Pensieri sullo scandalo del vino al metanolo....

Un 26 Dicembre qualunque, un Santo Stefano con la pioggia e poca voglia di uscire anche solo per smaltire i bagordi natalizi. Un 26 Dicembre qualunque ho acceso il mio portatile per vedere sul canale Rai Comici qualche sketch divertente, di quelli che non fanno più alla tv di oggi, speravo di trovare qualcosa di Alberto Sordi, magari un Guzzanti d’annata. Invece la mia attenzione si rivolge verso un titolo “familiare”, il filmato si chiama “Brindisi Avvelanto” e come comico c’è Antonio Albanese. Di divertente, però, c’era ben poco, si trattava di uno sketch del 2005 tratto dalla trasmissione Report, una puntata incentrata sul vino, di quelle che ti colpiscono allo stomaco.
Albanese parla dello scandalo del metanolo, lo fa a modo suo, alternando il (molto) amaro con qualcosa di più leggero. Non ce la fa però a farmi sorridere, almeno non con me.
La storia forse la sanno tutti, però chi come me nel 1986 aveva dodici anni non ricorda certi particolari, magari il babbo cambiava canale per non far sentire certe schifezze ad un ragazzino. La storia fa rabbrividire. Tra il marzo e nell' aprile dell 1986, tra la Lombardia, la Liguria e il Piemonte, morirono avvelenate dal metanolo, componente essenziale per la formazione di vernici e combustibile, 14 uomini e 5 donne. Nello stesso periodo altre undici persone riportarono lesioni alla vista così gravi da diventare cieche mentre per due i danni alla retina e al nervo ottico sono permanenti.
Tutti avevano bevuto vino prodotto dopo la vendemmia dell' ' 85 dalle cantine della ditta Ciravegna di Narzole, in provincia di Cuneo. Nella loro produzione, che commercializzavano con 12 ditte diverse, padre e figlio Ciravegna avevano aggiunto quantitativi elevatissimi di metanolo per alzare la gradazione alcolica dopo che il metanolo, sgravato dall' imposta di fabbricazione, era diventato un veicolo di adulterazione più a buon mercato dello zucchero.
Un traffico messo in piedi nel dicembre ‘85, nel più assoluto disprezzo delle possibili, drammatiche conseguenze. Un strage.
Una strage che forse si poteva evitare se non fossimo sempre nella solita Italietta: a Narzole molti sapevano, molti per convenienza tacevano, nel 1984, ben un anno prima dei fatti, sull' onda di voci, sospetti e "si dice", l'unità operativa Repressione frodi di Treviso fece visita alle cantine dei Ciravegna. Ci trovarono dei bidoni di alcol etilico rosa, un miscuglio di alcol derivato dalla fermentazione della frutta e del vino. Percentuale altissima di metanolo. Chiesero spiegazioni, ma la risposta fu poco convincente: ci serve per lavare le botti. Ordinarono allora un sequestro conservativo del vino immagazzinato, lo analizzarono per ben due volte. Il responso: percentuale di metanolo di gran lunga superiore a quanto consentito per legge. Nei confronti dei Ciravegna partì una denuncia e il vino sofisticato venne distrutto. Che fine abbia fatto l' inchiesta, su quale tavolo si sia arenata, non è dato sapere.
Quel che è certo, purtroppo, è che Giovanni e Daniele Ciravegna, padre e figlio, titolari della ditta, hanno continuato imperterriti a fare il loro sporco lavoro fino ad arrivare, ripetiamolo, a 19 morti e 11 persone diventate cieche.
Come si erano procurati il metanolo? Il costo dell' alcol metilico è altissimo, per cui non sarebbe affatto conveniente "tagliare" vino di prezzo infimo (400 lire al litro) con un componente più caro. In realtà, gli inquinatori si servono dei "rifiuti" di distilleria, le "teste" e le "code" che rimangono dopo aver prodotto grappe o brandy. Sono liquidi ad alto tasso alcolico, con altissime percentuali di metanolo, che per legge dovrebbero essere distrutti. Evidentemente qualcuno invece rivende questi intrugli a commercianti di pari onestà, che li aggiungono ai propri vinacci fino a ottenere del "buon" barbera. Un’associazione a deliquere di bastardi che buttò nella crisi più nera l’intero comparto vitivinicolo italiano ma che, per fortuna, segnò anche la sua rinascita.
Da quel momento in poi tutto
(o quasi) cambiò, con la qualità si cerco di invertire la tendenza.

La giustizia lentamente e' arrivata. Per la strage del vino al metanolo sono state condannate dodici persone. Sedici anni sono stati inflitti a Giovanni Ciravegna; 13 anni e 4 mesi a Daniele Ciravegna. Giovanni Ciravegna, grazie però a vari cavilli legali, sconta circa la metà della pena. Esce dal carcere nel 2001.
Oggi, si legge in qualche intervista, fa ancora vino, per la sua famiglia e i suoi amici. Questa è l’Italia, un Paese senza anima se pensate che le famiglie delle vittime dopo venti anni ancora aspettano di essere risarcite.
Dopo un’ora circa finisce il mio 26 Dicembre, un Santo Stefano ora non più qualunque, ho rivissuto un pezzo di storia italiana, non ho riso di certo…

Il Franciacorta decreta la morte dello spumante?

Interessante l'articolo che ho trovato su Ansa.it dove si legge di un Maurizio Zanella molto determinato nel carcare di affossare o, meglio, di migliorare il concetto generale di spumante.
Lo spumante "é una parola morta, non esiste più. Perché è banalizzante; non si può fare di tutta un'erba un fascio, con dentro il dolce Asti, il fresco Prosecco e il più complesso Franciacorta. Meglio parlare di denominazioni, che valorizzano le specifiche metodologie di produzione, le aziende vitivinicole, le aree a vocazione spumantistica. Un valore aggiunto e di fatto una marcia in più anche nelle vendite all'estero dove è evidente che il vino vada trattato per zone d'origine".

