di Carlo Macchi
Ci sono bottiglie che segnano momenti particolari e questa magnum di Terrano di Beniamino Zidarich ne incarna uno preciso. Siamo all’inizio del nuovo millennio e Benjamin, persona di una dolcezza e disponibilità uniche, aveva da poco fatto il grande passo, quello di lasciare il posto fisso in fabbrica per dedicarsi definitivamente alla sua, allora microscopica, cantina sul Carso.
Una volta presa la decisione però le cose si erano mosse in fretta e ricordo ancora lo stupore con cui mi affacciai sul “buco”, che sarebbe diventato la sua attuale cantina. Bisogna sottolineare una cosa: in Carso la terra è un dono celeste e, se va bene scavando ne hai 50 centimetri: poi è tutta roccia e quel buco quasi quadrato non era scavato solo nella roccia ma nel coraggio di un ragazzo che aveva scelto la sua strada e vi aveva messo tutto se stesso, anche e soprattutto dal punto di vista finanziario.
Si dice che la fortuna sia cieca ma la sfiga ci veda benissimo e quindi ecco arrivare una vendemmia come la 2002: fredda, piovosa, difficilissima, specie per un vitigno/vino particolare come il Terrano.
I miei amici triestini mi hanno sempre detto che il Terrano in passato era un vino che doveva essere bevuto in quattro persone: due ti tenevano fermo e uno ti infilava il vino in gola. In effetti quest’uva è della famiglia dei Refosco e da questa varietà, complice anche la roccia carsica, ha sviluppato l’acidità, in certi casi quasi insostenibile. Ma se l’acidità era (ed è) il suo “pregio” la mancanza o quasi di tannini era il suo cruccio e da molti questo vino è sempre stato considerato, nella migliore delle ipotesi, un rosso da bersi giovane.
Quindi ricapitoliamo: un Terrano (vino da bersi giovane) di un’annata difficilissima per i rossi.
Mentre mi giro la bottiglia tra le mani noto due cose: la retroetichetta è quella di una bottiglia bordolese (probabilmente anche l’etichetta, ma allora Beniamino di magnum ne faceva pochissime e questa è stato un regalo) e il vino arriva a malapena a 11.5°. A questo punto non posso non stapparla, anche perché davanti a me ho nientepopòdimenoche Burton Anderson, anche lui incuriosito da questo vino e dalla sua storia.
Anche se avevo e ho grande fiducia nei vini di Beniamino mi aspettavo, nella migliore delle ipotesi, un rosso piuttosto stanco che, attaccato alla sua acidità, stesse tramontando con onore. Invece…
Un bel rubino, brillante anche se non intenso, mi ha fatto capire subito che il vino non accettava impunemente i 20 anni e la vendemmia sfigata.
Addirittura contrattacca al naso con, accanto a note di terra, funghi e erbe officinali, chiare note di lampone e ciliegia. Naso ancora integro e complesso quindi, ma è in bocca che il vino sorprende tutti, non solo grazie a un’acidità modulata e stimolante ma anche appoggiandosi a una tannicità spargola e suadente che rende il sorso equilibrato e molto lungo. Lo beviamo e lo ribeviamo con piacere accanto a un menù che, partendo dai crostini e arrivando al cinghiale in umido, più toscano non si può. A distanza di venti anni non posso che dire “Grazie Beniamino!”
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