Dom Perignon, 300 anni dopo


Era il 1668 quando ad un fraticello astemio di nome Dom Perignon, economo dell’abbazia di Hautviller, venne attribuito il più arduo dei compiti: togliere dai vini della Champagne le bollicine, apparente difetto che li rendeva fuori moda e scarsamente apprezzati dall’alta aristocrazia francese che preferiva molto di più i vini fermi della Borgogna. 
Sembra strano ma è così, ai francesi non piaceva lo Champagne così come lo conosciamo noi, ci volle un po’ di tempo e la volontà di Luigi XIV di copiare i “vini frizzanti” dell’alta società inglese ai tempi di Carlo II, per far cambiare rotta al lavoro del frate permettendogli finalmente di dar vita a quel vino che gli fece esclamare davanti a tutti gli altri monaci: «Venite presto, fratelli, sto bevendo le stelle.


Colmo di gioia, il cellérier dell’abbazia cominciò a fare esperimenti di vinificazione fino a che, da gran conoscitore di uve e terroir qual’era, non si inventò la prima cuvèe andando a mescolare più vini base derivati da diversi vitigni, vigneti e annate al fine di creare un nuovo vino che sia superiore a ognuno dei suoi componenti. 
Chissà se, a quel tempo, poteva immaginarsi il futuro successo dello Champagne, chissà se ride o piange a vedere quaggiù schiere di sommelier decantare quella strana bottiglia che porta il suo nome, chissà se, trecento anni dopo, il Dom Perignon 1964 che ho nel bicchiere è minimamente simile a quello da lui “inventato”. Chissà.


Di certo il nostro fraticello non conosceva il biscotto Plasmon, il torroncino alle mandorle o la caramella mou, non poteva sapere che il suo vino invecchia bene, benissimo, fornendo emozioni a distanza di anni.  
on poteva sapere che mettendo il naso riesco a sentire il caffè, gli agrumi canditi, la frutta secca, il caramello e la pesca, sì la pesca, quello stesso frutto che, insieme alla cannella e all’acquavite “bruciata”, rappresentava la ricetta segreta, confidata in punto di morte al suo successore, per ottenere un grande Champagne. 


Bere questo 1964 non vuol dire solo appropriarsi di un tocco di storia del vino ma, soprattutto, far propri i sogni e le speranze di quel fraticello francese perché davvero, ancora dopo 300 anni, quelle bollicine mi hanno permesso, anche solo per un secondo, di poter vedere le stelle.

Letture di Agosto: il vino in Iraq

Interessante questo articolo scritto da Riccardo Lagorio che ci porta in Iraq dove, all'interno dei monasteri cristiani, si produce ottimo vino. Leggiamo questi splendidi appunti.

Probabilmente sono trascorsi 8000 anni da quando le popolazioni della Mesopotamia iniziarono a spremere uva, attendere un conveniente periodo per la fermentazione del mosto ed infine utilizzarne il risultato per cerimonie civili e religiose.

Nasceva così, grazie all’operosità di archetipi vignaioli, la cultura di uno dei prodotti più consumati al mondo, prendeva corpo il vino più antico al mondo, celebrato da assiri e hittiti. Malgrado i periodi bui di repressione cristiana – la più recente ha coinciso con il governo di Saddam Hussein, che mise al bando i costumi, finanche alimentari, della cittadinanza caldea e maronita del Kurdistan iracheno, che ha per capitale Erbil - sopravvive nei monasteri e nelle comunità cristiane l’usanza di produrre il vino.

Riccardo Lagorio
Se per i monasteri è quasi d’obbligo poter contare su un quantitativo ancorché minimo del prezioso liquido per celebrare il mistero dell’eucarestia; per i contadini è fonte di reddito integrativo alla frutta ed alla verdura che dalle colline prende la strada delle città.
Peraltro nelle scarse fonti letterarie del VII secolo, prima dell’avvento della religione islamica, c’è evidenza di diffuso consumo d’alcool nei territori musulmani al tempo di Maometto, prima che lo stesso le dichiarasse haram (tabù).

