Château Mouton Rothschild, premier cru bordolese, è sicuramente uno dei vini più famosi al mondo non solo per la bontà del vino, ma anche perchè ogni annata del Mouton è caratterizzata da un'etichetta realizzata da un pittore contemporaneo che, generalmente, viene dedicata alle vigne, al vino oppure, occasionalmente, per celebrare eventi storici.
La prima etichetta d'autore è del 1924, quando il barone Philippe de Rothschild chiese a Jean Carlu di disegnarla per le bottiglie di quell'annata. Poi una lunga pausa, fino al 1945, quando per celebrare la pace, la seconda etichetta fu commissionata a Jean Oberle. Da lì un crescendo, con il coinvolgimento degli amici del barone tra cui Dalì, Mirò, Chagall, Picasso ed Andy Warhol.
Che ne dite di vederne qualcuna?
1945- La prima etichetta
1958 - Salvator Dalì
1969 - Joan Mirò
1970 - Marc Chagall
1973 - Pablo Picasso
1975 - Andy Warhol
Non finiscono qua le sorprese perchè etichette sono state create anche dal Principe Carlo, nel 2004, e da Lucian Freud, figlio del più famoso Sigmund. Ovviamente tutti questi artisti vengono ricompensati con più casse di Château Mouton Rothschild. Se volete vedere tutte le etichette fino ad ora prodotte questo è il sito: http://www.theartistlabels.com/index.html
Nel vino, così come in tantissimi altri alimenti, non dobbiamo fare i conti solo i pesticidi, i pericoli alla nostra salute giungono anche da un altro nemico invisibile: i metalli pesanti.
La notizia è del 2008 ma, nel frattempo, non credo che le cose siano migliorate, anzi.
Uno studio pubblicato dal Chemistry Central Journal e coordinato da Declan P. Naughton, ha voluto indigare sulle sostanze contenute nei comuni vini da tavola bianchi e rossi prodotti in 15 Paesi distribuiti tra Europa, Sudamerica e Medio Oriente, per ricavarne indicazioni sui loro livelli di contaminazione metallica. La pericolosità di quest’ultima è stata valutata in base a un indice definito Target Hazard Quotient (THQ), originariamente messo a punto dall’Agenzia statunitense per la protezione ambientale allo scopo di stabilire i rischi per la salute comportati dai pesticidi.
Un valore del quoziente in questione che sia superiore a 1 rappresenta una minaccia alla salute, perciò i ricercatori sono rimasti sorpresi dalla constatazione che esso viene abbondantemente superato dai vini di 12 dei 15 Paesi presi in considerazione, con le virtuose eccezioni, per l’appunto, dell’Italia, del Brasile e dell’Argentina.
I principali metalli responsabili della contaminazione sono il vanadio, il rame e il manganese, seguiti dallo zinco, dal nichel, dal cromo e dal piombo.
La maglia nera dei vini che sanno di metallo va all’Ungheria e alla Repubblica Slovacca, dove il quoziente di rischio può superare il 350, ma non scherzano Paesi come la Francia, l’Austria, la Spagna, la Germania e il Portogallo, nei cui bicchieri nuotano ioni metallici in grado di proiettare le probabilità di una pesante bevuta oltre quota 100. Un po’ meno a rischio sono invece i vini prodotti in Grecia, Repubblica Ceca, Giordania, Macedonia e Serbia.
«In molti vini abbiamo riscontrato valori preoccupanti, senza differenze sostanziali fra i rossi e i bianchi», riferisce Naughton. «Un eccesso di metalli nella dieta viene associato a patologie come la malattia di Parkinson; inoltre, i metalli aumentano la probabilità di danno ossidativo, componente chiave delle malattie infiammatorie croniche e probabilmente di molte forme di tumore».
«I livelli di metalli dovrebbero essere segnalati nelle etichette», conclude Naughton.
Ohhhh e parliamo di etichetta allora, anzi, di retroetichetta!
Qualche blog si sta occupando in questi ultimi tempi di come dovrebbe essere quella del vino. La mia versione somiglia molto a quella delle acque minerali, vorrei un’analisi delle caratteristiche chimiche e chimico-fisiche del vino che mi dica se e in che quantità sono presenti le seguenti sostanze:
Fungicidi Diserbanti Acaricidi Regolatori di crescita Insetticidi Metalli pesanti
Questo sarebbe già un ottimo punto di partenza. Poi, come ha fatto il siciliano Bini, va benissimo inserire informazioni su eventuali prodotti aggiunti (lieviti, tannini, acidificanti, etc) o sulle pratiche di cantina (osmosi inversa, filtrazioni, etc,).
Vino al Vino, il blog di Franco Ziliani, ex Franco Tiratore, chiude o, almeno, è quello che scrive lo stesso autore nel suo sito internet.
Le motivazioni sono profonde, pensate forse da molto tempo, non è un ragazzino Franco.
Scrive testualmente che:"Non avendo chiare le idee sulla mia vita, non posso fare finta di niente e continuare a condurre questo diario in pubblico come se nulla fosse ed è lo stesso senso del mandare avanti un blog, raccontando molto di me come ho fatto e non limitandomi a parlare di vino, ad essere profondamente messo in discussione, a rivelarsi, in fondo, privo di senso. Questo anche se scrivere è la mia ragione di vita, l’unica cosa che, forse, so fare decentemente".
Non conoscevo Franco Ziliani di persona, ci siamo scambiati a volte qualche mail, un anno fa, quando vinsi il Blog Cafè, non mi risparmiò delle frecciatine. Non è amato da tutti, molto lo criticano più o meno giustamente, a me non interessa, quello che conta è che una voce libera su internet cesserà di gridare, di raccontare il vino. E questo ci renderà tutti più poveri.Nonostante tutto, caro Franco, ci mancherai.