A sancire il de profundis dell'espressione 'spumante' è il presidente del Consorzio di Tutela del Franciacorta Maurizio Zanella, in un appello-provocazione che trova già sponda nell'iniziativa 'Brindo italiano' promossa dal ministro delle Politiche agricole Luca Zaia. Centinaia di magnum da tre litri, con il nome dell'iniziativa e il logo del Mipaaf impresso sull'etichetta, sono state prodotte e messe a disposizione dai Consorzi, per la distribuzione alle principali trasmissioni televisive delle reti televisive nazionali e regionali per brindare in Tv con bollicine Made in Italy. Con 'Brindo italiano', sottolinea Zanella, "si è sdoganato lo stop allo spumante, espressione che non compare nelle etichette dove invece si parla di denominazione.

E si chiama finalmente per nome il prodotto, dando priorità all'identità, piuttosto che all'esigenza di fare massa critica". Tra Natale e la prossima Epifania le bottiglie vendute di Franciacorta ammontano a 4,5 milioni, prevalentemente ordinate al ristorante e in enoteca o scelte per i pacchi-dono.

Per il Franciacorta i consumi a fine anno sfiorano appena il 30% mentre per altre denominazioni può rappresentare quasi metà fatturato. Mentre le vendite 2009, commenta il presidente del Consorzio lombardo, "sono soddisfacenti, in linea con l'anno precedente. E in tempi di crisi mantenere le quote di mercato (all'88% con vendite in Italia e 12% quota export) e i prezzi, che mediamente al pubblico si aggirano sui 16-17 euro, è un bene. Con le vendemmia appena conclusa la produzione si attesta sui 13 milioni di bottiglie che andranno in commercio nel 2011. Ma Franciacorta - conclude Zanella - ha capacità potenziale di superare i 20 milioni di esemplari, sperando di proseguire questo trend di crescita a due cifre. Il 2009 si chiude inoltre con la felice e importante esperienza di impiego stagionale offerto ai cassintegrati della zona, reso finalmente possibile dai voucher".

Tutto giusto non trovate? Solo che questa cosa i francesi l'avevano fatta qualche decina di anni fa.....

(fonte: Ansa)

Dalla Calabria al Piemonte, un viaggio alla ricerca del buon vino quotidiano

Quando sei considerato esperto di vini tutti si aspettano a Natale che tiri fuori bottiglie strabilianti, costosissime, tali da confermare la tua fama da enosborone e da sciupa soldi.
Lo ammetto, l’ho fatto gli anni scorsi ma, quest’anno, le cose sono cambiate. Il motivo? Ho ritrovato dopo tanto tempo gli appunti che presi allo scorso Squisito 2009 e mi sono tornate in mente le parole di Luciano Mallozzi, docente AIS di Roma (che ora possiamo vedere anche alla Prova del Cuoco), che in una intervista diceva di essere “stufo” di bere sempre e solo grandissimi vini. Non si possono sempre stappare bottiglie di grande Solaia, Sassicaia, non possiamo ogni volta cucinare il capriolo perché abbiamo nel bicchiere un Barolo d’annata. Non si può bere sempre al massimo. Queste la parole che mi riecheggiano la vigilia di Natale, ogni tanto bisogna riscoprire anche il vino quotidiano, il vino franco, sincero, quello del focolare familiare e per alcuni il vinino. Detto e fatto.
Ripongo la mia Borgogna e tiro fuori due bottiglie “normali” anche se per me molto ma molto speciali. Il primo vino che apro si chiama “’A Vita”, un Cirò Doc Rosso Classico Superiore che mi è stato regalato da Francesco Maria De Franco, piccolo grande vignaiolo calabrese che, come tanti, ho conosciuto su quel bel social network che è Vinix. Francesco è venuto di persona a Roma per far conoscere il suo gaglioppo, ha lasciato solo per qualche giorno la sua vigna, adagiata sulle colline di Cirò, un posto a metà strada tra il mar Jonio e le montagne della Sila. La sua giovane azienda, Vigna de Franco, si trova su terre argillose e calcaree caratterizzate da favorevoli escursioni termiche, nella zona d’eccellenza della produzione vitivinicola calabrese, dove la vite è coltivata da oltre 2500 anni e dove Francesco, insieme alla compagna Laura, gestiscono i loro 8 ettari di vigneto in maniera biologica, nessuna sostanza di sintesi, solo rame, zolfo e agenti naturali, utilizzati con parsimonia per dar vita non solo al gaglioppo ma anche ad altri vitigni locali come il magliocco, il greco nero e greco bianco. In cantina le pratiche sono molto semplici e naturali: fermentazioni con lieviti indigeni e senza aggiunte di enzimi, decantazioni naturali e basso uso di solforosa. La naturalità, il rispetto delle caratteristiche varietali e l'espressione del territorio sono i loro obbiettivi e seguendo questi principi, è iniziata e prosegue la loro ricerca che ha portato ad oggi alla prima annate del loro primogenito, “’A vita”, un nome che è esprime quanto importante sia per loro questo vino, nato da uve gaglioppo di età media di 30\40 anni e che esprime al naso profumi netti, franchi, precisi di frutta rossa corroborati da una bella scia balsamica. Nulla di eclatante quindi, di così complesso, però tutto è ben definito anche se, dal mio punto di vista, “‘A Vita” è in un momento di chiusura e all’olfatto può dire molto di più. In bocca, invece, le cose cambiano, il vino è equilibrato, sapido e fresco e lascia la bocca vellutata. Bottiglia finita in un nulla. Bravo Francesco, continua così.

La seconda bottiglia che ho aperto è un Barbera che mi è stato donato dal proprietario di un agriturismo, Casa Scaparone, un posto fantastico a un tir di schippo da Alba, il mio primo viaggio in Piemonte targato 2007.
La bottiglia l’avevo messa là, sulla mia credenza, non pensavo l’avrei mai bevuto quel vino, bruttissima l’etichetta e non belli i ricordi che avevo delle bevute a Casa Scaparone. Il classico vino della casa regalato al turista. Vabbè dai lo apro lo stesso, ho pensato, almeno faccio spazio in casa, al massimo avveleno qualche parente in maniera subdola. E invece che ti esce da quella bottiglia? Un barbera per nulla male, con intensi sentori di frutta di bosco e ciliegia e la sua classica grande acidità che ben si è sposata con la maggior parte dei piatti che mia madre aveva cucinato. Vino semplice, diretto, un bel beive come riporta onestamente l’etichetta della bottiglia. Non me lo ricordavo così. Che il tempo lo abbia migliorato è indubbio ma anche il più ottimista non avrebbe pensato a questo risultato. Ah, anche questo è stato un vino volato via in un attimo.