Accanto allo scritto di Al Bukhari che registra un elevato numero di bevande alcoliche presenti nella penisola arabica, il lavoro di Omar Ibn al Khattab descrive bevande ottenute fermentando uva, datteri, orzo, frumento o miele.

I villaggi di Dhok, Haudian, Diana e Sersenk, a circa 400 chilometri da Erbil, e di Koisangiak, a 200 chilometri dalla capitale, sono tra i maggiori centri produttori di vino mentre la scuola di Shaklawa, diretta da monaci e che dista meno di un’ora e mezza di strada da Erbil, si distingue per la lunga tradizione di produzione di vino, accertata da oltre cinquecento anni.
Si può affermare senza errore che i maggiori produttori di vino in Iraq e in Mesopotamia sono proprio i monaci che vivono nei monasteri ed utilizzano il vino anche come strumento di ospitalità ai visitatori.

Akram Sliwa Sheer conduce uno dei tanti negozietti di alcolici che si possono trovare nel quartiere di Ankawa vicino alla chiesa dedicata a San Giuseppe, ma soprattutto intrattiene regolari rapporti con i piccolissimi produttori di vino delle colline anche grazie all’esperienza pastorale del fratello nel monastero di Shaklawa.

Sono gli stessi cittadini a volere aperti i loro negozi tradizionali. In quest’area di Erbil, dove vivono perlopiù cristiani, si sono sempre venduti alcolici – dice - il governo attuale ci ha dato la possibilità di mantenere i nostri negozi; anzi stanno nascendo dei pub dove possiamo ritrovarci senza nessun pericolo perché i potenziali contestatori non hanno accesso”.
Nel suo negozio, come negli altri negozi della città che vendono alcolici, non è possibile trovare in vendita vino iracheno, ma dopo una amichevole chiacchierata Akram non esita a offrire tre tipologie di vino rosso che proviene dal nord del Paese.

Non è data sapere la varietà di uva utilizzata, ma solo che si tratta di black grapes, uva nera. Esiste un’altra tipologia di uva (il termine varietà sarebbe in questo caso troppo… sofisticato) denominata king grapes, che ha bisogno di più lavoro per crescere e con quella, dice, si produce pochissimo vino.

Momento di degustazione
 Alle temperature estive che sfiorano i 50 gradi l’uva ottiene un elevato grado zuccherino. I vini sono presentati in improbabili bottiglie, usate originariamente per contenere arak od ouzo greco, whisky o altro ancora, chiuse ermeticamente da tappi a vite.

Il primo che è stato per così dire stappato proviene dalle uve dell’orto del monastero di San Mattia a Bahshika, nel nord dell’Iraq.
Porta colore rosso intenso con riflessi mattonati, piacevolmente speziato di cannella e noce moscata al naso, alla bocca è vigoroso, imponente, piacevolmente grondante di susina appassita e lampone.

Il vino del secondo bicchiere è dell’orto della chiesa di Alkosh, all’interno della zona protetta di Ninive.
Il liquido è denso, seducente, dal colore rosso intenso inaccessibile quasi. Ha poco più di un anno di vita.
L’olfatto è impressionato dal profumo di nocciola e frutta secca, scorgo un vago aroma di pepe e rosa che si dilata in bocca, la corteggia, la conquista, la penetra con ruvida grazia.
Il gusto è lungo, infinito, di elevata alcolicità ammorbidita dal grado zuccherino.

Il terzo vino proviene dalle campagne di Shaklawa; ha cinque anni ed è considerato da Akram un vino prezioso.
Il colore è ambra, sul fondo della bottiglia si scorgono sedimenti. Il naso percepisce le note alcoliche amplificate poiché manca del tutto della armonia dei precedenti bicchieri.
Si distingue per l’abboccato secco e le evidenti note alcoliche che lungi dall’essere stucchevoli conquistano per semplicità e compostezza.

Malgrado la piacevolezza dei vini, stiano tranquilli i vignaioli italici: non potranno mai temere la concorrenza dei monaci iracheni sotto il profilo commerciale.
Tuttavia questi elaborati enoici sono un appuntamento culturale imperdibile per raccontare la storia e la vita attuale delle comunità cristiane del Kurdistan iracheno, un orgoglioso drappo sventolato per esibire la propria tormentata appartenenza religiosa.