Non vorrei che sia l’ennesima moda dove tanti, troppi, si sono buttati dentro senza un minimo di cognizione, non vorrei che, come accadde col nero d’avola, alla fine qualcuno sputtani quei i pochi, i Pionieri del Nerello, che con tanto amore stanno rilanciando un territorio.
Siamo in Sicilia, l’Isola del Fuoco come la definì Dante riferendosi all’Etna, un ecosistema unico al mondo la cui storia inizia con una lunga e suggestiva vicenda geologica, durata forse 500 mila o 700 mila anni, che ha dato origine alla regione etnea ed al vulcano più alto d'Europa. Un'area interamente costruita dal vulcano che nei secoli ha eruttato quantità enormi di lava.
Con l'aiuto del tempo, l'azione dell'uomo ha tenacemente sovrapposto al paesaggio lavico un paesaggio agricolo tra i più ricchi dell'isola dove l’arte di coltivare e lavorare la vite ha origini ed usanze antiche: nella "Storia dei Vini d’Italia", pubblicata nel 1596, venivano ricordati i vini prodotti sui colli che circondano Catania la cui bontà veniva attribuita alle ceneri dell’Etna.Oggi, a rendere davvero grandi questi vini, concorrono alcuni fattori: i terreni di origine vulcanica, a volte ciottolosi e ghiaiosi, a volte sabbiosi o meglio cinerei , le grandi escursioni termiche, che arrivano anche a 25/30 gradi tra il giorno e la notte ed infine l’età delle viti.
Qui troviamo alcuni dei vigneti più vecchi coltivati in Italia, addirittura più che centenari e ancora a piede franco.Anche se non mancano impianti a cordone speronato o a spalliera la forma di allevamento più usata, che è anche quella più tradizionale, è l’alberello arrampicato su tutto il monte con l'aiuto delle nere terrazze di pietra lavica, trova da secoli la sua ideale ambientazione.
L’areale dell’Etna Doc, prima denominazione di origine siciliana (1968), ha una forma semicircolare che si estende da nord a sud-ovest in una fascia che va da 450 a 1000 metri di altitudine sul livello del mare. La zona, suddivisa in contrade, ha il cuore vinicolo pulsante situato nei dintorni di Castiglione di Sicilia e Randazzo.
E’ in questi comuni che vengono allevati i tre vitigli autoctoni dell’Etna: il nerello mascalese e il nerello cappuccio per i rossi e il carricante per i bianchi. Il primo di questi, concorrendo per l’80 – 100% alla produzione totale del vino rosso Etna Doc, è sicuramente il vitigno principe della zona e si presume sia originario della storica Contea di Mascali, un vastissimo territorio che, a partire da alcune donazioni normanne del XII° secolo e fino ai primi dell’‘800, comprendeva, oltre all’attuale comune di Mascali, parte dell’Acese, gran parte delle falde orientali e nord–orientali del Vulcano e persino molte plaghe del messinese.
Vitigno difficile il nerello, molti lo paragonano al nebbiolo per la maturazione tardiva (2ª decade d'ottobre) e al pinot nero per quanto riguarda la sensibilità all’annata e al terroir di appartenenza. Roba tosta, insomma, per vignaioli veri, eroici, gli stessi presenti la scorsa settimana all’AIS di Roma dove è andata in scena una interessante verticale di Vini dell’Etna, un’occasione per capire chi fa sul serio e chi, invece, sta là solo per moda.
Ricordate il discorso che ho fatto all’inizio, vero? Ecco qualche appunto di degustazione.
Vivera – Salisire 2008: 100% carricante da produzione biologica. E’ un vino che ti strega per grande mineralità, salinità e freschezza. Forse gli manca un po’ di struttura visto che nel finale di bocca cede troppo e non si allunga.
Passopisciaro – Passopisciaro 2007: 100% nerello mascalese. Olfatto molto coinvolgente, c’è un bouquet di fiori contornato da tanta frutta rossa croccante. Bocca un po’sfuggente, manca avvolgenza e persistenza. Per i miei gusti scivola via un po’ troppo.
Passopisciaro – Contrada Chiappemacine 2008: 100% nerello mascalese da piante di oltre ottanta anni. Questo vino è figlio di una piccola Contrada sui 550 metri s.l.m., collocata tra strapiombi di pietra arenaria che la lava è appena arrivata a circondare. Diverso dal precedente, più complesso, profondo, lavico come dovrebbe essere un vino dell’Etna.
I Vigneri – Etna Rosso 2008: azienda interessantissima che produce un rosato davvero eccellente. In questa occasione ho degustato il loro rosso base da nerello mascalese e nerello cappuccio prodotto dai loro vigneti situati a varie altitudini. Naso inizialmente selvatico, poi escono le note dolci di fiori rossi, ciliegia, mora di rovo che, col tempo, si fondono ad un “amaro” dato da sensazioni di radici e pietra lavica. Bocca di discreta struttura e acidità. Un buona partenza che prelude a crescenti emozioni.
Biondi – Outis 2006: 100% nerello mascalese prodotto da vita di 40 anni di media. L’unico vino dell’Etna portato in degustazione con qualche anno sulle spalle. Vino di grande espressione territoriale, un vulcano all’interno del bicchiere visto che le sfumature aromatiche sono tutte di frutta rossa matura, catrame, cenere, polvere pirica, macchia mediterranea. In bocca è di grande equilibrio. Persistenza finale lunga giocata su ritorni di grafite. Questo è quello che mi aspetta da un vino dell’Etna.
