La stragrande
maggioranza dei bianchi è pensata per essere stappata nell'arco di un
anno, massimo due. Nonostante questo, la maggioranza dei vini bianchi italiani
presenta straordinarie evoluzioni nel tempo a cui pochi, pochissimi produttori
si sono dedicati con cura e con passione, soprattutto nell'areale del
Verdicchio e del Fiano di Avellino.
Gli esempi sono
innumerevoli, potremmo citare un incredibile Priè Blanc 2008 bevuto di recente,
o un Efeso di Librandi da uve mantonico, o un grecanico di Cantina Marilina
2006 provato in Sicilia, e ancora tanti, tanti vini in tutte le regioni. Un altro esempio, calzante, è sicuramente questo Pallagrello Bianco pensato da Luigi Moio per Terre del Principe,
l'azienda fondata nel 2003 da Manuela Piancastelli e Peppe Mancini.
credit: ima festival |
Giornalista
lei, avvocato lui, si incrociano nell'Alto Casertano nella vecchia azienda
familiare di lui e iniziano un'avventura straordinaria, raccontata mille volte
ma sempre bella da ripetere: con Moio avviano il rilancio di tre uve sino a
quel momento praticamente sconosciute ovvero casavecchia, pallagrello nero e
pallagrello bianco, spesso confuse dai contadini e dagli stessi produttori di zona
rispettivamente con l'aglianico e la coda di volpe, altro bianco campano
diffuso lungo la dorsale appenninica.
Nasce una
avventura straordinaria che porta alla fondazione di questa azienda, ben presto
seguita da altre, che punta alla valorizzazione di un territorio puro e libero
nel nord della Campania, ricco di biodiversità e di personaggi che lo hanno
fatto grande.
Le Serole è uno
dei due bianchi aziendali, quello affinato in barrique. L'altro, lavorato in
acciaio, è il Fontanavigna. Nel corso degli anni il protocollo de Le Serole
cambia sino alla decisione di farlo uscire con un anno di ritardo rispetto alla
vendemmia e riducendo l'influenza del legno che, comunque, a nostro giudizio,
ha regalato grandi bianchi da meditazione nel primo decennio di questo vino.
Le Serole resta la migliore espressione mai raggiunta da questa uve figlia di
un Bacco minore come si diceva qualche anno fa per i vini ottenuti da uve poco
conosciute. Una assoluta verità del territorio di cui è figlio, con vini che riescono
ad evolvere in maniera molto interessante conservando intatta la freschezza.
Come
questo millesimo 2015, aperto, pensate un po', dopo il Taurasi Campoceraso 2001
di Struzziero. Il bianco esprime subito al naso sentori di albicocca e
zafferano, piacevoli note balsamiche e un lieve accenno fumé tipico dei vini da
terre vulcaniche (qui l'influenza del vulcano spento di Roccamonfina si fa
sentire molto precisamente).
Al palato colpisce per la sua verve, la sua
vivacità quasi giovanile, con rimandi ai sentori olfattivi impreziositi dalle
note speziate, frutto e legno in ottimo e convincente equilibrio. Finale lungo,
interessante. leggermente amaro. Il palato resta pulito e la voglia di ripete
la beva è comune a tutti. Un bianco di
alto lignaggio, elegante, affidabile, incapace di tradire le aspettative perchè
si va a colpo sicuro.
Un piccolo
grande miracolo di una viticultura italiana ancora troppo legata esclusivamente
alle performance dei rossi e che invece nei bianchi e nei loro tempi di
maturazione ha potenzialità assolutamente infinite e tute da scoprire ancora.
Credo che sia questa la nuova frontiera di un movimento iniziato dopo la crisi
del metanolo e che adesso ha bisogno di nuovi stimoli, che non sia solo la
spumantizzazione.
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