Prima regola di ogni manifestazione enologica: mai andare dai migliori produttori presenti appena entrati altrimenti l'enfasi da raduno di eno-appassionati finisce immediatamente e tutti gli altri vini sembreranno degni della serie B alcolica.
Visto che amo infrangere le regole, durante la manifestazione "Emozioni sensoriali d'alta quota" organizzata dall'Ateneo dei Sapori di Roma, mi sono subito diretto verso Armin Kobler che, secondo me, poteva darmi un metro di confronto importante rispetto alle altre produzioni presenti. Col senno del poi, non mi ero sbagliato.
Il suo Ogeaner 2010, chardonnay in purezza da vigneti di 50 anni, è denso di frutta gialla croccante e decisamente fresco e sapido in bocca. Se amate alcuni chardonnay polposi e mediterranei tenetevi alla larga.
Il Klausner 2010, pinot grigio in purezza da vigneti di circa 40 anni, è l'esatta antitesi ad alcuni "vini naturali" da medesimo vitigno che trovo in giro. Qua regna la frutta a polpa bianca, l'acidità sprezzante ed una certa glacialità di beva. Un pinot grigio alla Messner che intona:"Altissimo, purissimo, Koblerissimo!"
Il Feld 2010 è il mio Gewürztraminer, ogni volta che lo bevo non nutro dubbi sul fatto che molti vignaioli dovrebbero guardare da queste parti per impostare la loro produzione spesso incentrata su aromaticità e pesantezza ai massimi livelli così come i relativi residui zuccherini che ti impastano la bocca peggio dello zucchero filato. Basta con ste piacionerie! Il Feld è un Gewürztraminer fine, sa di rosa, muschio e spezie senza essere travolgente, sa attrarti con una bellezza austera ed intrigante senza mettersi i tacchi a spillo e la gonna corta. Per me un vero bisogna dargli la fascia di capitano e fargli cantare l'inno di Mameli!
Armin Kobler
Continuando a trasgredire alla prima regola del buon eno-appassionato mi reco al banco della Cantina di Terlanodove provo i tre bianchi: il Terlaner 2011, il Vorberg 2009 e il Quarz 2010. Il primo, blend di pinot bianco, chardonnay e sauvignon, è stato imbottigliato pochi giorni fa ed infatti è giovanissimo ed un filo scomposto sulle sue note di frutta bianca e lieviti.
Molto meglio il Vorberg 2009 che conferma la sua fama con complesse note di pesca gialla, pompelmo rosa e fiori alpini. Bocca tesa, sapida ed avvolgente che darà il meglio tra qualche anno.
Il Quarz 2010 è l'archetipo del sauvignon altoatesino degustato durante la manifestazione: grande aromaticità, anche troppa per me, e classici sapori di anice, limone e...pipì di gatto.
E gli altri produttori? Nulla di eccezionale, molti vini base senza pretese, molti 2011 scomposti ed arroganti e qualche vino rosso a base Lagrein senza infamia e senza lode. Inutile dare descrizioni di cose che non mi hanno impressionato.
Unica eccezione per Girlan che, pur orfana del Gschleier, ha presentato il Pinot Nero Riserva Trattmann, un vino dalla buona complessità aromatica giocata su toni di frutta rossa matura e scura mineralità. Bocca intensa, potente, strutturata, forse manca un pò di eleganza ma il vino è ancora giovane e si farà (?).
Ecco il regalo per chi, a San Valentino, ama stupire la propria partner in maniera frizzante: un bagno nello Champagne all'interno del fantastico hotel Cadogan.
In pratica gli inglesi si sono inventati un pacchetto lusso chiamato "Champagne bath menu" che prevede la possibilità di immergersi in una vasca di bollicine francesi con maggiordomo a disposizione che ci verserà calici di champagne (stavolta) da bere col proprio amore.
In particolare verranno usate 120 bottiglie di champagne per riempire la vasca con un costo che oscilla a seconda della marca prescelta.
Fonte: http://www.myluxury.it
Il prezzo? Si parte dalle 4mila sterline per il menu a base di Louis de Custine Brut, 6mila sterline per quello a base di Perrier Jouët Grand Brut, 8mila per il Perrier Jouët Blason’ Rose, fino a 25mila sterline per il Dom Perignon Vintage.
Se volete posso vendervi la paperetta che galleggia firmata Franciacorta però, mi raccomando, non usate sapone perchè male che vada, se andate in bianco, potete scordare la buca scolandovi a garganella tutta la vasca con rutto made in England incluso.
Quante volte abbiamo discusso sui vari blog dell'impossibilità di acquistare al supermercato un buon vino al di sotto delle cinque euro, quante volte abbiamo fatto i conti della serva per far comprendere agli appassionati meno scaltri che solo il costo del tappo, l'etichetta e il vetro della bottiglia incidono per quasi due euro sul prezzo di un vino "potabile".
Tante parole spese, tante certezze che tre giorni fa si sono sciolte come la neve d'estate quando, girovagando tra il mio supermercato di fiducia, trovo in bella mostra uno scaffale pieno di verdicchio Cantine Belisario a soli 2 euro la bottiglia.
L'azienda un pò la conosco, è il più grande produttore di Verdicchio di Matelica DOC, una cantina sociale che, nonostante i numeri prodotti (qualcuno potrebbe chiamarla industriale....), a mio giudizio mantiene una gamma qualitativa media di assoluto rispetto equiparabile per certi versi alle eccezionali realtà consociative del Trentino-Alto Adige.
Ma come si arriva a due euro per questo vino? La crisi è la risposta più reale e condivisibile alla domanda, vendere alla GDO sottocosto, perchè di questo si tratta, significa incassare in tempi brevissimi euro di cui si ha stramaledettamente bisogno per sopravvivere.
L'Anfora Belisario, perciò, è figlia della povertà di questi giorni ma, al tempo stesso, è anche Verdicchio molto godibile, nulla di eccezionale e complesso si intenda, ma è un vino che sa essere di buona intensità minerale con ritorni di frutta agrumata e piante officinali (salvia su tutti). Bocca tesa, acida, schietta, coerente col naso e dal finale ammandorlato.
Probabilmente, finchè dura l'offerta, il miglior rapporto q/p tra i bianchi italiani (sfuso di Valentini a parte...ovvio).
I vini biologici riporteranno in etichetta la dicitura «vino biologico», il logo biologico dell'UE e il numero di codice dell’organismo di certificazione. Sono le novità in arrivo dall'Europa: il Comitato permanente per la produzione biologica (SCOF) ha approvato nuove norme che saranno pubblicate nelle prossime settimane nella Gazzetta ufficiale.