P.S: per non farmi mancare nulla alla fine, col dessert, ho aperto una straordinaria bottiglia alsaziana ma, di questo, ne parlerò in futuro….

Un grande rosato siciliano: I vigneri - Vinudilice 2008

Durante lo scorso EAT-ALIA 2009, Sandro Sangiorgi ha tenuto un’interessante degustazione sui vini provenienti da vitigni allevati ad alberello.

Prima di entrare nel vivo della descrizione dei vini degustati vorrei spendere due righe (anche qualcosa in più) su questa particolare forma di allevamento della vite al fine di far capire a tutti di cosa stiamo parlando.
L'alberello è una modalità di allevamento della vite molto antica ed è diffusa in varie regioni dell'Europa e del Nordafrica laddove le condizioni ambientali rappresentano un fattore limitante che influisce sullo sviluppo della pianta. I principali fattori ambientali che condizionano tale scelta sono i seguenti:
  • basse temperature (Germania, Francia settentrionale);
  • clima caldo-arido (Spagna, Italia, Grecia, Nordafrica).

In Italia l'alberello è diffuso in particolare nelle regioni meridionali e nelle isole (specie in alcune zone della Sicilia), in vigneti non irrigui, sia in pianura sia in collina, e in vigneti di collina su terreni di bassa fertilità. Condizioni strutturali tradizionali che hanno influito sulla scelta di questa forma di allevamento sono la limitata estensione del vigneto e il basso livello di meccanizzazione, tipiche dei vigneti a conduzione familiare e integrati nella piccola proprietà contadina, la destinazione dell'uva alla vinificazione, il limitato fabbisogno di investimento per quanto concerne i sostegni.
L'alberello presenta diverse varianti, in relazione a condizioni ambientali pedoclimatiche e ad usi e costumi locali.

Il criterio di differenziazione si basa fondamentalmente sul tipo di potatura, ovvero sul numero di gemme lasciate, sul numero di branchette, sullo sviluppo in altezza del tronco e, naturalmente, sulle caratteristiche del vitigno.

Il Pàstena cita le seguenti tipologie:


Alberelli a potatura cortissima


A
dottato in passato in Calabria e Sicilia è oggi del tutto abbandonato. Le denominazioni di questa tipologia, facenti capo ad usi locali, erano testa di salice, capitozza, testa di cavolo. Questo sistema prevedeva il taglio cortissimo degli speroni, ridotti a monconi, in modo che la vegetazione sia sviluppata dalle gemme della corona, e si presta solo per i vitigni che producono tralci fertili da queste gemme (es. Carignan, Sangiovese, Zibibbo di Pantelleria).

Alberelli a potatura corta


Alberello a potatura corta, c
on speroni a 2 gemme (Paesi Baschi, Spagna).
È la tipologia più diffusa, in grado
di fornire buoni risultati in terreni poveri e con viti in grado di fruttificare sui tralci emessi dalle prime gemme basali. L'altezza del tronco varia dai 10 cm dell'alberello pantesco ai 40-50 cm dell'alberello a vaso.

Alberelli a potatura mista

Alberelli a potatura mista, co
n capi a frutto di 7-8 gemme (Andalusia).
Caratteristica comune di questi sistemi è la presenza
contemporanea di speroni e capi a frutto. I primi, tagliati corti, a 2-3 gemme, hanno la funzione di produrre i tralci da cui saranno selezionati i capi a frutto nella stagione successiva. I capi a frutto, che spesso assumono denominazioni tipiche secondo gli usi locali (es. stocco, archetto, partuto, rancinante, carriadroxia), hanno lo scopo di produrre i grappoli nella stagione in corso.

L'alberello, nonostante sia concepito p
er adattare la vite a condizioni ambientali difficili, oggi non è più diffuso come un tempo per due motivi; il primo è economico. Infatti, questo tipo di allevamento della vite è più costoso perché non consente la meccanizzazione e gli interventi agronomici sono quasi esclusivamente manuali. Inoltre per gestire questo tipo di vigneto necessitano conoscenze, capacità e professionalità specifiche e una lunga esperienza di vita vissuta sul territorio che non è oggi garantita da manodopera esterna.
L'alberello resta tuttavia una forma di allevamento adatta alle condizioni estreme o per esaltare specifiche doti di qualità del vitigno. A prescindere dai vecchi vigneti, ancora esist
enti, l'alberello è, ad esempio, una forma di allevamento adatta fronteggiare l'azione negativa dello scirocco in alcune lande della Sicilia, oppure per esaltare le doti di qualità dello Zibibbo di Pantelleria, coltivato sui suoli aridi e dell'isola battuti dallo scirocco, della Malvasia di Bosa, coltivata sui tufi trachitici poveri e siccitosi della Planargia, del Cannonau, vitigno che offre le sue migliori prestazioni qualitative sui suoli sabbiosi silicei dell'Ogliastra e di altre regioni della Sardegna, notoriamente poveri e siccitosi.

Detto questo, e inquadrato bene il contesto della degustazione, Sangiorgi,
rigorosamente alla cieca, ci ha versato sei vini, nettari sicuramente unici che, volta dopo volta, Percorsi di Vino tratterà in maniera particolareggiata al fine di rendere il dovuto onore ai vignaioli che li hanno prodotti.
Il primo vino che abbiamo bevuto è un rosato siciliano, prodotto da I Vigneri, azienda vitivinicola creata da Salvo Foti insieme ad un gruppo di viticoltori autoctoni etnei, con un solo intento: lavorare la vigna affinché i vini rappresentino l’espressione più genuina e tradizionale del territorio e della cultura etnea.
Questo consorzio di “alchimisti del vino” ha creato, come detto in precedenza, un rosato dal nome già intrigante, il Vinudilice, figlio della vigna Bosco (1300 m s.l.m.) dove sono allevate viti autoctone di Alicante, Grecanico, Minnella e altri minori.