Frank Cornelissen - MunJebel Rosso 2008: ha bisogno di poche presentazioni questo belga trapiantato in Sicilia che, nel produrre il vino, impara dalla Natura. Questo vino è un assemblaggio di vari vigneti (contrade) e varie annate di nerello mascalese maturo e selezionato. E’ un vino diverso dagli altri, è chiaro fin da subito, e lo si nota da subito perché inizialmente, pur essendo giovane, è terziarizzato nelle sensazioni di cuoio, di fiori secchi appassiti, poi esce il terreno lavico e la ciliegia matura. Bocca spiazzante perché a tratti acerba, mi ricorda quando metto in bocca la buccia e i vinaccioli dell’uva. Deve essere così questo vino? Mah!
Tenuta di Fessina – Musmeci 2007: prodotto in contrada Rovittello da uve nerello mascalese e nerello cappuccio di oltre 80 anni di età. I tre bicchieri verdi del Gambero Rosso e l’eccellenza della Guida ai vini de L’Espresso 2010 non posso essere un caso. All’olfattiva è ampio, fresco, disposto su sensazioni di viola appassita, geranio, frutta rossa croccante, humus, liquirizia, polvere di lava, rabarbaro. Bocca viva, tenace, di grande progressione e piacevolezza e persistenza. Il miglior vino della serata senza dubbio.
Degustato al volo anche il Quota 600 di Graci, sempre gradevolissimo, mentre la maglia nera della serata spetta a Cottanera col suo Barbazzale 2009 che aveva un naso dolcissimo da caramella Charms al lampone e una bocca sfuggente e contraddittoriamente amara. Bottiglia non in perfette condizioni?
Che lo Champagne non se la passi bene lo confermano i dati: le vendite totali di Champagne francese nel 2008 sono state di 322 milioni di bottiglie, registrando un calo del 4,8% rispetto all’anno precedente, mentre nel 2009 le esportazioni hanno subito un forte calo, circa il 9% in meno. Non mi sorprende, pertanto, che qualche Maison francese stia tentando tutte le strade per cercare di invertire il trend negativo. A tutto, però, c’è un limite e questo, dal mio punto di vista, l’ha superato Moët & Chandon, storica casa produttrice di Champagne che sta usando il marketing del vino nella maniera peggiore.
Il motivo di ciò? Eccovene due
Il primo si chiama Moët & Chandon Ice Imperial ed è uno champagne elaborato da Benoît Gouez ((chef de cave di Moët et Chandon dal 2005) per essere bevuto con giaccio o, se volete, « on the rocks ». Sarà distribuito presso i migliori stabilimenti balneari del mondo.Quindi da ora in poi lo Champagne sarà considerato alla stregua del San Bitter bianco?Non è finita qua.
Sempre per l’estate la stessa Maison lancia le “Summer Bubbles”, palle di Natale dorate che, aprendosi, nascondono frutta secca disidratata che, secondo loro, non aspetta altro che essere messa all’interno dello flute. E così abbiamo fatto pure la Sangria di lusso…
La Franciacorta e tutto il Trentodoc ringrazia sentitamente!
Spagna contro Germania, David Villa contro Miroslav Klose, passione latina in opposizione all’algidità teutonica, vini rossi mediterranei contrapposti a vini bianchi di grande freschezza.
Spagna e Germania, due mondi diversi tra loro che mi offrono lo spunto per parlare di Lopez De Heredia, storica casa vinicola spagnola, ed Egon Muller, “tetesco” di Mosella i cui vini possono raggiungere alle aste quotazioni incredibili.
Torniamo indietro nel tempo, siamo in Spagna intono alla metà del XIX secolo, Don Rafael López de Heredia y Landeta, un visionario studente di enologia, si innamora perdutamente del territorio di Haro, nella regione della Rioja Alta, dove trova una combinazione di clima e suolo che potrebbe permettere di ottenere grandissimi vini. E’ l’inizio. Nel 1877 inizia la progettazione e la costruzione della cantina che ancora oggi è conosciuta come Lopez de Heredia, un’azienda famigliare che da generazioni sta dando vita a al sogno di Don Rafael.
Oggi l’azienda si estende per oltre 54.000 metri quadrati, i vigneti, veri e propri cru che si chiamano Tondonia, Bosconia, Cubillo e Gravonia, occupano un’estensione di oltre 170 ettari con una produzione media annuale di circa 800.000 chili di uva, che viene vendemmiata anticipatamente, evitando problemi di surmaturazione e garantendo acidità e “equo” tenore alcolico. Perché amo (e segnalo) questa azienda? Perché per loro l’affinamento del vino è una vera e propria filosofia di vita, i vini rossi e, soprattutto, i vini bianchi sono fatti maturare per tantissimi anni in bottiglia: le annate particolari denominate “Gran Reserva” trascorrono in botte anche nove anni e mezzo e vengono imbottigliate, previa chiarifica con albume, direttamente dalla botti per poi trascorrere altri 8-10 anni in bottiglia prima di andare in commercio. Avete capito bene, oggi possiamo comprare tranquillamente un Viña Tondonia Tinto Gran Reserva 1991 come se fosse un nostro 2008.
Da uve Tempranillo (75%), Garnacho (15%), Mazuelo e Graciano (restante) nel bicchiere si presenta intenso di profumi mediterranei che vanno dalla frutta di rovo al tabacco da pipa, dal floreale di rosa al minerale più oscuro ed intrigante. Non finiremmo mai di trovare aromi.In bocca sorprende per quella freschezza ricercata in fase di vendemmia e per un’avvolgenza e una profondità che sono proprie solo dei grandissimi vini. Don Rafael aveva visto giusto.
