di anni darà il meglio di sé stesso. Con la cucina di mare si abbina favolosamente.


Podere Conca - Elleboro 2017
: su posizioni nettamente diverse rispetto al precedente sia dal punto di vista aromatico che gustativo. Infatti questo bianco gioca una partita, di qualità, su toni leggermente meno marcati, ha un carattere austero, rigoroso, la complessità olfattiva sembra definita su toni più minerali che fruttati e anche al sorso tende ad essere meno invasivo facendosi apprezzare per compostezza e godibilità. Un vino assolutamente meno gridato del precedente che, in certi casi, richiama uno charme più francese che italiano.


Podere Conca - Agrapanto 2018
: come accaduto per il bianco pari annata, anche questo rosso bolgherese è assolutamente dirompente al naso dove si denota una componente fruttata assai compatta in cui l’amarena sotto spirito, la frutta nera di rovo e la prugna della California la fanno da padroni. Col tempo è la giusta ossigenazione arrivano anche i sentori di fiori passiti e spezie dolci. Calda e di grande rigore la struttura gustativa dove la trama tannica, vibrante, è ben calibrata ed integrata da una vena acido-sapida. Lungo e fruttato il finale.


Podere Conca - Agrapanto 2017
: a tre anni dalla vendemmia si inizia a capire la stoffa di questo blend bolgherese che, iniziando a perdere le sgrammaticature giovanili, comincia a mettere su complessità ed eleganza che vedranno la loro massima espressione sicuramente tra un paio di lustri. Ad oggi questa 2017 mi piace molto di più dell’annata precedente, ha un ritmo olfattivo più rigoroso, sinuoso, con chiare percezioni di ciliegia ancora croccante, spezie anche piccanti, chiodi di garofano, tabacco, rabarbaro, timo e soffi minerali rossi. In bocca mostra un buon equilibrio, ravvivato da un tannino deciso e fitto ma ben fuso nella struttura. Finale accattivante con chiari richiami aromatici.



Marisa Cuomo - Costa d'Amalfi “Fiorduva” 2018

Un bianco nazionale che nasce sui terrazzamenti strappati alla roccia della Costiera Amalfitana. 


A due anni dalla vendemmia ancora giovane ma 
già ricco al naso e appagante al palato, finale travolgente, iodato. In attesa di una sua promessa evoluzione.