La vigna, ultracentenaria, estesa 0,35 Ha
, è allevata ad alberello etneo con sesto d’impianto di m 1x1,equivalenti a 10.000 viti per ettaro.
La coltivazione è fatta a mano e con il mulo.

In vinificazione non sono utilizzati frigo, lieviti e filtrazione. Travasi ed imbottigliamento vengono svolti secondo le fasi lunari (e poi dite che non sono alchimisti).


Tornando alla degustazione vera e propria, pur non essendo un fan sfegatato di vini e vignaioli b
iologici/biodinamici,devo dire che questo rosato è davvero un gran vino, che stacca, purtroppo, dal 95% degli altri vini della stessa tipologia che si producono in Italia.
Per nulla banale già
al colore che più che cerasuolo sembrava essere un rosso scarico, il Vinudilice 2008 è un’onda si sensazioni aromatiche che prendono le sembianze del nocciolo di ciliegia, della fragolina di bosco, della rosa appassita, per poi, col tempo, virare verso spunti balsamici ed espressioni di idrocarburi e minerali.
Un rosato talmente complesso che può ricordarmi solo il Cerasuolo Valentini. In bocca il vino ha il carattere, l’impatto e il corpo di un rosso, la generosità alcolica (15,5%) è ampiamente equilibrata dalla sapidità, dal leggero tannino e d
alla notevole acidità donata da una delle vigne più alte al mondo.
Persistenza da record per un rosato. Circa 700 bottiglie prodotte per un costo che in enoteca si aggira sulle 30 euro. Se lo trovate compratelo senza indugio.

Aspettate, su Ebay c'è il vero regalo di Natale firmato Biondi Santi!!

Pensavate davvero che con il Serpico 1996 il venditore avesse toccato il fondo o, meglio, avessi vinto il premio come migliore faccia di .....bronzo?

Non avete visto
questo: un fantasmagorico Schidione 1997 della Tenuta Biondi Santi. Venduto su Ebay al modico prezzo di 5000 euro si può portare a casa questa bottiglia che, come dice il venditore stesso, comprende anche la consegna del certificato di autenticità.

Ritappatura e ricolmatura avvengono ogni venti anni con un'operazione assistita da un membro della famiglia Biondi Santi.


Come se dice a Roma, Edoardo caro, magna pure tranquillo che nun te squilla nessuno!!!!!


Ecco i regali di Natale che tutti noi vorremmo..

Il primo regalo che tutti gli enosboroni vorrebbero avere è questo bicchiere molto "creativo".

Si tratta del "piccolo cuore" un oggetto creato da Etienne Menueau, un designer francese che ha realizzato una rappresentazione astratta di un cuore umano compreso di atri, ventricoli ed aorta. Solo dodici modelli realizzati. Che dite, non c'è un regalo migliore per un sommerlier che faccia di mestiere anche il cardiochirurgo?
E che dire di questo fantasmagorico refrigeratore per vino, meglio se Champagne, creato da La Fraicheur, una ditta di Amsterdam che produce e commercializza questi contenitori refrigeranti. Cosa c'è di strano? Sono solamente intarsiati con diamanti veri o cristalli per un prezzo decisamente da nababbo. Bionda esclusa!



E per finire la cena di Natale cosa c'è di meglio di uno Champagnino tanto per sgrassarsi la bocca? L'idea per questo Natale, in tal senso, è un Dom Perignon Vintage 1995 White Gold Jeroboam, una creaturina lanciata sul mercato circa un anno e mezzo fa dal costo di circa 20.000 euro. Cosa non si farebbe pur di avere un grande vino inserito in un involucro di oro bianco?!!?!?!?


AUGURI DA ANDREA PETRINI

Gianfranco Soldera e il suo Intistieti 1992

Scrivere di Gianfranco Soldera e del suo vino è sempre complicato, troppo facile cadere nel banale e descrivere un’emozione già provata da molti. Ma chi è quest’uomo e perché è diventato un mito tra gli appassionati?

Gianfranco Soldera, trevigiano di nascita ma milanese di adozione, ha da sempre una personale idea di come debba essere un grande vino, un concetto, un obiettivo ed una passione che lo sp
ingono nei primi anni ’70 a cercare i terreni più adatti in Veneto, Piemonte, fino ad arrivare in Toscana dove rimane folgorato da 23 ettari di terreno incolto completamente abbandonati dai mezzadri che, tuttavia, si incastonava in un paesaggio di grandissima bellezza.

E’ il
1972, la genesi di Case Basse, un luogo che grazie a Soldera e sua moglie riprende vita, partendo dal recupero dell'architettura originaria dei casali toscani e salvando i muri a secco dove trovano rifugio e sito riproduttivo uccelli, micromammiferi, insetti, ecc. Allo stesso scopo posiziona nidi artificiali, per attirare animali che diventino stanziali, e impianta arnie. Si salvano gli antichissimi ulivi abbandonati, si piantano decine di varietà alberi da frutto, si programma la sistemazione di un bosco botanico, si costruisce uno stagno e un laghetto artificiale, il tutto controllato ogni anno da un ecologo di nome Sergio Abram..

Case Basse, un vero e proprio
microcosmo dove il lavoro è improntato principalmente sul vigneto, con tecniche culturali molto vicine alla biodinamica, nel totale rispetto delle piante e del terreno, in modo da ottenere uve perfettamente sane.

In cantina niente acciaio inox ma vinificazione nei classici tini di legno da 120 quintali costruite da
Garbellotto, fermentazioni senza controlli elettronici della temperatura che può durare anche 36 giorni e varia da tino a tino, macerazioni molto lunghe sulle bucce e solo lieviti indigeni che si sono formati negli anni attraverso una selezione naturale. Niente filtrature né chiarifiche, tanto tempo nelle botti (la Riserva 1983 c'è rimasta per 66 mesi), tanto affinamento in bottiglia. Alla fine, ogni anno , vengono prodotte circa 15.000 bottiglie di Brunello che Soldera giura stia di incanto anche con il pesce….

Questa volta, però, non voglio parlare del suo Sangiovese più blasonato ma del suo “fratellino minore”, quell’
Intistieti, che ho degustato nel millesimo 1992 che, essendo un’annata difficilissima, Gianfranco Soldera ha declassato ad IGT producendo un second vin sia dalla vigna Case Basse, sia dalla vigna Intistieti.