Il nuovo regolamento, applicabile a partire dalla vendemmia del 2012, prevede la possibilità per i viticoltori biologici di utilizzare il termine «vino biologico» sulle etichette, con il logo biologico dell'UE. Questo garantisce una maggiore trasparenza e permette ai consumatori di scegliere meglio il prodotto da comprare.
Attualmente non esistono norme europee o definizioni applicabili al «vino biologico». La certificazione biologica è prevista soltanto per le uve e l’unica dicitura consentita è «vino ottenuto da uve biologiche». Le nuove norme introducono, invece, una definizione tecnica di vino biologico che è coerente con gli obiettivi e i principi dell'agricoltura biologica enunciati nel regolamento (CE) n. 834/2007 del Consiglio relativo alla produzione biologica.
Fonte: vino-prodottitipici.com
Il regolamento stabilisce le tecniche enologiche e le sostanze autorizzate per il vino biologico. Una di queste norme fissa il tenore massimo di solfito per il vino rosso a 100 mg per litro (150 mg/l per il vino convenzionale) e per il vino bianco/rosé a 150mg/l (200 mg/l per il vino convenzionale), con un differenziale di 30mg/l quando il tenore di zucchero residuo è superiore a 2 g/l.
Vengono stabilite anche alcune pratiche enologiche e di sostanze, quali definite nel regolamento (CE) n. 606/2009 relativo all'organizzazione comune del mercato (OCM) vitivinicolo, da utilizzare per i vini biologici. Ad esempio non sono consentiti l'acido sorbico e la desolforazione e il tenore dei solfiti nel vino biologico deve essere di almeno 30-50 mg per litro inferiore al livello dell'equivalente vino convenzionale (a seconda del tenore di zucchero residuo). Il «vino biologico» deve ovviamente essere prodotto utilizzando uve biologiche quali definite nel regolamento (CE) n. 834/2007.
Queste novità contribuiranno a facilitare il funzionamento del mercato interno e a rafforzare la posizione che i vini biologici dell'UE detengono a livello internazionale, dato che molti altri paesi produttori di vino (USA, Cile, Australia, Sudafrica) hanno già stabilito norme per i vini biologici.
Dopo il voto nel Comitato permanente, il commissario europeo per l'agricoltura e lo sviluppo rurale, Dacian Ciolos, ha dichiarato: «Sono lieto che sia stato infine raggiunto un accordo su questo tema. Era infatti importante fissare norme armonizzate al fine di garantire un'offerta chiara ai consumatori, che sono sempre più interessati ai prodotti biologici. Constato con piacere che le norme adottate stabiliscono in modo trasparente la differenza tra vino convenzionale e vino biologico - come è il caso per altri prodotti biologici. In tal modo si dà ai consumatori la certezza che un «vino biologico» sia stato prodotto applicando norme di produzione più rigorose.»
Ogni tanto mi piace divagare e inserire su Percorsi di Vino anche qualcosa di spiritoso, ridicolo, amo prendere in giro il mondo del vino soprattutto quando questo tende a prendersi troppo sul serio.
Le foto qua sotto, prese su internet, danno idea di quanti designer fantasiosi sia sul libro paga di molti produttori mondiali.
IL VINO TETRIS
Questa l'ha disegnata sicuramente un amante del famoso videogioco
IL VINO GRAN TURISMO O VINO DELL'ALFISTA
Attenzione a scalare....
IL VINO PER LA LUNA DI MIELE O VINO AMBROSOLI
Attenzione: crisi glicemiche
IL VINO GENERAZIONALE
Dal nonno al nipote, uniti per il vino
IL VINO ALITALIA
Il miglior regalo per una hostess?
IL VINO DEDICA
Attenzione a quello che scrivete, la bottiglia può essere usata contro di voi
La scorsa settimana assieme al solito gruppo di enostrippati romani abbiamo organizzato una serata a tema sangiovese. Tra i vari vini degustati, due o tre hanno meritato il podio del mio cuore. Uno di questi è stato il Chianti Classico Riserva Rancia 2001. Avevo già scritto degli anni '90 di questo vino che, come abbiamo tutti notato in occasione della verticale, invecchia talmente bene che il geriatra dovrebbero chiamarlo più per me che per lui che, man mano che passano gli anni, diventa sempre più elegante, complesso e vivo.
Foto: Andrea Federici
Questa premessa è d'obbligo per capire il motivo per cui, stappando la 2001 (bell'annata da quelle parti), ci siamo trovati di fronte ad un piccolo mostro con le sembianze di un lattante e l'anima di un uomo finemente emancipato.
Il naso è scuro, sfaccettato, cangiante di spunti minerali che ricordano la grafite e il quarzo nero per poi intersercarsi in sensazioni di frutti neri di bosco e fiori viola appassiti, terra bagnata. Col tempo, ossigenandosi, il bicchiere tira fuori anche delicato aroma di eucalipto e pepe nero.
Foto: http://attoadivenire.blogspot.com
In bocca mantiene una freschezza intatta, i tannini, finissimi, sono perfettamente integrati nella struttura che non eccede in pesantezze di nessun tipo ma, anzi, sfoggia una progressività ben definita ed una persistenza di classe su ritorni di frutta nera e minerali ferrosi.
Un Chianti Classico per molti ma non per tutti che, a mio parere, avrà lo stesso grande destino del millesimo 1990. Basta aspettare...
Ah, segnalo il prezzo di acquisto? 30 euro in enoteca. E ho detto tutto.
Siamo arrivati a 20 Food Blogger, a breve un aggiornamento
Si è da poco concluso l'anniversario del 150° dell'Unità d'Italia: una ricorrenza storica importante, che è stata spunto di tante iniziative, ma se dovessimo dire quali sono i prodotti gastronomici che da nord a sud dello stivale possono unire le varie cucine regionali, voi quali individuereste?
Nella mia esperienza sul "campo" a stretto contatto con i consumatori, un'idea in tal senso me la sono fatta...
Uno degli scopi della gastronomia è quello di poter conservare prodotti stagionali altrimenti deperibili; fra questi c'è sicuramente il mosto dell'uva che se in passato non veniva trasformato in vino, non aveva alcuna possibilità di conservazione.
Fin dall'epoca rinascimentale è testimoniata la produzione di "mosto cotto", una sorta di sciroppo di colore bruno, a causa della percentuale di caramello che si forma durante la cottura, che di solito avveniva in paioli di rame e a fuoco diretto.