Andiamo in Germania, da Egon Müller, la cui azienda, come la precedente, affonda le origini nel passato visto che Jean-Jacques Koch, il suo bis-bisnonno, acquisì la proprietà Scharzhof, dalla Repubblica Francese nel 1797. Egon IV, ex studente della Università di scienze applicate Geisenheim e attuale proprietario dell’azienda, ama definirsi un “viticultore servo della vigna”, una frase che riassume le caratteristiche della sua produzione che vieta in maniera assoluta l’uso di erbicidi, insetticidi e fertilizzanti chimici. Nella Saar l’azienda ha un totale di 16 ettari di vigneto, dei quali 8,3 (su 28 complessivi) nello Scharzhofberg, incastonato su un suolo di ardesia azzurra e grigia, e 4,5 nel Braune Kupp (posseduto in monopolio), i cui vini vengono imbottigliati con l’etichetta Le Gallais.La vinificazione viene fatta sia in acciaio (per i base aziendali) che in botti grandi (le tradizionali “fuder”, botti da 1000 litri), utilizzando solo lieviti naturali che devono operare, in fase di fermentazione, alla naturale temperatura di cantina, circa 10 gradi, portando avanti la vinificazione anche per molto tempo.
Sempre con un minimo residuo zuccherino, perché bisogna rispettare la tradizione, i vini di Egon Muller, soprattutto gli Auslese e i T.B.A, sono vini dalla grande longevità ed eleganza, purezza cristallina che si concretizza all’interno di una bottiglia di Scharzhofberger Auslese 1971, il cui dono ha lo stesso effetto di un pacco regalo scartato da un bambino a Natale: incredulità mista a gioia irrefrenabile. Questo Riesling è davvero un marziano atterrato sulla Terra, prendete tutte le sfumature della frutta gialla, declinate ogni specie di spezia orientale e fatevi assorbire dal minerale della sua anima. Il risultato di questa operazione è un vino immenso e profondo, senza se e senza ma. Un’esperienza extra-terrestre che ogni appassionato dovrebbe fare nella sua vita.
A vederlo sembra un quadrato composto da tanti puntini neri, ma se lo si inquadra con la fotocamera del telefonino, si trasforma e racconta tutto di sé.Si chiama Qr Code ed è l’abbreviazione inglese di «quick response» (risposta rapida), l’erede del “vecchio” codice a barre.
Come scrive Panorama, primo giornale ad aver utilizzato il codice a fini commerciali, il QR Code rappresenta oggi una sorta di trait d’union tra il mondo cartaceo e quello multimediale di internet. Una porta d’accesso a contenuti aggiuntivi che per la loro natura digitale non troverebbero spazio sulla carta e che invece arrivano, via web, direttamente sullo schermo del telefonino, basta avere un apposito software di lettura e la connessione internet. Una semplice inquadratura e quei puntini ci sveleranno un mondo fatto di link a siti web, frasi, brevi audio o video.
In Giappone li utilizzano già da dieci anni, addirittura è stata creata una struttura commerciale, la N building, dove per la facciata, per non deturpare l’ambiente con cartelloni vari, è stato usato un codice QR che, con la sua lettura, vi proietterà sul sito che comprende oltre la presentazione del negozio anche tutti i dati e le informazioni dello stesso.
Anche negli Stati Uniti il QR Code è diffuso da molti anni: Ikea, ad esempio, ha stampato il codice su una serie di volantini; basta fotografarlo e si ottiene un coupon di sconto da detrarre alla cassa. In Europa sta man mano prendendo piede: la Pepsi, in Danimarca, ha ideato affissioni e lattine con il Qr code. Chi lo inquadra ottiene una bibita gratis e le informazioni sui concerti che Pepsi sponsorizza a Copenaghen. Nel Regno, altro paese dove i tag bidimensionali stanno spopolando, l’uscita in dvd del film 28 Weeks later è stata lanciata, fra l’altro, posizionando un tag sul sito web del film e su affissioni outdoor nella città di Londra con l’obiettivo di incrementare la community dei fan del film. In Italia il Qr Code sta diventando solo oggi diffuso: Panorama, Ciak, La Gazzetta dello Sport ed altri giornali stanno usando il codice che troveremo, tra l’altro, impresso presso gli stand dei Presidi Slow Food al prossimo Salone del Gusto di Torino.
Ovviamente, non potevano mancare le applicazioni per quanto riguarda il vino. Immaginate di essere in un’enoteca o presso il vostro ristorante preferito, puntate il telefono sul codice e potrete avere tutte le informazioni possibili e immaginabili sul vino che state comprando o scegliendo dalla carta dei vini: la storia dell’azienda, le vigne, la cantina, gli abbinamenti e i premi saranno tutte informazioni a portata di clic, così come la possibilità di acquistare on line il vino a prezzi vantaggiosi qualora fosse di particolare gradimento.
Il mondo del vino sta man mano scoprendo l'utilità di questo innovativo codice: Rocca di Frassinello, Nino Negri, l'Azienda Agricola San Giovanni e, soprattutto, Il Mosnel, sono solo alcuni dei produttori che stanno tracciando la via verso un "nuovo" modo di comunicare il vino.
Ce la faranno? Personalmente la cosa non mi dispiace anche se, non essendo un amante del telefonino, trovo la cosa un pò frustrante. Ah, la tecnologia!
P.S.: il QR Code che vedete all'inizio del post dovrebbe essere quello del mio blog. Che mi dite se funziona?
Non facciamo gli ottimisti da quattro soldi, il terremoto in Abruzzo di un anno fa ha fatto e sta facendo ancora molti danni, sia materiali sia economici.