Nel mio bicchiere il vino si presenta di un colore granato molto vivo, segno di una materia ancora viva con un naso che, olfazione dopo olfazione, conferma una dinamicità davver
o interessante. Viste le (brutte) precedenti esperienze di altri amici “santi bevitori di Sangiovese” mi aspettavo un vino quasi dentro la bara.
Invece no, all'olfattiva il vino, pur con la sua grande terziarizzazione, si conferma interessante, inizialmente un po’ brodoso, carnoso, però cangiante di aromi e sensazioni che col passare del tempo si esprimono al meglio su note di fiori rossi secchi, frutta rossa disidratata e un tocco di terrosità e di minerale che fanno di questo sangiovese, tutto sommato, un vino che vuole essere scoperto.
I primi segni di cedimento dell’Intistieti si notano forse in bocca dove, nonostante l'acidità sia ancora vibrante, tagliente, questa ormai risulta scissa tutta la struttura del vino che sembra traballare come un castello di carta e che, solo nel finale, ha un inaspettato colpo di coda su toni di profonda mineralità.

Un vino certamente quasi giunto al termine della sua parabola discendente che, causa la pessima annata, non ha certamente tutta la longevità del tipico sangiovese di Soldera però, nonostante tutto, rimane un’ottima lettura dell’annata e un vino che può fornire certamente emozioni a chi coglierà la sua anima toscana che prende in tutto e per tutto le sembianze di quel grande artigiano che è Gianfranco Soldera.

Su Ebay col vino si fanno affari.....

Solitamente su Ebay non compro perchè non mi fido molto dei venditori e, soprattutto, non sono mai certi della conservazione delle bottiglie che spesso e volentieri provengono dalla vecchia soffitta della nonna oppure dagli scaffali posizionati sopra i camini dei ristoranti o, peggio, delle case di campagna.
Fatta questa opportuna premessa, girando sul principale sito di aste del mondo che ti trovo? L'affare del secolo!!!

Una stupenda, unica, fantastica magnum di Taurasi Feudi di San Gregorio 1996 al modico prezzo di soli 500 euro.
Avete capito bene, quasi un milione delle vecchie beneamate lire. Un affare no? Strano, anzi impensabile che il signor venditore, con zero feedback, non abbia venduto questo prezioso gioiello enologico italiano......................
E voi, avete esperienze positive o negative con ebay?

Il vino di Roma, 3000 anni di storia in mostra nella capitale

L’inestimabile fortuna del vino di Roma è determinata da fattori territoriali e climatici ed ha una sua storia: si incentra nelle Colline Romane, ha punti di forza nella zona del “Cesanese” e del litorale Nord, nella zona di Cerveteri.

Da queste parti il vino e la lavorazione dell’uva hanno radici antiche: già tremila anni fa le città e le corti più prestigiose del mondo erano inondate dal nostro vino, in particolare quello di Frascati a
bbondava sulle tavole più ricercate della nobiltà romana, ostentando una certa rivalità nei confronti dei vini francesi.

Ideata dal Comune di Roma, in collaborazione con il Sistema Colline Romane, l’esposizione Il vino di Roma – 3000 anni di storia, tradizioni e cultura vuole sostenere questa grande vocazione produttiva, esaltando gli aspetti qualitativi del prodotto odierno, quale frutto di un patrimonio di esperienze millenarie e fattore fortemente caratterizzante ed identificativo del territorio e della sua offerta.


L’inaugurazione è prevista per giovedì 17 dicembre alle ore 19.00 alla Domus Talenti di Roma, in via delle Quattro Fontane 113, dove la mostra resterà aperta ad ingresso libero fino alla cerimonia di chiusura di domenica 10 gennaio 2010.


Un percorso articolato in quattro periodi storici attraverso reperti archeologici, testimonianze letterarie, ricostruzioni d’epoca, pannelli, elementi multimediali, per far conoscere un territorio ed il suo prodotto più celebre: il vino nell’epoca preromana e romana, il vino delle abbazie e dei monasteri, il vino
dei principi, la viticoltura moderna e i vini del III millennio. Il 22 e il 29 dicembre e il 10 gennaio sono previste degustazioni gratuite per permettere ai visitatori di assaporare il vino di Roma.

“Il vino di Roma può rappresentare un grande biglietto da visita per la nostra città – ha detto Pietro Di Paolo, delegato del sindaco di Roma alle Politiche agricole, durante la conferenza stampa di presentazione, stamani in Campidoglio - è necessario lavorare su due direttrici: l’eccellenza e la promozione del marchio. Occorre quindi ripartire da una tradizione, quella del vino, per conquistare ampie e nuove fette di mercato”.


IL VINO DI ROMA
- 3000 anni di storia, tradizioni e cultura
Domus Talenti, via delle Quattro Fontane, 113 - Roma 17 dicembre 2009 – 10 gennaio 2010 Aperto tutti i giorni dalle 10.00 alle 19.00 - 24 e 31 dicembre fino alle ore 15.00 Chiuso 25 e 26 dicembre, 1 gennaio

(fonte: collineromane.it)

Con Cinzia Merli a Le Macchiole

E’ difficile racchiudere in poche righe le emozioni e le sensazioni di una giornata speciale passata in compagnia di persone altrettanto speciali, uniche.

La mia visita a
Le Macchiole è stata per certi versi travagliata, prima dovevamo andare in quindici a fine Novembre poi, causa slittamenti, sòle ed impegni vari, tutto è stato rimandato al 12 Dicembre, un giorno pieno di sole dove i soliti pochi ma buoni rimasti hanno bussato alla porta di Via Bolgherese 189.