Pensieri di Agosto: Marco Caprai e la crisi del Sagrantino di Montefalco


Marco Caprai
Marco Caprai usa l'ironia per spiegare la crisi profonda del settore vitivinicolo umbro. L'inventore del Sagrantino usa una frase cara a Tomasi di Lampedusa, principe di Salina per fotografare il momento:
"Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi."

Ma che c'azzecca il Gattopardo col vino umbro?

"Qui da noi in questi anni tutti hanno pensato che solo cambiando i presidenti di vari consorzi presenti sul territorio si potesse reggere l'urto della crisi e ridare fiato ad un settore che continua a vivere un momento difficile. Ho usato l'ironia per spiegare la crisi che questo settore così importante per l'Umbria sta vivendo. Il territorio non attrae più perché in questi anni la politica non è riuscita a vendere il prodotto "vino umbro". Non c'è stato un progetto unico, non c'è stata una campagna pubblicitaria in grado di vendere il sistema Umbria nel suo insieme. I singoli produttori sono stati lasciati soli a vendere il loro prodotto, in una guerra tra poveri che non ha portato da nessuna parte."

Marco Caprai è duro:

"i presidenti dei consorzi cadono come birilli, qualche consorziato esce e la macchina va avanti convinta che i problemi non ci sono o se ci sono basta un cambio di presidenza per risolverli."

Ma allora che fare? Qual è la via maestra per promuovere il vino umbro?

"La via maestra è promuovere il vino umbro, appunto. Non il singolo vino. Per esempio Sagrantino, Grechetto o Orvieto. É qui che la politica ha fallito. L'America investe sul vino californiano, la Francia sul Bourdeaux. Territori vastissimi che presentano una serie di vini pregiati promossi all'interno di un progetto unico complessivo. Noi invece ci presentiamo alle fiere nazionali e internazionali con singole etichette che se riescono a far colpo è solo per una botta di fortuna, non per un progetto alle spalle. É la guerra dei poveri insomma."

Caprai entra poi nello specifico.

"a Montefalco, la metto sul paradosso, la piglio a ridere per non piangere: siamo in mano a una politica gattopardesca che spera attraverso l'erga omnes, cioè l'imposizione a tutti i produttori delle regole e dei controlli indipendentemente che siano o meno soci del consorzio - di tappare i buchi di bilancio e di evitare di dare troppe spiegazioni."

Ma così, sottolinea Caprai, non si può andare avanti.

"Serve un colpo di reni, serve un azzeramento della situazione, ma se a Montefalco "governano" i Gattopardi il cambiamento non ci sarà e la crisi diverrà irreversibile. Le responsabilità ricadranno sugli autori di questo disastro dal quale né le istanze di governo locale né la Regione Umbria possono chiamarsi fuori, ma i danni li pagheremo tutti. 
É auspicabile arrivare a una politica seria del settore in grado di vendere e promuovere l'Umbria come sistema complessivo. In questi anni la Regione ha speso sul vino tanti soldi ma senza criterio, senza una strategia. Serve una logica d'impresa, diminuire per esempio le produzioni e le rese, dare garanzie di restare sul mercato a chi ha investito, puntare sulla qualità. 
Spendere meno ma su progetti precisi, misurati. Gli operatori non possono essere lasciati soli, serve una politica seria, vera di supporto. Ai consorzi in questi anni è stato detto "armatevi e partite", ma divisi non si fa sistema. 
Faccio un esempio di come la politica abbia fallito. Ultimamente un milione e 800mila euro di fondi "ocm" riservati al vino sono ritornati indietro perché è stata sbagliata la programmazione"


Pensieri di Agosto: le mie alternative al vino monodose


Premessa: non mi sono fissato col vino monodose e non sto facendo una campagna contro la aziende che producono prodotti di questo tipo anche perché, in alcuni casi, hanno una funzionalità che difficilmente la singola bottiglia può sopperire. 