In questo anno molto personalità pubbliche e private si sono mosse per dare una mano ai residenti delle zone terremotate per permetter loro di rialzarsi nel più breve tempo possibile, per garantirgli un futuro, un’ancora di salvezza. Una di queste persone è stata Antonio Paolini, abruzzese e giornalista enogastronomico, che ha raccolto le grida d’aiuto di decine tra ristoratori e gestori di enoteche e wine bar che vorrebbero riaprire ma non possono, troppo il danno economico subito per via delle tante bottiglie rimaste sotto le macerie. La sfida Paolini la lancia qualche mese fa chiedendo la solidarietà dei produttori di vino. L’idea è creare una banca solidale del vino. I produttori che aderiranno manderanno 12 bottiglie della loro azienda e un comitato di “saggi” (sommelier, rappresentanti dei commercianti e delle guide dei vini) le distribuirà in base ai bisogni degli esercenti locali.
Bene, il sogno è diventato realtà perché proprio ieri ho letto su vari giornali che sono state raccolte oltre 1700 bottiglie da tantissimi di produttori italiani di vino e due consorzi, il Soave ed il Sagrantino.
Il 7 luglio, alla presenza delle autorità aquilane, di una delegazione del Comune di Teramo, del comandante della Caserma, il generale Fabrizio Lisi, e di alcuni produttori, tra cui il presidente del Consorzio del Soave, Arturo Stocchetti, e la Confraternita del Sagrantino, prenderà il via l'organizzazione della distribuzione.
Paolini ce l’ha fatta, un’altra goccia nel mare si è aggiunta.
Durante Radda nel Bicchiere, manifestazione di cui ho parlato qualche settimana fa, si è anche giocato grazie al seminario guidato da Carlo Macchi (direttore di Winesurf) dove, assieme ad altri appassionati, si è cercato di scoprire quali sono le differenze e le similitudini tra il nebbiolo e il sangiovese.
Sei i vini versati alla cieca nel bicchiere, tre grandi Barolo e tre grandi Chianti Classico di Radda erano sottoposti al nostro insindacabile giudizio che, alla fine, ha premiato quasi all’unanimità un grande nebbiolo, il Barolo Rocche dell'Annunziata2006 di Mauro Veglio che per me, ancora troppo lontano dal Piemonte, era un produttore che non conoscevo.
Figlio di contadini delle Langhe che hanno sempre venduto le loro uve sul mercato dei mediatori e delle grandi aziende commercianti, nel 1992 Mauro Veglio, prese le redini dell’azienda, decide di cambiare rotta seguendo l’esempio dell’amico e vicino di casa Elio Altare e inizia, con una drastica riduzione delle rese per ettaro, a produrre uva da vinificare direttamente nella nuova cantina.
L’azienda attualmente consta di circa 13 ettari, tra La Morra e Monforte d’Alba, e la produzione media annua è di circa 60.000 bottiglie. Nel vigneto i trattamenti sono ridotti al minimo utilizzando, quando serve, solo zolfo e verderame, o solfato di rame. Con un vicino come Altare che ha influenzato il modus operandi in cantina, la tradizione lascia il passo all’innovazione: macerazioni brevi a temperatura controllata nei rotofermentatori, nessun uso di lieviti selezionati, affinamento in piccole botticelle di rovere ed imbottigliamento senza ricorso a filtraggi o chiarifiche. Quattro sono i cru di Barolo prodotti quando l’annata lo consente: Arborina, Gattera e Rocche dell’Annunziata, situati a La Morra, e Castelletto, di proprietà della famiglia della moglie Daniela, nel comune di Manforte d’Alba.
Davanti a me ho il Barolo Rocche dell’Annunziata 2006, l’ultima annata di questo piccolo Cru (0.5 ettari) la cui produzione annua, nelle annate migliori, è di circa 1.800 bottiglie.Alla cieca non avrei mai riconosciuto il produttore, da un “non tradizionalista” che punta sulla bevibilità del vino ti aspetti nel bicchiere un Barolo piuttosto concentrato, rotondo, tutto tranne che “acido”. Errore! Il vino ha una bella vesta aranciata, trasparente, nulla che faccia capire che si è usato un rotomaceratore per quattro giorni. Il naso è davvero bello, il migliore della giornata, è davvero la quintessenza del nebbiolo con i suoi intensi, eleganti e persistenti aromi di scorza d’arancia, rosa selvatica, erbe, fieno, tabacco da pipa. In bocca l’impronta del produttore si fa sentire nell’ottima bevibilità, qualità surrogata da una struttura dinamica, profonda ed armoniosa. Ottima persistenza.
L’unico difetto? E’ un 2006 e forse è già “troppo” pronto per essere un Barolo. Staremo a vedere in futuro.
Appassionato:”Utilizzate prodotti di sintesi in vigna?”
Produttore:”Assolutamente no, pur non essendo un’azienda certificata Bio in vigna usiamo solo rame e zolfo e, in generale, solo prodotti organici. Ripeto, solo se c’è necessità, altrimenti non diamo nulla”.
Quante volte, durante le mie visite in cantina, ho sentito questo ritornello dalla maggior parte dei produttori che, in maniera più o meno convinta, non avevano timore a bollare come diaboliche tutte le pratiche volte ad usare pesticidi all’interno del loro vigneto.
Sono stato sempre fortunato oppure sono state tante le volte che sono stato preso in giro?
La risposta me la do ogni volta che leggo i risultati delle indagini tese a scoprire cosa mettiamo nel nostro organismo ogni volta che mangiamo e, in questo caso, beviamo un vino.