La produzione di "mosto cotto" è legata indissolubilmente alla tradizione popolare, dalla quale ha addirittura tratto storie e romanzi, come nel caso de "La neve nel bicchiere" di Nerino Rossi, reso celebre dall'omonimo film di Florestano Vancini.
Chiamatelo "mosto cotto", "saba", "sapa", "vin cotto", ma sempre dello stesso prodotto stiamo parlando, e la sua produzione è ancora attiva in quasi tutte le regioni italiane, sebbene contestualizzata nell'ambito domestico e nel periodo invernale.
Per tradizione con questo sciroppo si producono dolci molto ghiotti, dai "sabadoni" emiliani, alle "cartellate" pugliesi, ai “mustaccioli” siciliani, ma ci siamo sempre chiesti se questo prodotto antico potesse essere utilizzato nella cucina di oggi in chiave moderna.
Essendo la nostra Azienda molto vicina ai prodotti della nostra terra, abbiamo quindi pensato di istituire il:
- Il concorso è riservato a 20 food blogger che riceveranno un campione di 100 ml di "La Saba", il mosto cotto dell'Azienda Vitivinicola Mariotti
- La partecipazione è gratuita; ai concorrenti si richiede di realizzare una ricetta che abbia fra gli ingredienti principali "La Saba".
I partecipanti, che devono avere un blog aggiornato almeno settimanalmente, dovranno seguire la tempistica sotto elencata che prevede la realizzazione di un primo post in cui si testimonierà la propria partecipazione al concorso con esplicito riferimento al presente articolo (link a Percorsi Di Vino e Ma che ti sei Mangiato) e agli organizzatori (Azienda Vitivinicola Mariotti in collaborazione con il Consorzio "Il Gusto di Ferrara"). Successivamente è prevista la redazione di un post nel quale verrà presentata la ricetta, mediante tutti i contenuti multimediali che i concorrenti vorranno utilizzare.
Lo svolgimento prevede la seguente tempistica:
Dal 6 al 19 febbraio: ricevimento iscrizioni e realizzazione del post di lancio da parte dei concorrenti. Per iscriversi mandare una mail a: info@percorsidivino.com con nome, cognome e Blog.
Dal 20 al 29 febbraio: invio dei campioni
Dal 1 al 31 marzo: realizzazione della ricetta e redazione del post di presentazione della stessa
Dal 1 al 15 aprile: valutazione dei post e riunione della Giuria la cui composizione verrà comunicata entro il 19 febbraio
Dal 16 al 30 aprile: comunicazione del vincitore e invio dei premi:
- Premi: è previsto un unico premio per il vincitore consistente in una cesta di prodotti tipici ferraresi offerta dal Consorzio "Il Gusto di Ferrara", partner dell'iniziativa, e materiale promozionale e turistico della Provincia di Ferrara.
Ai partecipanti, inoltre, verrà inviato un banner che testimonierà la loro partecipazione (di cui uno finale personalizzato per il vincitore) e che, a discrezione degli stessi, potrà essere pubblicato sul proprio blog.
Il materiale prodotto sarà a completa disposizione degli Organizzatori, che si riservano di poterlo utilizzare per altre iniziative future.
Il giudizio della Giuria è insindacabile.
I concorrenti, all'atto dell'iscrizione, accettano nella sua totalità il presente regolamento.
Dopo aver letto i risultati della ricerca scentifica diretta dalla professoressa Antonia Mantonakis e presentata a "Cool Climate Oenology and Viticulture Institute" consiglierei ad Antinori di chiamarsi Antinorakikos o, che ne so, a Caprai di sostituire il suo nome in bottiglia con Kaprailokkos. Perchè dico questo? Perchè questa ricerca portata avanti dalla Brock University (Canada) ha svelato che il nome del vino può incidere sulla capacità di valutare il prodotto.
Come si è arrivati a tutto ciò? Il team canadese ha lavorato con alcuni volontari che hanno bevuto lo stesso vino ma credendo di bere due etichette diverse. La prima volta, il vino gli è stato presentato come prodotto della cantina Titakis, nome facile da pronunciare. La seconda volta, la bevanda è arrivata dalla cantina Tselepou, nome greco di tre sillabe dalla pronuncia non facile.
Dopo la degustazione è stata chiesta una valutazione da uno a sette, e il punteggio maggiore è stato ottenuto dal secondo vino, nonostante fosse identico al primo.
È interessante come le persone percepiscano le cose - spiega Antonia Mantonakis, autrice dello studio - il suono di un nome sembra poter influenzare le percezioni”.
E non sarebbe la prima volta che si nota un fenomeno simile, spiega l’esperta: studi precedenti ad esempio hanno dimostrato che più le montagne russe hanno un nome bizzarro e più vengono percepite come pericolose, e lo stesso avviene per gli additivi alimentari e persino per le società finanziarie.
Comunque, a me tutte ste ricerche scientifiche non convincono molto, soprattutto non mi convince la scelta del panel di degustazione.
FONTI:WineNews, NewsFood tramite "What's in a name? A lot when it comes to the wine industry", Brock News,
Non si fa in tempo a commentare la triste vicenda che ha visto condannato Gaetano Manti, direttore responsabile delle riviste «Bere» e «Il mio vino», al pagamento di 15.000 euro nei confronti di Paolo Scavino per una "recensione" sopra le righe nei confronti del Barolo Rocche dell’Annunziata Riserva 1997, che Bibenda7 se ne esce stamani con un articolo dove riprende il pensiero di Denis Dubourdieu secondo cui per fare un grande vino c’è bisogno di quattro fattori: vignaioli all’altezza, commercianti capaci di vendere, consumatori che lo vogliano acquistare e critici del vino in grado di valutarlo.
Il problema è che oggi, per Dubourdieu, tra blogger e social network, chiunque dà il proprio giudizio, anche senza averne la minima competenza, ed il giornalista del vino, complice la crisi della carta stampata, gioca un ruolo sempre più secondario, fin quasi a scomparire, lasciando “solo” il consumatore.
La salvezza? Passa per una ridefinizione dell’arte della critica che “scongiuri la dittatura di una democrazia virtuale”.
Dubourdieu. Fonte: Pignataro wine blog
Ovviamente Bibenda, che fa capo a Ricci, sposa la tesi di Dubourdieu, cioè i consumatori e gli appassionati di vino non hanno il diritto di parlare e, nel caso, di criticare il vino. Solo loro, i giornalisti della carta stampata, gli eletti, possono farlo.