Detto questo, ed essendo un fautore del vino sfuso di qualità, sto cercando di capire, in base alle mie esigenze di consumatore appassionato, come soddisfare la mia esigenza di bere un solo bicchiere di vino. 

Se sto a casa non ho dubbi, apro una bottiglia decente, verso un bicchiere di vino e per non far ossidare quello che rimane utilizzo la “pompetta salvavino” che metterà il prezioso nettare sottovuoto e, quindi, al riparo dall’ossigeno. 

Pompetta Salvavino
Se sono in centro città preferisco, anziché scartare una confezione di merlot delle Venezie di chissachì, entrare in una enoteca o wine bar e farmi versare un bicchiere di vino del quale almeno conosco produttore e annata. 

Wine Bar
Ma se sono fuori città, magari in campagna o al mare, come posso soddisfare il mio desiderio? 

Portandomi vino monodose oppure, ed ecco la lampadina, usando la Bag-In-Box “modificata”. 

Il sistema Bag-in-Box, inventato per la prima volta nel 1955 da William R. Scholle per trasportare gli acidi della batterie scariche,  è costituito in una sacca in plastica alimentare dilatabile ed elastica, provvista di uno speciale rubinetto di spillatura, che viene inserita all’interno di una scatola di cartone variamente personalizzabile. Questo tipo di imballo permette di spillare il vino un po’ alla volta, mentre la sacca si restringe senza che si creino all’interno bolle d’aria. In tal modo il vino è al sicuro dall’ossigeno e si conserva bene anche per molti giorni dopo l’apertura della confezione. In Italia lo conosciamo grazie a Ronco o Tavernello. 

Il sistema Bag-In-Box
L’idea che avevo in mente non era però un contenitore di cartone rigido ma qualcosa di più flessibile e trasportabile e, comunque,  meno ingombrante. Forse, e dico forse, quello che cercavo si è concretizzato con questo modello di packaging. 

La sudafricana “The Company of Wine People” ha messo in commercio una specie di sacchetto da due litri, simile a quello per la ricarica dei saponi, contenente vino bianco, rosè o rosso della gamma Versus. 



Perché l’idea mi piace e può rappresentare un buon punto di partenza?

Per varie ragioni: è lo stesso produttore che confeziona il suo vino, non ci sono intermediari e i prezzi sono più contenuti. 
Altro vantaggio: essendo comoda da trasportare, anche se meno leggera della confezione monodose, la “busta” può essere utilizzata per soddisfare sia l’esigenza di un singolo utente, ovvero bersi solo un bicchiere di vino, sia di più persone che dovranno fare a meno di portarsi molteplici confezioni singole risparmiando, sicuramente, anche bei soldini. 

Ho qualche dubbio sulla conservazione anche se, essendo flessibile al 100%, potremmo tenere lontana la confezione da fonti di luce e di calore usando pochissimo spazio (utile in questo clima estivo la borsa frigo). 

Sottolineando col sangue che sto parlando di vino quotidiano da bere entro pochissimo tempo, quanto scritto sopra rappresenta per voi un vaneggiamento da calura estiva oppure qualcosa di buono c’è in questi pensieri di inizio Agosto?

Ho sognato la prossima vendemmia


Ho fatto un sogno.

Ho sognato che a cena accendevo la TV e mi ritrovavo il conduttore del telegiornale che parlava della prossima vendemmia.


Ho sognato delle immagini dove una persona senza volto parlava, parlava, parlava e concludeva il suo sermone dicendo che, se saremo fortunati, nel 2010 l'Italia tornerà ad essere il maggior produttore di vino al mondo scavalcando la Francia.

Ho sognato che il sosia di Bobby Solo parlasse subito dopo di export e di quanto fosse "fico" diventare i primi al mondo. Strani discorsi per uno che dovrebbe parlare di anni '60. Conoscete per caso un gruppo di quei tempi che si chiama "Assoenologi" capitanato da un certo Giuseppe Martelli?


Ho fatto un incubo, la vendemmia 2010 è stata catalogata come ottima.
Chi mi aiuta a svegliarmi?


Misurare l'alcol nel sangue con iPhone? Ora si può!