Il tema non è nuovo. Già nel 2008 se ne occupò la trasmissione Report all’interno della quale Francois Veilleret, esponente di Pesticides Action Network Europa, attaccò senza mezzi termini la grande produzione francese dichiarando testualmente: “Con i nostri colleghi europei abbiamo analizzato qualche decina di bottiglie di vino rosso e abbiamo mostrato che il 100% dei vini che deriva da viticoltura intensiva conteneva residui di pesticidi. In questo vino di Borgogna abbiamo trovato 5 differenti pesticidi. Questi, per esempio, sono possibili cancerogeni, ma anche questo, questo è tossico per la riproduzione e lo sviluppo del feto e questo interferisce con gli ormoni.Questo per la Borgogna. Per il Bordeaux abbiamo trovato una bottiglia contaminata con …uno, due, tre, quattro …9 residui differenti, un cocktail tossico. A livelli a volte molto alti come per questo Bordeaux di alta qualità, c’era un livello di Pirimetanil di 233,8 microgrammi per litro che è 2 mila 333 volte il limite ammesso nell’acqua, nell’acqua da bere, di rubinetto. Più di 2 mila 300 volte, inaccettabile per una sostanza classificata possibile cancerogena” Dopo due anni le cose non sono migliorate, anzi.
L’ultima ricerca pubblicata su Repubblica svela che, per quanto riguarda i prodotti derivati come il vino, su un totale di 1435 campioni, il 2,7% risulta irregolare (era pari a zero lo scorso anno) e ben il 9,3% (+2,8% rispetto al 2008) presenta più residui. In particolare vino e pane sono i prodotti che presentano le principali irregolarità: rispettivamente dell'1,9% e dell'8,8%. Invece, miele e vino presentano il maggior numero di residui. Tutto qua? No. L’indagine svela che in Friuli Venezia Giulia tre campioni di vino sono risultati contaminati da Procimidone, un fungicida considerato potenzialmente cancerogeno secondo l'Epa, l'agenzia di protezione ambientale degli Stati Uniti, ma non nell'Unione Europea. Da segnalare, poi, che fino al 30 aprile 2011 alcuni prodotti a base di Rotenone, un insetticida bandito dall'Ue, sono consentiti per l'impiego sulle colture di mela, pera, pesca, ciliegia, vite e patata. A tutto questo schifo aggiungo una provocazione per i produttori Bio: siete sicuri che il vostro vicino che bombarda il vigneto con tutti i pesticidi del mondo non stia contaminando anche voi?Purtroppo contro il vento che porta certe sostanze c’è poco da fare. O no?
Ah, dopo tutto questo, la risposta alla prima domanda mi è più chiara!!
Tempo fa avevo scritto su Percorsi di Vino che la chiave del vino o clef du vin rappresentava una vera e propria stregoneria che permetteva alla nostra bevanda preferita di ossidare e, quindi, di invecchiare col solo contatto della chiave. Su Youtube, oggi, è spuntata un'altra caz....ata enologica, una sorta di aeratore del vino che permette a quest'ultimo di ossiginare. Prima di dare giudizi guardate sto video.
Ma che schifo è? Sto tubetto messo dentro il bicchiere o la bottiglia? Sono sempre dell'idea di aprire, quando è il caso, la bottiglia di vino qualche tempo prima. Questi sono solo aggeggi per farci spendere denaro. O no?
1979, avevo cinque anni, giocavo ancora con le macchinine dei pompieri e vedevo i miei primi cartoni animati.
Ero piccolo e non mi ricordo bene quel periodo, ho memoria di anni di difficili, non solo in Italia ma in tutto il mondo: l'Unione Sovietica invade l'Afghanistan, Saddam Hussein diventa presidente della repubblica, in Iran torna al potere l'ayatollah Ruhollah Khomeini, tornato dall'esilio.
In Italia le cose non erano migliori: un commando neofascista irrompe negli studi di Radio CittàFutura e ferisce a colpi di pistola cinque conduttrici e dà fuoco ai locali, le Brigate Rosse uccidono l'operaio-sindacalista Guido Rossa, il giornalista Mino Pecorelli, direttore del settimanale «OP», è assassinato a colpi d’arma da fuoco, sono rapiti in Sardegna Fabrizio DeAndré e Dori Grezzi, durante il derby Roma - Lazio un razzo sparato dalla curva romanista colpisce e uccide il tifoso laziale Vincenzo Paparelli. I fatti positivi comunque non mancano e, se ci pensiamo, sono davvero bei ricordi: ha nevicato per mezz'ora nel deserto del Sahara, Nilde Iotti è la prima donna ad essere eletta Presidente della Camera dei deputati, Pietro Mennea stabilisce il record del mondo nei 200 metri piani con il tempo di 19”72.
L’altro fatto importante, purtroppo saputo solo qualche tempo fa, riguarda Franco Bernabei, giovane enologo rampante che proprio in quegli anni iniziò la collaborazione dalla famiglia Giuntini, Fattoria di Selvapiana , introducendo vere e proprie novità per quel periodo: la la vinificazione separata delle uve dei vigneti Bucerchiale, Fornace, Torricella, l’imbottigliamento di annate quali la ’67, ’68, ’69 che erano da una decina di anni in botte, e il rinnovamento dei legni che poi significò per prima cosa rivestire di rovere i vecchi recipienti di castagno. Il frutto di quel lavoro l’ho potuto apprezzare grazie ad Armando Castagno che, nell’ultima lezione del suo bellissimo corso sul Sangiovese, ha proposto un vero e proprio elogio all’invecchiamento di questo “nostro” vitigno.
Nel mio bicchiere è stato versato il Chianti Classico Riserva Bucerchiale 1979, un sangiovese in purezza che sprizza austerità da ogni molecola che sembra dotata di una squillante mineralità che si rigenera ogni volta che ruoto il bicchiere cercando di far aprire il più possibile il vino. Col passare del tempo escono le note più vive e solari di erba medica, fieno, camomilla, poi il vino torna ad essere scuro, sembra voler farci ricordare che è nato in anni difficili, ci fa tuffare in sensazioni di piombo e polvere da sparo. Che strana cosa. I n bocca l’età ha creato una scissione tra la vibrante acidità, vera colonna portante del vino, e un frutto aspro, non definito, che rende il sorso molto pungente e calmierato solo alla fine da note più morbide di cera d’api e scorza di agrume. Più bello al naso che in bocca sicuramente ma, nonostante tutto, che gran vino!