Sapete cosa mi chiedo? Ma non è che vi sta rodendo il culo (scusate per il rodendo) perchè le vostre posizioni di privilegio, i vostri viaggi pagati, le vostre camere in alberghi di lusso, le vostre cene d'elite, si stanno dissolvendo come nebbia al mattino?
Ridicoli!!!
Questa, riporto sempre da Bibenda7, è la versione integrale del pensiero di Dubourdieu:
Pour qu’il y ait de grands vins, il faut, comme le dit si bien Denis Dubourdieu, des vignerons pour produire ces grands vins, des commerçants qui sachent les vendre, des consommateurs qui aient envie de les acheter, et quatrième condition des critiques du vin pour les évaluer, les noter: «Des bloggeurs et des journalistes». Ce n'est pas une fable mais un drame probable en 3 actes et raconté en 10 lignes:
1) D’abord l'apparition d'Internet, des bloggeurs, des réseaux sociaux (tout le monde peut donner son avis, avec ou sans talents, souvent sans expériences et sans expertises, et toujours pour faire son autopromotion!)
2) Puis crise de la presse et en particulier de la presse du vin (moins de 300 journalistes écrivent sur la vigne, sur le vin, sur la gastronomie, en France!) Pas d’argent, pas de moyens, pas d’indépendance, pas d’audace.
3) Et au 3ème et dernier acte, disparition de l’art de la critique du vin... Perdu par la multiplicité des références, des origines, des prix, le consommateur perd confiance et se protège en réduisant ses achats de vins!
Pour éviter le drame, journalistes et éditeurs, du papier ou du numérique, devraient se réunir pour redonner un sens au journalisme du vin, redéfinir l'art de la critique. Enfin, il faudra accepter une certification des acteurs de la critique, de la notation, par une Autorité, sinon les technologies du numérique pourraient imposer la dictature d'une démocratie virtuelle.
Chi mi conosce sa che non sono un fan appassionato di Luca Maroni, è troppo turgido e linfatico per i miei gusti che, evolvendo, mi portano spesso e volentieri lontano da eventi stile SenseOfWine dove girano più fighetti e fighette in cerca di open bar che seri appassionati di vino. La riprova? Groupon ha messo in vendita centinaia di biglietti per la manifestazione a prezzi popolari per cui, come peraltro ho potuto notare nei bagni del Palazzo dei Congressi, via libera ad orge alcoliche di gruppo con tanto di ragazzine stese sui pavimenti in coma etilico. Ebbravi!
Tutto questo "casino" mondano passa in secondo piano quando arrivi al banco di Gianfranco e Simona Fino che proprio in questi giorni stanno presentando l'annata 2010 del loro ES.
La loro postazione era presa letteralmente d'assalto, i giusti riconoscimenti presi nell'ultimo anno stanno producendo favorevoli effetti anche nei confronti di chi sino ad ora confondeva il primitivo con l'uomo preistorico.
Ero molto curioso di degustare l'annata 2010 perchè, parlando tempo fa con i coniugi Fino, mi avevano anticipato che l'annata dalle loro parti era stata talmente promettente che l'uva che avevano portato in cantina era, a loro giudizio, la migliore di sempre. La curiosità, perciò, era talmente alta che appena noto la bottiglia di ES, facendomi largo tra la folla, chiedo alla gentile Simona di versarmene una bella dose.
Simona Fino
Il rosso rubino trasparente del primitivo è tanto intenso quanto lucente e, mettendo il naso nel bicchiere, capisci da subito che questo è un vino differente dagli altri. La versione 2010 dell'ES ci mostra un profilo olfattivo più austero e "secco" del solito, c'è una profondità diversa in questo millesimo, il punto di partenza dell'esperienza aromatica inizia tra la macchia mediterranea e le spezie orientali per poi portarti laggiù, dove l'orizzonte cromatico della frutta e dei fiori si tinge di rosso luminoso e cangiante come un tramonto d'estate.
Es e Jo
Anche al sorso, sopratutto, ci si rende conto che l'ES 2010 è un vino più maturo nel carattere, i tannini fittissimi e finissimi, la grande spina acida e la sapidità del vino ben equilibrano le morbidezze pronunciate del primitivo che, su uno sfondo di spezie e piante mediterranee, tende a persistere nel palato estatico per diversi minuti senza mai cedere in eccessi da vinone. Ecco, l'ES 2010, nonostante i 16,5% non è un monster wine ma, semplicemente, un grande vino da godersi oggi e nei prossimi venti anni. Non so se sarà la versione migliore di sempre ma, senza dubbio, è un vino che me piace tanto!
Da notare, e meriterebbere un post parte, la presenza al banco dello Jo 2010, negramaro un purezza da vigne ad alberello di oltre 40 anni situate di fronte al Mar Ionio (da qua il nome "Jo"). Questa versione mi è particolarmente piaciuta perchè ha dato vita ad un vino di grande solarità che riporta chi lo beve alla salinità del mare e alla frutta accarezzata dal sole. Palato caldo e morbido con finale di grande lunghezza e sapidità.
La conferenza stampa di Sangiovese Purosangue ha proposto molti spunti di riflessione. I video qua sotto riportano integralmente quella interessante mattinata romana.
Per chi si stufa a vedere tutti i video, riporto integralmente gli interventi di Stefano Cinelli Colombini e Gian Luca Mazzella.
Intervento di Stefano Cinelli Colombini
Montalcino e i suoi sangiovese rappresentano un caso davvero curioso, qui i miti sono così affascinanti che nessuno si cura davvero della storia e della realtà del territorio. Tutto questo potrebbe andare benissimo, perché le leggende fanno vendere il vino molto di più delle cifre, però c’è un problema; se ci si basa solo sui miti non si riesce a capire quello che accade, è accaduto e accadrà a Montalcino. Per questo penso sia utile dedicare questo intervento ad una breve analisi “multi disciplinare” su Montalcino, mettendo insieme dati noti su storia, economia e enologia. Tutto ciò che cito proviene da materiale ben noto, disponibile in libri e pubblicato varie volte, ma purtroppo in genere è ignorato dagli addetti ai lavori.