Il nostro peggior incubo da venerdì scorso di chiama Codice della Strada.
 

Le nuove norme, infatti,  non fanno sconti a nessuno, soprattutto per chi assume alcol, principale causa, insieme alla distrazione e alle droghe, degli incidenti mortali sulla strade italiane.  
In particolare le disposizioni appena varate prevedono un divieto assoluto di bere per i giovani che hanno la patente da meno di tre anni e per tutti coloro che lavorano al volante: autisti, tassisti, camionisti potranno essere licenziati per giusta causa se pizzicati “ubriachi” alla guida. 
 
Il disegno di legge si arricchisce anche di nuovi vincoli per i locali pubblici che avranno il divieto di vendita degli alcolici dalle tre alle sei di mattina, con deroghe solo per Ferragosto e Capodanno, unici giorni, aggiungo io, dove è possibile ubriacarsi legalmente di notte. Mah!
Il codice della strada non risparmia nemmeno i ristoranti che dovranno obbligatoriamente possedere un etilometro da mettere a disposizione dei clienti che vorranno testare, se lo vogliono, il loro grado alcolico prima di tornare a casa.

Tenere costantemente sotto controllo il nostro grado alcolemico è il nuovo diktat per tutti coloro che, per passione o per lavoro, bevono vino.
 
I più tecnologici possono soddisfare questa nuova esigenza tramite telefono. Avete capito bene. 
Da qualche tempo, infatti, i possessori di iPhone possono dotarsi di iBreath, un simpatico accessorio all’interno del quale dovremmo soffiare per capire, tramite il display del telefono al quale è collegato, se siamo o meno in grado di affrontare il ritorno a casa. 

iBreath
Se proprio non vogliamo spendere i 79 dollari per l’acquisto di iBreathe l’alternativa è quella di scaricare Buzz Buddy. Inserendo il proprio sesso, peso e scegliendo il tipo di bevande assunte ( birra, vino, cocktail o whisky.) il programma proporrà :
•    grafico in tempo reale della concentrazione di alcool nel sangue
•    allarme se la concentrazione supera lo 0.08%
•    visualizzazione di un pulsante per chiamare un taxi


Il prezzo è di 0,99 dollari nell’app store anche se la stima è non è certo accurata.

E' stata la settimana........



Grande interesse ha destato il tasting panel di Oneglass, uno dei tanti vini monodose in circolazione. Non sapete ancora di che si parla? Cliccate qua!

Ma non è finita. Sul vino monodose e la sua preistoria ho fatto un articolo che reputo interessante.

E per finire....Tapping panel con Procork!!!

Ah, e qui si è parlato di me e d iuna delle cene che ogni tanto organizzo con amici...

Leggi e fai tutti i commenti che vuoi....


Letture estive di vino


Tempo di letture d’estate su Percorsi di Vino, soprattutto il venerdì, quando già stiamo pensando al mare e al classico gossip da ombrellone. 
Se volete qualche notizia leggera tanto per fare chiacchiericcio “on the beach” non perdetevi le seguenti righe. 

La prima bomba estiva riguarda il mondo della moda e, in particolare, quel Roberto Cavalli che da un jeans e una maglietta è passato al vino. Già perché il nostro stilista possiede la Tenuta degli Dei, bella realtà chiantigiana all’interno della quale produce due rossi: un Toscana IGT chiamato “Tenuta degli Dei” da uve merlot, cabernet sauvignon, cabernet franc, petit verdot ed alicante, il vino base dell’azienda, e il Cavalli Collection, il vino esclusivo, prodotto in quantità limitate ed avente la stessa tipologia di uve. 

Roberto Cavalli
Che c’è di strano? Semplice, che la bottiglia è in stile Cavalli, per cui, secondo me, mooooolto “tamarra”. La confezione regalo, in particolare, non si può vedere con quel ghepardato che fa molto “babbiona di alto rango che non capisce na sega di vino ma lo beve solo perché è Cavalli e fa fico tra le amiche”. Giudicate voi! Ah, ultima cosa. Il vino è stato recensito da un note giornale enologico: Playboy….. 