Dopo la nuova Doc toscana "Grance Senesi", ecco un altra importante novità nel mondo del vino di cui avevamo un bisogno fottuto: Pommery lancia una bottiglia esclusiva dedicata alla Nazionale italiana di calcio.Avete pensato ad una Jéroboam come quelle che usato i piloti di formula una quando vincono?
A parte il fatto che l'Italia di questi tempi è grasso che cola se pareggia, Pommery ha lanciato questo "esclusivo" Champagne nel pratico e originale formato da 20cl, praticamente meno del contenuto di una lattina di birra Peroni versione muratore.Il comunicato stampa dell'azienda francese continua sottolineando il fatto che è stato creato questo (mini) Champagne, vestendolo con i colori dell'Italia, per accompagnare la nostra nazionale ai Mondiali di calcio 2010, dimostrando così un grande amore per il nostro paese. Ma questa bottiglia tanto particolare, non è solo un simbolo beneaugurante, ma anche un oggetto da collezione. È stato prodotto, infatti, in edizione limitata.
POP Italia, così si chiama la linea dello Champagne, nasce dalla migliore selezione di venti cru di Pinot Noir, Pinot Meunier e Chardonnay della Côte des Blancs e della Montagne de Reims.
Visti i risultati della nazionale di Lippi chiederei alla Pommery di farsi i cavoli suoi la prossima volta e di pensare, invece, al Brasile o alla Spagna che ne hanno tanto bisogno.... Ah, se proprio devo bermi un Pommery in versione "Prosecco Nano", allora tanto vale stapparmi un ottimo spumante italiano da 0.75, costa meno e godo di più!
Non sono mai stato un estimatore del Lupicaia e, in generale, della produzione del Castello del Terriccio, un po’ perché non sopporto chi si fa strada sfruttando un suffisso, in questo caso –aia, che rimanda a successi enologici di altri produttori, e un po’ perchè non ritengo i loro vini così territoriali come sembrano.
L’occasione per ricredermi parzialmente si è presentata qualche settimana fa a Roma durante la verticale storica di Lupicaia organizzata dall’AIS e presenziata da Gian Annibale Rossi di Medelana, detto Pucci, e Carlo Ferrini, lo storico enologo dell’azienda.
Attualmente il Castello del Terriccio vanta 60 ettari vitati, che accanto alle varietà già indicate accolgono anche altre uve come lo chardonnay, piantato nel 1988, il sauvignon blanc nel 1989, immediatamente seguiti dalle due uve a bacca rossa che hanno fatto la grandezza della zona di Bordeaux: il cabernet sauvignon e il merlot. Syrah, petit verdot e cabernet franc completano la gamma di vitigni presenti ed impiegati nel tempo per sperimentazioni aziendali.
Il Lupicaia trae il suo nome di origine da un luogo del Terriccio in cui i lupi, in passato presenti nell'area, uscivano allo scoperto prima di assalire le prede; in gergo toscano si tratta del cosiddetto "balzello", cioè del punto in cui il lupo, uscendo dalla macchia, poteva essere ucciso prima di attaccare la preda; da "luogo della caccia al lupo" si passa quindi a Lupicaia. Questo teoricamente.
Effettivamente, e lo stesso Pucci lo ha candidamente ammesso, il nome non è altro che un richiamo al più celebre e blasonato Sassicaia targato Incisa della Rocchetta che, penso, non abbia fatto causa al proprietario solo perché suo fraterno amico. Tra fratelli di sangue blu non ci si tocca.
La verticale prevedeva un interessante excursus attraverso tredici annate di Lupicaia, dal primo millesimo prodotto, il 1993, fino ad arrivare ai giorni nostri.
1993: il Lupicaia era ancora un vino da tavola composto da cabernet sauvignon con un tocco di cabernet franc. Nonostante l’età ha un naso ancora integro, terziario, etereo ma non cotto, dove riconosco la prugna secca, l’arancia rossa, la nota minerale e un soffio balsamico. In bocca torna l’olfatto, tutto è equilibrato, sembra che il vino, con la maturità, si spogli di strutture non consone e riviva per una seconda volta, fresco e leggero si libra nel cavo orale. 1994: l’annata è stata medio bassa e il vino risente di una rapida evoluzione chiudendosi inizialmente e aprendosi col tempo su note scure, a tratti fumè. In bocca l’acidità è inferiore al 93 e, soprattutto, appare più slegata. Meno persistente ma più sapido del precedente. 1995: il vino diventa IGT. Ottima annata secondo Ferrini. Al naso il vini si presenta austero, complesso, con un corredo olfattivo di arancia rossa, toni ematici, humus, eucalipto. In bocca l’attacco è glicerico, morbido, poi ingrana la marcia e progredisce inesorabilmente verso intriganti note saline e frutta nera. Ottimo equilibrio e grande persistenza finale. Il migliore della serata.