Quando e perché nascono le fortune dei vini di Montalcino? Tutto ha inizio dal medioevo e da una strada. Con i mari invasi dai pirati saraceni e le antiche vie romane degradate le alternative per i viaggiatori si erano ridotte a poca cosa; chi voleva andare a Roma doveva per forza usare la Francigena. E la Francigena passava da Montalcino. In più dal XIII° secolo il Comune aveva ottenuto il diritto di porto franco, divenendo così una specie di Duty Free del Medioevo. Ben presto Montalcino scoprì che i milioni di viaggiatori che transitavano sotto le sue mura gradivano molto i suoi vini, e iniziò a farne sempre di più. E con di più intendo davvero tanti, perché dai dati dei catasti e dei censimenti le vigne vanno da duemila ettari a quattromila e cinquecento; tanto per dare un’idea, oggi ce ne sono tremila seicento e produciamo circa venti milioni di bottiglie all’anno. La strada di Roma era la strada per il centro della cristianità, un luogo dove chiunque fosse qualcuno prima o poi doveva andare. Da Carlo Magno in poi ogni imperatore del Sacro Romano Impero ha mangiato nelle nostre taverne e re, nobili, papi, cardinali e personaggi di ogni tipo hanno camminato nelle nostre strade. È la richiesta che crea il prodotto e noi avevamo in casa la migliore clientela d’Europa, gente abituata ai vini più raffinati. Così nacque il Moscadello, che dal seicento verrà progressivamente sostituito da un grande sangiovese in purezza affinato per 4 o 5 anni in botte; il Brunello. Guglielmo III° d’Inghilterra ne importava ogni anno per la mensa reale, come risulta da una corrispondenza datata dal 1688 al 1710. Un libro di viaggi del Conte Pieri del 1790 ne descrive esattamente nome, composizione ampelografica e tempo di affinamento. Dai primi decenni dell’ottocento i Padelletti vendono Brunello con etichette stampate in tipografia, e nel 1875 la Commissione Ampelografica della Provincia di Siena redige la più antica analisi chimico degustativa ufficiale di un Brunello che ci sia pervenuta; si tratta di un Castelgiocondo del 1843, un vino di 32 anni dal colore rosso rubino con 14,2 di alcol, acidità totale 5,1 e estratti secchi di 23,28, dati del tutto in linea con i migliori Brunelli attuali. Nel 1869 Clemente Santi è premiato con medaglia d’argento al Comizio Agrario del Circondario di Montepulciano per un Brunello 1865, nel 1870 Tito Costanti partecipa all’Esposizione Provinciale del 1870 con un Brunello 1865 e nel 1874 la Fattoria dei Barbi ottiene una medaglia d’argento dal Ministero dell’Agricoltura, il primo premio nazionale per un vino di Montalcino. Negli anni tra il 1890 ed il 1910 Paccagnini vince 45 medaglie con i suoi Brunelli in tutta Europa. In questo periodo gli agronomi ilcinesi fanno ricerche fondamentali sul sangiovese, che vanno dalle selezioni clonali dei Biondi Santi al manuale di vinificazione del Brunello di Paccagnini alle ricerche sulle vigne di Anghirelli. Montalcino nel 1900 è la terza città del sud della Toscana dopo Siena ed Arezzo, è un centro vivace che ha nel Brunello la sua punta di diamante.
Ma è nella prima metà del novecento che Montalcino evolve ancora e diviene pioniere; pochi lo sanno, ma è qui che nascono tante idee che sono alla base della moderna commercializzazione e produzione del vino di qualità italiano. Nel 1931 Fattoria dei Barbi inizia a vendere il Brunello per corrispondenza, con una mailing a tutti gli avvocati e medici d’Italia. Negli stessi anni i Biondi Santi iniziano a spedire Brunello in USA ed in vari paesi esteri; interessante una foto del primo camion per gli USA, e la innovativa bottiglia da 0,100 Litri in confezione antiurto per l’invio dei campioni. Nel 1932 una dozzina di aziende di Montalcino partecipano alla prima Mostra Mercato del Vino Tipico d’Italia a Siena e dichiarano una produzione complessiva di 35.000 ettolitri, pari a 4,7 milioni di bottiglie. Nel 1937 il Podestà Giovanni Colombini inaugura la prima Enoteca Pubblica d’Italia nella restaurata Fortezza, e il regolamento obbliga alla vendita dei soli prodotti agricoli confezionati del territorio. Nel 1950 la Fattoria dei Barbi realizza la prima cantina d’Italia sempre aperta ed attrezzata per la degustazione e vendita al pubblico del vino in bottiglia; da quell’anno al 2011 la visitano tre milioni di enoturisti. Commercializzazione diretta e con i metodi più innovativi in Italia e nel mondo, alti prezzi, cura del prodotto e uso di territorio e cantine come veicolo di vendita e di promozione del vino; sono le regole che governano il mercato del vino di qualità, ma qui tutto questo è stato attuato oltre mezzo secolo prima che nel resto d’Italia. Il Brunello in quegli anni è così importante che il grande poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti gli dedica lo slogan della Prima Mostra Mercato dei Vini Tipici Italiani, che si tiene a Siena nel 1931; il Brunello è benzina, nel senso che è il carburante che muove il mondo.
Nel 1964 due eventi traumatici distrussero quasi tutto quanto era stato faticosamente creato. Il primo fu nazionale; venne abolita la mezzadria e le aziende non trovarono le risorse economiche per riconvertirsi a lavorazioni meccanizzate. Il secondo fu locale, ma per noi devastante; venne aperta l’Autostrada del Sole, e all’improvviso da Montalcino non passò più nessuno. Il paese perse improvvisamente quei milioni di transiti all’anno su cui viveva, ed è come se una città portuale si trovasse senza il mare. Basta un dato per dare l’idea della crisi; in dieci anni il Comune perse il 70% della popolazione. Delle Fattorie che avevano fatto la storia del Brunello ne sopravvissero cinque o sei, e a loro si aggiunse qualche decina della neonate aziende a conduzione diretta. Quello è il periodo in cui nasce la stampa del vino in Italia, e chi arrivava qui in quel periodo poteva legittimamente pensare di essere finito in un deserto; fu per questo che molti si si fecero un’idea del tutto falsa del nostro vino, e da qui sono nate molte delle leggende assurde che ora passano per storia. La realtà è che il Brunello ed il Montalcino di oggi nascono da una grande storia, da grandi famiglie e da grandi aziende avevano costruito nei secoli, ma uno tsunami imprevisto ha spazzato via quasi tutto. I fortunati ed i capaci che sono sopravvissuti si sono trovati davanti un’opportunità unica; avevano un grande prodotto già perfettamente evoluto e tanto spazio per crescere.