Cinzia Merli è una della tante donne forti del vino, segnata da un passato di grande sofferenza per la scomparsa del marito Eugenio e da un presente ed un futuro davvero radioso, come il suo sorriso quando ci accoglie e ci saluta davanti all’entrata della sua azienda. Presentazioni di rito e via, subito in vigna per farci capire come sole, mare, terra e sudore possano dar vita a quei preziosi grappoli da cui nascono le varie gemme enologiche che prendono il nome di Paleo, Scrio e Messorio.
Le Macchiole, un’azienda che, ascoltando bene le parole di Cinzia mentre ci racconta la sua storia, è
caratterizzata da una storia fatta di scelte a volte difficili, spesso pionieristiche, scontri, grandi incontri (come quello con Luca D’Attoma), rinascite e sperimentazioni, tutto scritto e di facile lettura per chi guarda gli occhi di Cinzia non fermandosi alla mera apparenza.

Il nostro giro va avanti ininterrotto, tutto di un fiato, tra vigneti, cantina di fermentazione e barricaia per poi proseguire al piano di sopra, la sala magica, quella dove degusteremo l’ultima annata in commercio, la 2006.
Cinzia Merli è un’ottima padrona di casa, ci fa accomodare e inizia a stappare tutti i rossi, dal Bolgheri Rosso al Messorio, passando per il Paleo e lo Scrio. Qualche nota di degustazione? Ok ci provo.

Il
Bolgheri Rosso Doc 2006 dovrebbe essere il vino “base” della casa anche se, dalla parole della produttrice, si evince chiaramente che ha la stoffa e la complessità di un vino non così banale: da un blend di merlot, cabernet, sangiovese e syrah nasce un vino decisamente non piacione che si mette in mostra con profumi balsamici e di frutta rossa di rovo. Equilibrato e di bel corpo è un vino dalla persistenza inaspettata. Dalla serie se il buongiorno si vede dal mattino….

Il
Paleo 2006, 100% cabernet franc, è ancora una massa in divenire, giovane sia nei profumi, dichiaratamente vegetali e fruttati, sia alla gustativa dove possiamo apprezzare tutta la fanciullesca esuberanza mediata comunque da un’apprezzabile morbidezza di fondo. Da riprovare tranquillamente tra cinque anni.
Lo Scrio 2006, syrah al 100%, è un altro vino in divenire, inizialmente chiuso, si apre pian piano per poi regalare sensazioni di bacche di ginepro, prugna, pepe e toni leggermente affumicati. Bocca potente, avvolgente, forse ancora da equilibrare. Ottima la persistenza finale.

Il Messorio 2006 è un gran vino e lo si evince fin da subito in quanto, nonostante sia un neonato, è un vino godibilissimo già alla prima olfazione, al primo sorso. Un grande merlot, complesso, ricco di note che spaziano dalla frutta di bosco ai fiori rossi, dalla macchia mediterranea al minerale più intenso e scuro. Bocca di grande equilibrio, fresca e vellutata che invita al riassaggio ogni volta che osiamo posare il bicchiere. A detta di Cinzia una grande annata che, forse, sarà superata solo dalla 2008.

La nostra giornata prosegue e la truppa, con a capo Cinzia Merli che con felicissimo stupore si unisce a noi, si dirige verso Montescudaio dove ci aspetta nel suo ristorante “I Sapori di San Valentino” un vecchio amico del forum del Gambero Rosso: Luigi, in arte G
aina3 che ci apre le porte della sua osteria offrendoci un pranzo davvero luculliano: crostini misti toscani, acquacotta, linguine con porcini e piccione, cinghiale in salmi e (non ricordo il nome) un dolce di ricotta fatto al forno davvero eccezionale.

E da bere? Qua le sorprese aumentano perché Cinzia ci delizia con dei fuori programma davvero interessanti: Paleo 2000, Paleo 2001 e Scrio 1999 vengono versati e bevuti in pochissimo tempo. Torno per un attimo serio e dico questo: ottimi sicuramente i 2006 però, attualmente, sono dei bimbi in fasce, troppo presto aprirli e sicuramente troppo difficile e “pericoloso” giudicarli ora. Bevendo vecchie annate di Paleo e Scrio, come ho fatto in osteria, sicuramen
te si ha una visione d’insieme e più nitida delle cose, si capisce solo dopo qualche anno quanto grandi sono questi i vini prodotti da Le Macchiole, ognuno con le sue peculiarità, con le sue (tante) virtù e con le sue, se vogliamo esser cinici, “umane” imperfezioni.

Lo
Scrio 1999 ha un naso che incalza da subito con sensazioni di erbe aromatiche dove non facciamo fatica a riconoscere il timo, l’origano, il rabarbaro. Alle note di macchia mediterranea si accompagnano poi profumi di fiori appassiti (quando ho detto garofano Cinzia mi ha fulminato), frutta rossa matura e un tocco animale che si fa sentire sul finale. In bocca questo syrah è ancora una belva, grande struttura e potenza che non lo rendono di certo immediato e di facile beva anche se resta estremamente affascinante nel suo nervosismo caratteriale. Se continua a ruggire così andrà avanti ancora molti anni.

Il
Paleo 2000 (Cabernet Sauvignon 85%-Cabernet Franc 15%) è figlio di un’annata calda, caratteristica che certamente ritroviamo all’olfattiva con un naso profondo, scuro, un mix di note terrose, vegetali e boschive che ritroviamo anche in bocca, molto più verticale che orizzontale e che è intarsiata di tannini levigati e ben integrati nel frutto. Interessante la scia sapida finale.

Il
Paleo 2001 è un altro vino, non solo perché da questa annata è solo cabernet franc, ma soprattutto perché percepiamo all’olfattiva una freschezza che prima, giustamente, non percepivamo. Freschezza, dicevamo, e grande integrità di frutto con cenni di spezie e erbe officinali che lo rendono estremamente deciso e dai profumi intensi. Ampiezza, complessità ed equilibrio si fondono come strumenti in una grande orchestra. Lunga la chiusura finale. Un altro vino che mi fa sempre più convincere della grandezza dell’annata 2001, non solo in Toscana ma in tutta Italia.