1996: è l’anno della svolta, discutibile, del Lupicaia. Al blend si aggiunge il merlot e si sperimentano nuovi cloni di cabernet. Il colore diventa concentrato, naso e bocca diventano internazionali e il vino potrebbe competere per un concorso bordolese. Morbidezza evidente e gusto moderno sono le caratteristiche di questo vino. Ferrini e Pucci cambiano marcia, il Lupicaia perderò da adesso in poi quella sana e rustica pazzia delle annate precedenti. 1997: l’annata calda offre un vino carnoso, polposo, a tratti mi ricorda lo stile dei vini del Nuovo Mondo. Ed è tutto dire. 1998: simile al millesimo precedente anche se perde in complessità e dinamicità nonostante una austera centralità minerale . L’annata è più fresca della ’97 per cui il vino è più fresco anche se, forse, le note dure e morbide non sono così coese. Chiusura sapida. 1999: rispetto alle “nuove” versioni questa è la bevuta migliore perché il vino acquista complessità e, soprattutto, profondità grazie alle note di frutta nera di rovo, visciola, humus, tabacco mentovato, grafite, spezie. Bocca avvolgente e scandita da una trama tannica finissima, lunga la persistenza. 2000: prima grande annata calda per il Lupicaia che soffre molto le alte temperature. Il vino cambia il suo stile, dalla Francia passa alla California, l’impronta olfattiva e, soprattutto gustativa, è troppo lontana dal mio concetto di vino, soprattutto se parliamo di eleganza e finezza. 2001: fortunatamente il costume californiano è stato tolto e il vino torna ad essere degno di questo nome. Complessità di nuovo evidente che si gioca su due fronti: le note metallifere, austere, e le note di frutta rossa e di eucalipto, molto più eleganti e vivaci. Bocca di buona freschezza anche se le note tattili di astringenza del tannino giovane cominciano a farsi notare.
2003: annata calda e il vino soffre anche se Ferrini e Co& pare abbiano preso le misure e non si sono fatti prendere troppo alla sprovvista come nel 2000. Leggera sensazione ammandorlata nel finale che tradisce un legno non ancora perfettamente integrato. 2004: un vino di grande morbidezza dove ritrovo tutte le caratteristiche per un vino adatto ad un vasto pubblico: tanta frutta, tocco floreale e quel soffio di legno. Fortunatamente la vena acida è ben presente e il vino è godibile al sorso. Manca la freschezza della nota balsamica. 2005: è un vino da grigliata di carne, rotondo al punto giusto con note di spezie mediterranee diffuso e un tocco di tostato. Frutto in secondo piano. Sorso morbido, di buona freschezza anche se la persistenza segna il passo con questa annata. 2006: rispetto alle annate precedenti Ferrini riduce la base merlot ed aumenta leggermente l’apporto di Petit Verdot. Al naso e in bocca sento un Lupicaia ancora troppo giovane, potente sicuramente ma ancora troppo slegato e con le sensazioni tattili ancora da domare. In futuro riserverà, agli amanti del genere, buone sorprese.
Conclusioni: come facilmente si può evincere, il sottoscritto si fermerebbe alle prime tre annate del Lupicaia, le successive, vuoi per il caldo, vuoi per lo stile più “piacione”, non rientrano troppo nel mio DNA enologico. Da non sottovalutare il costo del Lupicaia che spesso in enoteca sfiora il centone…..
Tutte le foto sono state scattate da Andrea Federici, il Beone Fotografo. Grazie!
Sono diventati 37 i vini toscani doc (denominazione di origine controllata), che si aggiungono ai 7 docg (denominazione origine controllata e garantita) e ai 6 vini igp ( indicazione geografica protetta). Dal 14 giugno, con la pubblicazione della nuova denominazione sulla Gazzetta Ufficiale e l'approvazione del relativo disciplinare di produzione, si èinfatti aggiunto il “Grance Senesi”. Un vino che arriva a questo importante traguardo dopo la richiesta di riconoscimento, avanzata il 28 dicembre 2007 da parte dell'associazione promotrice, al Comitato Nazionale Vini e alla Regione Toscana.
La zona di produzione, particolarmente vocata alla coltivazione della vite, si estende nella parte sud – est della Provincia di Siena e comprende interamente quattro comuni delle Crete Senesi: Rapolano, Murlo, Asciano e Monteroni d'Arbia e in parte quello di Sovicille, per un totale di circa 1000 ettari di vigneti. Un territorio completamente circondato da aree dove vengono prodotti importanti vini come il Chianti Classico, il Brunello di Montalcino e il Nobile di Montepulciano, e che si sovrappone, in piccola parte, alla zona di produzione del vino docg Chianti Colli Senesi e il doc Val d'Arbia. Il termine “Grance” appare in molti documenti del 1300 negli estimi dell’Abbazia di Monte Oliveto ed identificava una sorta di fattorie fortificate poste a capo di vaste tenute agrarie che gestivano i cospicui possedimenti terrieri dello Spedale di Santa Maria della Scala di Siena.
La nuova denominazione prevede nove diverse tipologie di prodotto a cui si aggiunge la menzione riserva per il vino rosso. Cinque di queste riportano l’indicazione del vitigno in etichetta (canaiolo, sangiovese, merlot, cabernet sauvignon e malvasia bianca lunga). Il sangiovese è sicuramente il vitigno più coltivato nella zona e molto probabilmente rappresenterà il maggior quantitativo di prodotto della neonata denominazione (nelle tipologie previste: rosso, rosso riserva e sangiovese varietale). Il disciplinare proposto soddisfa la tendenza più recente del mercato perché vengono affiancati ai vini più tipici (rosso e bianco) alcuni vini a base di un solo vitigno adatti sia al mercato interno che al mercato internazionale. La Regione Toscana si era espressa favorevolmente alla nuova doc già nel febbraio del 2008, auspicando l'accoglimento della richiesta da parte del Ministero.«Abbiamo ritenuto importante valorizzare questa zona con una denominazione di origine – spiega l'assessore all'agricoltura Gianni Salvadori - perchérappresenta una garanzia per la qualità del prodotto e sancisce il suo legame con il territorio da cui trae origine anche sotto il profilo storico e culturale».