Servirono dieci anni per riorganizzare il sistema produttivo, ma poi la ripresa fu rapidissima e realizzata con mezzi del tutto inusuali. La prima straordinaria innovazione fu l’integrazione tra produttori, società civile ed istituzioni; senza distinzione di partito, origine sociale e ideali tutti si dettero da fare per il rilancio della comunità. Non c’erano più i viaggiatori verso Roma e così nel 1964, per richiamare gente e consumi, la popolazione si inventò due “Sagra in costume medioevale” con sfilate, gare e soprattutto mangiate e bevute di prodotti tipici; erano le prime del loro genere in Italia, poi moltissimi le copiarono. I sindaci Raffaelli e Bindi si fecero “ambasciatori” del Brunello incoraggiando imprenditori di ogni luogo a venire a Montalcino; nel pieno dei conflitti del sessantotto qui si fecero realizzare senza problemi tutte le cantine, opifici e strutture che servivano, aiutando le imprese in ogni modo possibile. Ma rispettando sempre qualità edilizia e territorio. I viticoltori unirono i loro sforzi sotto l’egida del Consorzio del Brunello, con enormi economie e vantaggi; questo Consorzio è l’unico in Italia da aver rappresentato sempre oltre il 90% della produzione. Negli anni ’70 ed ’80, quelli in cui si è creato il mercato ed il mito mondiale del Brunello, Montalcino è stato un esempio di collaborazione di un intero territorio nello sviluppo. A conferma di un successo ormai consolidato nel 1981 Biondi Santi e Fattoria dei Barbi furono incluse da Wine Spectator tra le 100 aziende più prestigiose del mondo nella prima New York Wine Experience. Due entro le prime 100 del mondo intero!
Altri fattori di successo furono quelli classici, ma qui applicati fino alle ultime conseguenza; l’innovazione di prodotto e di processo. Le innovazioni di prodotto di Montalcino sono state solo due, ma enormi; sono i nostri vini, il Brunello ed il Rosso di Montalcino. In che senso il Brunello è stato un’innovazione di prodotto? Perché è stato il primo vino rosso italiano di alta qualità venduto a milioni di bottiglie su tutti i mercati del mondo, un prodotto che ha creato un segmento di mercato che prima non esisteva. Del Rosso di Montalcino vi parlerà di più e meglio il dott. Tiezzi, che né praticamente il padre, io mi limito a indicare una peculiarità; è stata la prima DOC nata specificamente per drenare gli eccessi di produzione di un altro vino, funzione che ha svolto egregiamente per un quarto di secolo. Le innovazioni di processo a Montalcino sono state innumerevoli, causate da una fertilità imprenditoriale senza pari; dal 1975 al 2000 sono nate da cinque a dieci nuove cantine all’anno, molte delle quali realizzate con la tecnologia più innovativa. Ogni nuova struttura spostava l’asticella della qualità un pochino più in alto. Tutti i migliori enologi d’Italia hanno lavorato qui, e anche questo ha innescato competizione ed interesse nei media. Non possiamo negarci che la continua competizione per la qualità ha portato anche ad eccessi, e che questi eccessi ci sono costati molto cari. Però la salute intrinseca del sistema è stata così forte da permetterci di usare la malattia per crescere; sono salite alla ribalta nuove aziende, altre si sono confermate nella qualità e altre hanno avuto qualche battuta di arresto, ma Montalcino nel suo complesso è sempre e comunque ai vertici dell’enologia italiana. La rinascita dopo la crisi mondiale e Brunellopoli si spiega proprio con la natura peculiare di Montalcino, che ho cercato di far capire in queste poche righe; qui non siamo di fronte ad un qualcosa creato da un singolo genio, che sarebbe morto con lui, né alle iniziative straordinarie di un’azienda leader di mercato, perché qui leader di mercato non ci sono mai stati dato che nessuno in tempi recenti ha mai raggiunto il dieci per cento del venduto totale. Solo noi della Fattoria dei Barbi abbiamo superato questo limite, ma più di quarant’anni fa. Montalcino ed i suoi sangiovesi sono il frutto del lavoro secolare di una collettività che è partita da poche famiglie locali ed ha saputo arricchirsi accogliendo tanti nuovi contributi. Montalcino ha certamente dei grandi protagonisti, ma ne ha così tanti e sempre nuovi che sono un coro. Ed un coro non muore mai.
Per chiudere alcuni dati sul sangiovese a Montalcino. Il Comune ha 3.600 ettari di vigna, di cui sono certamente di sangiovese i circa 2.100 iscritti a Brunello più i 550 iscritti a Rosso di Montalcino. Dei restanti 950 ettari circa 300 sono dichiaratamente sangiovese, che così raggiunge la quota dell’82% dei vigneti di Montalcino. È divertente anche notare un’ulteriore elaborazione del dato; se escludiamo i vigneti delle cinque aziende con più vitigni “non indigeni” la percentuale del sangiovese sale al 97% di media; basta questo dato a spiegare perché il taglio nei DO di Montalcino viene sempre respinto con percentuali bulgare. E questo dato racconta anche con i fatti, e non con le parole, che chi è venuto o ha sempre fatto vigna a Montalcino la ha fatto perché crede nel sangiovese. I rivendicatori delle DO di Montalcino sono 309, di cui 235 iscritti al Consorzio; occorre però tenere conto che quei 235 rappresentano oltre il 95% del Brunello imbottigliato. Come tutte le realtà anche quella di Montalcino presenta mille sfaccettature, io vi ho dato una prospettiva che non pretende di essere la verità ma è un’analisi basata su dati verificati fatta da chi ha vissuto direttamente o tramite i ricordi di famiglia tutta l’avventura del Brunello. La Storia con la S maiuscola è ben altro, ma spero che questa fonte vi possa essere utile.
Intervento di Gian Luca Mazzella
Il ruolo Montalcino nell’Italia della denominazione di origine tradita
Seguo il vino da oltre 20 anni, Montalcino da oltre 15 (da quando feci i primi corsi Ais e poi quello di Bordeaux), meno tempo di voi (non tutti diciamo la verità), ma mi sento particolarmente legato ai vostri vini, allo splendido borgo medievale e soprattutto al Sangiovese: che potrei bere ogni giorno, e sottolineo bere non degustare, al contrario di un Nebbiolo non maturo.
