di Stefano Tesi
Guai a parlar male delle vecchie zie. Anche di quelle che quando andavi a trovarle ti inchiodavano col rosolio e i racconti della Belle Epoque, se poi tra tante cianfrusaglie ti lasciavano bottiglie d’epoca di cui ignoravano il valore e che quindi avevano conservato per un’esistenza intera – e bene o purtroppo anche no, sempre involontariamente si capisce – nella fresca penombra di un’odorosa cantina. Se poi le bottiglie in questione oggi si rivelano d’epoca davvero, diciamo con più di mezzo secolo di vita, l’affare si può ingrossare. Al netto dei fatali rischi naturali dettati dall’età, si capisce.
Così l’ha prelevata, tra i lasciti, un mio caro amico, nipote di cotante zie.
E ha deciso di testarlo con e la sua famiglia.
Dopo breve ricerca , del vino ho scoperto esistere due versioni, una intestata agli “Antichi poderi dei Marchesi di Barolo” e un’altra, quella de quo, intestata alla Vinclap (acronimo di Vini Classici del Piemonte) con riportato in etichetta “Antichi poderi dei Marchesi di Barolo”. Non ho avuto modo né tempo di indagare più a fondo e di capire le differenze tra le due varianti, né sulla pur intrigante questione della quotazione (in rete si va dai 150 ai 300 euro) delle bottiglie, perché mi pareva inutile e perfino irrispettoso verso un vino di quasi ottant’anni, sopravvissuto a una guerra e che, lo sottolineo o anzi di più, si è rivelato alla fine non solo bevibile, ma perfino godibile. Il che, per tante comprensibili ragioni non era affatto scontato.
Il livello del liquido pareva accettabile e ciò era incoraggiante.
La stappatura, eseguita con mille cautele, è stata più semplice del previsto. Il tappo, per quanto assai corto rispetto agli standard odierni, si è rivelato sostanzialmente integro.
Io e il mio amico abbiamo officiato alla cerimonia sospesi tra l’emozione, la curiosità e i timori. Sulle prime, portato al naso il vino pareva andato, nonostante il colore ancora relativamente pieno e vivo.
Mai, però, dare per morti i grandi vecchi.
Si decide così di concedergli fiato per un’oretta. Diciamo una rianimazione.
E lui risorge. Quasi resuscita, direi.
Lo fa ovviamente come fanno certi anziani parecchio anziani, alternando momenti di lucidità ad altri di appannamento, in una cangianza rutilante che però ha riempito di rabbocchi sorpresi i nostri bicchieri durante il pranzo.
Non ho voglia di addentrarmi nel dettaglio, anche perché le mutazioni, a tratti radicali, si sono susseguite davvero ogni dieci minuti e sono state tante. Ognuna a suo modo piena di pneus, il soffio vitale. Per un paio d’ore nei calici si è avvertito, col disincanto anche dissacrante della circostanza, “di tutto”, come in un bel volo a planare (cit.) sovrastato dal compiacimento e dall’emozione dell’imprevisto successo. Naso e palato hanno potuto esercitarsi, scandagliare.
È stata un’esperienza altamente formativa sul Barolo, sul Nebbiolo e soprattutto sulla libertà mentale che ti aiuta quando avvicini i sensi a qualcosa da cui ti aspetti di tutto e niente.
C’è chi li chiama miracoli enologici, chi magia del vino.
In ogni caso, grazie zia!
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