Ora, uno per uno, vorrei ringraziare con tutto il cuore: Stefania, la mia dolce metà, perché mi se
gue con passione in ogni mio “capriccio” enologico; Loredana perché farsi Trento – Bolgheri e ritorno in due giorni è un sacrificio tremendo; Paolo, mio cugino, perché almeno stavolta non ha detto che il vino sapeva di antibiotico; Enrico, per la sua passione, garbatezza e perché è l’unico che mantiene sempre le parole date. Infine un fortissimo abbraccio, in questo caso da parte di tutto il gruppo, va a Cinzia Merli, una persona che non conoscevo prima di qualche giorno fa e che ci ha letteralmente rapito per la sua gentilezza, accoglienza e professionalità. Una produttrice che non si è risparmiata nel raccontarci storie di vita e di vite e che, nonostante le tre ore passate in tra vigna, cantina e degustazione, è venuta a pranzo con noi facendoci scoprire un altro lato del suo essere con la voglia di continuare questa (spero) piacevole conoscenza reciproca.

Alla prossima, forse a Marzo per degustare un nuovo Scrio 2008…

A Milano nasce l'outlet (spero temporaneo) del vino....

Non ci sono stato essendo di Roma ma secondo me è una boiata, soprattutto se il tutto è concepito come è stato scritto il seguente comunicato stampa. La notizia delle ultime ore è che è stato aperto l'Urban Xmas temporary store di Milano, il primo outlet italiano natalizio dove vino e shopping si fondono in armonia.

Un'idea questa che nasce dalla collaborazione tra Pasqua vigneti e cantine, l'azienda veronese nota a livello mondiale per la produzione di pregiate bottiglie ed etichette (nemmeno fosse Biondi Santi...), e Saro Trovato, mood maker di professione, costruttore di emozioni per Found!, la società italiana specializzata nel mood marketing store (ambè allora...)

L'obiettivo? Non solo quello di far scoprire ai clienti consumatori - fino ai primi giorni del 2010 - un nuovo modo di vivere gli acquisti, trascorrendo una pausa di intrattenimento e gusto, ma anche quello di promuovere la cultura del vino e del "bere consapevole" (WOW fichissimo).

Ecco quindi che si può curiosare nel reparto shopping, tra capi d'abbigliamento, oggetti hi-tech, design, marche e loghi più cool, per poi fermarsi nel Pasqua Lounge, per degustare i vini e gli champagne più modaioli degli ultimi anni (ah ecco come si fa cultura del vino, bevendo gli champagne più cool, ohhhhh yesss), come un flute di Prosecco, un Amarone o un Primitivo di Manduria (ambè una cantina veneta che produce anche Primitivo è tutto un programma....).

Il tutto a prezzi da outlet (e te credo), nonostante il lusso e il gusto esclusivi. "Un'esperienza oramai di tendenza negli Stati Uniti - afferma Filippo Cassabgi, direttore marketing e comunicazione di Pasqua vigneti e cantine - dove per rilassarsi dopo lo shopping ci si ritrova davanti a un calice di vino, ma che a Milano acquista naturalità e gusto grazie ai prodotti e al mood made in Italy".

Non resta allora che testare immediatamente - visto le imminenti feste - l'accoppiata vino e acquisti, da soli o in compagnia, a qualsiasi ora del giorno, dalle 9 alle 22.

Ah, se proprio volete fare acquisti(?) negli outlet del vino segnalo anche Settedecimi, un presunto store enologico che vende vino la cui qualità e il cui prezzo lo potete verificare da voi.

Io, di certo, non ci comprerei nemmeno uno spillo.....

Vi prego, se siete di Milano ci passate e mi fate sapere?

P.S.: in grassetto i miei commenti....si era capito???

Un grande Chianti Classico firmato Monteraponi


Radda in Chianti, ovvero un piccolissimo fazzoletto di Toscana dove possiamo trovare, nell’arco di pochi chilometri, grandissimi vignaioli.
Radda in Chianti, un territorio che si estende tra le valli dei fiumi Pesa e Arbia e che sorge in posizione elevata, tra i 283 e i 845 metri sul livello del mare (monte Querciabella), donando alla vigne, come si può facilmente immaginare, una grandissima escursione termica.
Per comprendere la magia di questo angolo di paradiso (basta vedere le foto) riporto le parole che Franco Traversi, grande esperto di Sangiovese, scriveva qualche tempo fa sul forum del Gambero Rosso: abbandonata la strada provinciale inizia uno sterrato che porta a Monteraponi, un antico borgo medievale del 998, situato sul poggio omonimo, appartenuto al Conte Ugo Marchese e governatore di Toscana sulla fine del X secolo.

La famiglia Braganti ha acquistato questo borgo nel lontano 1973 e, inizialmente, non era interessata alla produzione del vino, tanto che decise di dare le vigne in comodato all’azienda “Le Fioraie” fino all’anno 1997; in seguito dall’anno 1997 fino al 2002 fu venduta l’uva all’azienda “Ruffino”, mentre è solo dal 2003, l’annata della svolta, che hanno ricominciato ad imbottigliare con il proprio marchio “Monteraponi”.





Monteraponi si trova ad un’altezza di circa 470 metri s.l.m., all’interno di un’ampia vallata dalla quale si intravedono in lontananza le vigne del castello di Ama e dell’azienda Livernano, dove può vantare attualmente circa 10 Ha di vigna, alcuni ettari di ulivi, intorno poi tutto bosco per altri 110 Ha. Le vigne più basse a circa 400m, le più alte a 550 m, dei 10 Ha di vigna la più vecchia ha all’incirca 35 anni, e sono 5 Ha con sesto d’impianto 270 x 1 metro; i restanti 5 Ha sono state impiantati nell’anno 2.000, sesto d’impianto 250 x 70, per Ha 5.500 piante con i nuovi cloni del Chianti Classico.
Il sistema di allevamento
è a cordone speronato e archetto toscano, ma l’intenzione è passare al Guyot grazie alla consulenza enologica del bravo Maurizio Castelli.


Il tipo di terreno è di natura calcarea appenninica (Alberese), ricoperta spesso da macigno schistoso alterato, noto in Toscana con il nome di Galestro.
La cosa che colpisce di più di questo giovane imprenditore,
Michele Braganti, è la chiarezza di idee: nella sua azienda i vitigni sono solo 3, ossia, Sangiovese, Canaiolo e Colorino e, inoltre, c’è un grande rispetto per la natura visto che si punta molto al biologico e in cantina non vengono usati né lieviti nè filtrazioni. La vinificazione è molto funzionale, viene usato in maggioranza il cemento sia per la fermentazione alcolica, che mediamente dura circa 25 giorni, sia per la malolattica. L’affinamento avviene prevalentemente in botte grande di rovere di Slavonia e solo parzialmente, un terzo, in barrique usate.