Con l’entrata in vigore della nuova legge europea che regolamenta il settore vinicolo, nell’ambito d’una Organizzazione Comune del Mercato (la cosiddetta Ocm), per quasi due anni la Gazzetta Ufficiale ha riportato modifiche di disciplinari, richieste di nuove Docg, o perfino di nuove Doc per intere produzioni regionali. Le richieste di modifica o di riconoscimento sono avvenute appena in tempo per avere l’approvazione d’un semplice comitato nazionale, e non europeo. Rallegriamoci! Abbiamo battuto la Francia per numero di riconoscimenti, oltre 500 (fra Docg Doc e Igt), ma non per la loro riconoscibilità. Giacché in Francia non ammettono il Sangiovese (vitigno italiano più piantano al mondo) nella AOC del Bordeaux o del Borgogna, ma nemmeno delle appellazioni meno note. Ma noi siamo così, ci piacciono i primati di quantità non di qualità vedi i totali della produzione vinicola nazionale e i costi bassi dei vini che esportiamo (rispetto ai Francesi). In questa prospettiva assume un valore rilevante il ruolo di Montalcino come denominazione di origine.
Difatti, la maggior parte delle nostre denominazioni di origine (concetto ormai quasi anacronistico e paradossale) ha ampliato la griglia dei vitigni autorizzati o perfino raccomandati, che era già ampia: ammettendo ovunque vitigni francesi e internazionali. Non parliamo poi delle pratiche enologiche che negli ultimi 20 anni si sono omologate come mai prima nella storia, tanto che nei diversi continenti è possibile ormai riscontrare i medesimi procedimenti coi medesimi vitigni. Ossia medesimi vini. E poi ci mettiamo a disquisire di terroir… ma ormai solo i prezzi e le etichette sono diverse! Non vorrei però generalizzare troppo.
Dunque concentriamoci su un dato: in Italia i vini da monovitigno rappresentano circa il 4% della produzione nazionale: quindi un gruppo che (almeno per ragioni numeriche) deve stare al vertice delle qualità e deve guidare l’eccellenza, specie se annovera vini quali il Barolo o il Brunello. Dato che il Taurasi ha ormai un disciplinare “misto”.
Ebbene negli ultimissimi anni, anziché a un affinamento del vertice della qualità, si è assistito al contrario: non è soltanto la vigna a degradare dalla collina alla pianura… ma anche i disciplinari. Sicché ad esempio nel 2010 si è tentato di cambiare il disciplinare del Barolo, ammettendo vigne con la speciale vocazione di essere esposte a nord. E solo grazie alla tenace opposizione di un singolo produttore e a una sentenza del Tar Lazio, come ho riportato sul quotidiano, oltre a un cambiamento del CDA del consorzio, il Barolo ha mantenuto l’attuale foggia del disciplinare quasi per intero (si è comunque oscuramente ridotta l’acidità minima in un vino fatto con un cultivar che non difetta di acidità).
Tralasciamo poi di riferire tutto quello che è avvenuto a Montalcino, e che continua ad accadere, considerando le ultime dichiarazioni di Antinori e di Cernilli a proposito di un auspicabile cambiamento dei disciplinari (e uso volutamente il plurale disciplinari): e dunque un apertura degli stessi alle altre varietà. Ecco, io sono stato io coinvolto nella vicenda quasi a forza anni fa, dal momento che volevo astenermi da parlare di una frode meramente commerciale (giacché continuavo a scrivere da anni in Europa solo di vini che ritenevo autentici). Però ricevendo alcune interviste in Germani e in Austria, dalle televisioni nazionali, mi accorsi di quanto si ignorasse il Brunello e quanto il vino italiano fosse frainteso: oltre che accusato di essere nocivo alla salute. Allora ero in contatto con uno dei tre più noti quotidiani nazionali che però voleva solo cinque righe a settimana di giallo paglierino con riflessi dorati, e non voleva affatto inchiesta, anche per non spaventare le inserzioni pubblicitarie. Dunque rifiutai la collaborazione e di occuparmi di approfondire una indagine in cui la Procura non voleva dare notizie nemmeno al New York Times.
Ma dopo un anno e mezzo che assistetti a un circo di dichiarazioni false, ben riportate da pubblicazioni di tutto il mondo come Decanter che non ha mai smentito, o pennaioli (ululanti come sirene) prestatisi a confronti da ring in ambiti universitari, senza aver fatto informazione (alcuni hanno poi esaltato i vini che avevano ghigliottinato dopo aver letto il nome sulla Nazione), ebbi lo stimolo di fare chiarezza. La denominazione pareva come abbandonata a è stessa. Allora nasceva il quotidiano per cui lavoro oggi in Italia, e mi chiesero di occuparmi dei due aspetti dell’agroalimentare: il racconto della qualità ma anche quello della froda. Così ho riportato tutti i fatti e nomi e patteggiamenti, e siamo stati l’unico quotidiano o pubblicazione a farlo (e soltanto dopo i patteggiamenti, dunque in controtendenza al giustizialismo becero), peraltro senza prendere querele o denunce, ma anche senza che nessuno dei cosiddetti siti internet o blogger di si azzardasse a riprendere le notizie per timore di fare informazione ed essere querelato.
Ecco tutto questo circo mediatico è segno di una denominazione troppo importante per essere adolescente.
Una denominazione che ha bisogno di uno gruppo unito di produttori con le idee chiare, che non banalizzino concetti e contenuti, che non parlino male l’uno dell’altro, che progettino il futuro della denominazione d’origine del vino italiano più famoso al mondo.
L’inchiesta sul Brunello è stata un forte momento di delusione personale.
Vorrei chiarire il perché con una recente notizia che è passata inosservata, la pubblicazione sull’American Journal of Enology, delle ricerche del prof. Vicenzini, microbiologo dell’Università di Firenze: il Sangiovese di Montalcino è stato finalmente profilato sotto un punto di vista degli antociani, dopo 6 anni di studi fatti con vari metodi di vinificazioni, annate, condizioni e terroir dell’intera Toscana. Si è dimostrato quello che sappiamo tutti, e che si era già dimostrato in occasione delle indagini della Procura di Siena per separare una partita dall’altra di quelle sequestrate: ossia che l’aggiunta di Merlot o Cabernet, anche se minima, altera in maniera evidente il profilo antocianinico del vino. Aggiunge un particolare tipo di antociani che non sono altrimenti presenti in quantità rilevanti nel Sangiovese. Ebbene gli studi del prof. Vicenzini sono oggi scienza, a differenza di quanto è stato affermato e riaffermato fino a qualche mese fa da alcuni produttori, avvocati, da ex direttori del vino di storiche riviste del settore o da altri frequentatori di chiacchiere.
Ecco, appunto qui sta la mia delusione: dapprima mi sento deluso da una comunicazione giullaresca dell’accaduto, poi da buona parte della critica che per due decenni anni ha esaltato Brunelli e Rossi che si è scoperto essere fatti in blend col Merlot dal 1985 (come attestano le schede di massa scoperte dalla Procura di Siena), e non ha saputo non dico fare giornalismo ché quello è un altro mestiere, ma nemmeno ha saputo fare autocritica, scusandosi di non aver capito il Sangiovese e i vini di Montalcino. E anzi in occasione d’un possibile cambiamento del disciplinare del Rosso, ha fatto un bel trenino e si è schierata contro il cambiamento perché faceva salvator patriae, con lo strombettio acritico dei siti internet, senza precisare che per anni è stata lei stessa, critica internazionale più nota, a favorire i vini più colorati e grossi premiandoli col massimo dei riconoscimenti: dunque le frodi e i possibili cambiamenti di disciplinare.
Di conseguenza sono stato un poco deluso anche dai produttori che hanno permesso e favorito questa tipo di comunicazione ipocrita o prezzolata, vantandosi in pubblico (ma lamentandosi in privato) che i loro vini finissero sulle pagine dei periodici accanto a quelli fatti con Lambrusco e Lancellotta (con cui si blenda il Sangiovese in Romagna e del resto anche la selezione clonale del Sangiovese fatta nei decenni precedenti ha portato ad avere cloni di Romagna perfino a Montalcino). Questo è anche un modo di tradire la denominazione. Alimentare un meccanismo perverso che premia la quantità e non la qualità, che favorisce professioni ambigue e stipendia la comunicazione.
Uno dei pochi che allora, in pubblico, ha invocato coerenza e onestà è stato Soldera. Che avrà pure tutti i difetti del mondo, ma di coerenza non manca, anzi ne ha pure troppa essendo caparbio: immaginate che è riuscito far servire nei suoi bicchieri (sapete che Soldera ha concepito dei bicchieri adatti ai suoi vini) i vini di Biondi Santi, tre giorni fa in occasione di una celebrazione tardiva del compleanno deui novant’anni di Franco. Ebbene è paradossale che ad invocare onestà e coerenza sia un produttore parvenu di Treviso che non è spaventato dalle guide o dalla critica, e che arriva ad amare Montalcino e i suoi vini soltanto dopo aver bevuto i grandi vini del mondo . A differenza di molti altri che hanno investito a Montalcino e sono divenuti vittime di taluni enologi. Ma in fondo forse vittime sono anche gli enologi che mancavano di una guida aziendale.
Ecco, per non tradire la denominazione di origine bisogna conoscere anche i grandi vini degli altri, per comprendere meglio le peculiarità dei propri. I vini di Montalcino sono vostri, il disciplinare è vostro, non dei critici o del Consorzio o degli enologi. La denominazione, la terra, i vini sono vostri, come avete saputo dimostrare con rifiuto a un cambiamento del disciplinare: appare comunque assurdo, a un occhio esterno, che ci siano produttori che debbano lottare contro i loro rappresentanti in Consorzio.
Non sono i giornalisti che vi devono aiutare mostrando o celando le magagne, siete voli che dovete evitarle e fare il cosiddetto sistema: solo unendovi strettamente potrete programmare un futuro di qualità, una strategia che permetta un catasto serio, una zonazione conseguente, e un albo dei vigneti che non accetti o induca migrazioni di ettari da territori di diversa vocazione come San’antimo, per poi dover cambiare il disciplinare per giustificarli.
Insomma la strada è ancora lunga, ma è la vostra, ed è comprensibile come il vino italiano più famoso al mondo, il Brunello, rappresenti tutta l’Italia nelle sue eccellenze gastronomiche: l’unicità dell’Italia. Il monovarietale è unico al mondo, un genius loci che racconta e induce a scoprire l’Italia. Sicché temo che dovrete dimostrate ancora di essere in tanti a puntare sul futuro del monovarietale. Occorre frenare le maldicenze fra produttori, che sono di moda in questo paese, e anzi bisogna promuovere meglio tutti assieme i vostri vini persuadendosi che siano fra i più buoni al mondo: questo evento è un buon segno. Ce ne potranno essere molti altri, ognuno di voi ne è responsabile: pensate solo a come sono stati celebrati i quarant’anni del Consorzio, cioè con una degustazione improvvisata e non comunicata. Bastano poche persone, e non servono miliardi, per fare un evento di qualità eccelsa cui si parli nei migliori periodici al mondo, non dimentichiamolo.
È tempo di fare chiarezza, con pubblicazioni e divulgazioni serie (e ricerche), sul vitigno Sangiovese, sui vigneti più vocati che ne permettono la massima espressione e sulle differenze fra di essi, sulla storia di un vino che sin dal Settecento è uno degli unici monovarietali d’Europa (anche se mai del tutto) assieme al Riesling: insomma non fu solo il Principe Abate di Fulda a decidere di piantare un unico cultivàr nel suo vigneto sotto un castello lungo le sponde del Reno.... E se consideriamo che si sente ancora (l’Ais insegna) parlare erroneamente di Sangiovese Grosso…
Bisogna smettere di agire come negli anni 90 quando si è fatto e venduto qualunque cosa. Occorre una pianificazione. Si pensi al Rosso di Montalcino, un vino dalle incredibili potenzialità a un costo contenuto, eppure dai natali infausti:
- Biondi Santi non menzionato tra i soci fondatori del Consorzio in quanto non entrò a far parte del il nascente Consorzio proprio per una disputa sul primo nome del Rosso (Rosso da Vigneti di Brunello), sull’etichetta e sul prezzo che dovevano essere uguali per tutti. Il padre putativo del Brunello rientra solo una decina di anni fa nel Consorzio. E perfino Fattoria dei Barbi, che alla nascita del Consorzio produceva oltre la metà del Brunello totale, non entrò a far parte del Consorzio.
- Soldera, uno degli interpreti più autorevoli di Montalcino, oltre che ricercatore indefesso (sta per piantare anche lui alberello) smise di fare il Rosso nel 1986 in quanto inflazionato e svilito dalle grandi case…
Ecco mi piacerebbe che questo passato ci insegnasse qualcosa, e la denominazione diventasse adulta e consapevole. Insomma un tutt’uno. Voglio concludere con una frase di un noto teologo (mi spiace ma quelli sono i miei studi e vecchio lavoro): in paradiso si va soltanto tutti assieme, all’inferno ognuno ci va per conto suo. Grazie.