Torniamo a noi e al nostro Chianti. Il vino che ho degustato si può dire che è assolutamente virtuale, non tanto perché ancora non commercializzato ma, soprattutto, perché rappresenta un campione da singola botte nella qu
ale è stata vinificata esclusivamente l’uva della vigna più alta, quella a 550 m.
Un privilegio per poche persone, quelle presenti al Corso sul Sangiovese dell’AIS Roma, ma che ci farà capire bene, una volta miscelati tutti i vini di tutte le botti, di cosa mai potrà essere questo Chianti Classico Riserva 2007 Monteraponi.



Al naso c’è un’esplosione aromatica, un divenire di sensazioni ed emozioni che difficilmente si può dimenticare: visciola, frutti di bosco, rosa, viola mammola, spezie dolci e, quello che più conta, tanta tanta territorialità derivante da un bellissimo minerale che ti entra nell’anima e se ne impossessa. In bocca è stupendo quanto al naso, esibendosi con forza ed equilibrio e, cosa più importante, grandissima freschezza, una vivacità che solo una vigna ad oltre 500 metri di altezza può fornire. Persistenza lunghissima su toni minerali di roccia e frutta rossa croccante.

Ragazzi appena esce questo è nostro!

La foto di Michele Branganti è presa dal sito
http://www.flickr.com/photos/burde/2556551635/

Frode sui vini: lo scandalo si allarga?

Vi ricordate quanto scritto da me due post fa?
Bene, le cose sembra stiano peggiorande perchè ho trovato quest'altro articolo su internet: secondo il sito leggimi.eu nelle mire della GdF per frode in commercio alcune aziende del Chianti Docg e dell'Igt Toscano, ma non solo. Sono 17 gli indagati e 42 le aziende vinicole coinvolte nel Centro-Nord Italia. Gli indagati, secondo la GdF di Siena, reperivano 'sistematicamente enormi quantita' di vino non rispondente al disciplinare (Igt o Docg), anche di bassissima qualita', per poi procedere a miscele per un quantitativo stimato pari a circa 10 milioni di litri'. Queste venivano poi rivendute sul mercato con denominazioni di pregio .Le aziende coinvolte risiedono in gran parte in Toscana e in Abruzzo, Trentino, Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna.

La Denominazione Comunale e il Vino Nero di Scansano

La Denominazione Comunale (De.Co) rappresenta uno dei sogni di Luigi Veronelli (l’altro è quello del prezzo sorgente) un uomo geniale che per tutta la sua vita ha cercato di cambiare le spinte alla globalizzazione introducendo concetti “puri”, legati alla semplicità delle produzioni della “terra-madre”, come appunto le Denominazioni Comunali.
Ma di che si tratta? Le De.Co. rappresenta un'identificazione che attesta l'origine del prodotto enogastronomico o artigianale a livello comunale, di cui si certifica la territorialità e quindi l’unicità stabilita da una serie di fattori non trasportabili o riproducibili in altri luoghi dettati dall’universo socioculturale ed economico di quella specifica area, in cui tradizione e storia legittimano l’intera filiera produttiva.
Attraverso una semplice delibera comunale il Sindaco certifica la provenienza di ogni prodotto della sua terra” così Luigi Veronelli spiegava la De.Co. e in tale modo ha proceduto la Giunta comunale di Scansano che, su mandato del Consiglio comunale, ha deliberato l'adozione della Denominazione Comunale salvaguardando e valorizzando in tale ambito le attività agricole ed artigianali tradizionali tra le quali, ovviamente, c’è la promozione e la produzione del vino rosso, vanto da sempre della tradizione agricola scansanese.

Sinteticamente, l’allegato B della delibera, all’articolo 2, prevede e disciplina la definizione del Vino Nero di Scansano De.Co. (non si parla più quindi de l “semplice” morellino di scansano) stabilendo che tale vino dovrà essere prodotto da uve a bacca nera che abbiano i requisiti previsti dal disciplinare di produzione che è dettagliato successivamente.

L’articolo 3, infatti, prevede che il Vino Nero di Scansano De.Co. viene ottenuto dalle uve provenienti esclusivamente dai vigneti composti nell’ambito aziendale esclusivamente dei vitigni Sangiovese, Alicante, Aleatico, Ciliegiolo, Canaiolo nero, Caprugnone, Mammolo, Nero francese e Colorino. Il Sangiovese dovrà essere presente con un rapporto tra il 65% e l’85% mentre gli altri vitigni in proporzione residuale e variabile in base al comma 2 dello stesso articolo. La zona di produzione delle uve, di elaborazione, invecchiamento ed imbottigliamento comprende il territorio amministrativo del Comune di Scansano, in provincia di Grosseto.
Scorrendo velocemente la delibera, inoltre, si nota che:
  • Il disciplinare di produzione prevede una vinificazione con maturazione sulle bucce di almeno 10 giorni;
  • Le bottiglie da 0.75 devono pesare al massimo 450 grammi;
  • È ammesso solo il tappo a sughero;
  • Sono giudicati idonei alla coltivazione solo i vigneti acclivi;
  • Il foglio mappale e la particella devono essere riportati sulla bottiglia;
  • Il sesto di impianto deve prevedere al massimo 5000 viti per ettaro per una resa non superiore ai 75 quintali per ettaro.

Tutto perfetto? Ovviamente no perché, come ha scritto Gianpaolo Paglia su Vinix, qualche passaggio non è ben comprensibile come il fatto che la bottiglia debba pesare 450 grammi (cosa c’entra questa cosa con la qualità del vino non si sa) e come la regola del sesto di impianto a 5000 ceppi/ha che, sempre secondo il produttore, risulta inusuale rispetto agli impianti di nuova generazione che prevedono un minimo di 5680 piante/ha. Io aggiungo anche questo: come mai non si parla e non si disciplina rigorosamente l’uso di pesticidi nei campi? La cosa verrà presa in considerazione solo successivamente?

Come al solito chi vivrà vedrà...