Confezione regalo
Parliamo ora di quello che sto ribattezzando “marketing champagnaro senza pudore”, ovvero come cercare di vendere più bottiglie di champagne turando il naso e non solo.
Questa settimana parliamo di Dom Perignon, storica Maison francese che ha deciso di rendere omaggio all'icona della pop art Andy Warhol con delle bottiglie che riprendessero lo stile e i colori che hanno reso celebri le opera dell'artista. 

Andy Warhol
L'omaggio a Andy Warhol rappresenta sicuramente un tentativo, da parte dei produttori di bollicine più amati al mondo, di rinnovare l'immagine dell'azienda dandole un tocco fashion e innovativo. 
L'edizione, ad edizione limitata, sarà disponibile solo fino alla fine dell'anno e unicamente in Spagna presso 4 rivenditori accuratamente scelti (Barcellona, Madrid, Ibiza e Marbella). 

Lo champagne "incriminato"
Abate Perignon e sig. Warhol, se da lassù ci vedete, potete mandare una folgore a chi si inventa ste cose? Ma subito però, il prossimo passo, in nome del trendy and fashion, potrebbe essere lo champagne tagliato con la tequila!

I vini monodose. Origine e sviluppo di un prodotto di (in)successo?


Oneglass non è altro che l’ultimo tentativo di introdurre sul mercato vino in confezione monodose.   

L’idea originale di chiudere il vino in buste di vario materiale forse è nata nel 2006 con “PocketWine”, progetto di Sara Lavagnoli, che si proponeva sul mercato con una confezione a forma di calice, con un apribottiglie posto nella parte superiore che sta a indicare il punto di apertura, che avviene a strozzo. 

Una confezione di PocketWine

Le differenze rispetto a Oneglass? PocketWine fornisce informazioni anche sulla cantina di produzione e viene (veniva?) venduto su scaffale o banco in confezioni di cartone contenenti 36 monodose da soli 5 cc (bicchiere scarso di vino).
Non ho trovato il prezzo per singola confezione ma è facile immaginare che sia più economico di Oneglass. 

Poi venne il Gruppo Coltiva con il suo QB, Quanto Basta, una minibottiglia di vetro che contiene l’esatta quantità di vino consentita per non incorrere in contravvenzioni per eccessivo uso di alcol. 
Il packaging, non certo esaltante, ricorda la caraffa delle osterie, a forma di clessidra, con tappo comodamente richiudibile (bonus). Sono previsti formati da 20 cc, per i vini frizzanti come Lambrusco e Prosecco, e da 25 cc per i vini fermi come Sangiovese di Romagna o Nero d’Avola. 

Quanto Basta

A prescindere dalla qualità del vino, l’unica differenza rispetto a Oneglass riguarda la confezione, in vetro, adatta a soddisfare anche le esigenze di due persone sedute a tavola.
Il vero concorrente di Oneglass però arriva dall’estero e si chiama Al Fresco Wine che, nel 2007 il Tulipak, un bicchiere in plastica resistente sigillato con un tappo in alluminio simile a quello dello yogurt riempito con Chardonnay e Shiraz australiano e  un rosè californiano sotto l’etichetta della Trencherman. 

Il Tulipak

Tappandomi per un minuto il naso vediamo di trovare qualche vantaggio: velocità di servizio, peso ridotto, riciclabilità totale del contenitore, uso in luoghi affollati (centro di Roma) dove il vetro non è consentito, possibilità di fuoriuscita del liquido e di rottura del bicchiere ridotte al minimo. 
Svantaggi? Bere un vino in un bicchiere di plastica preconfezionato rappresenta per me la morte civile della bevanda. Ma si sa, io non faccio parte del loro target…
Voi che ne dite? Quale idea vi stuzzica di più?

Ma quale tasting....oggi è tempo di "tapping panel"!!!


Ormai il marketing ha scoperto da tempo che internet rappresenta uno strumento efficace per compiere indagini di mercato a basso costo ed alto valore aggiunto per cui oggi, tra i vari blog e social network, c’è tutto un proliferare di giudizi su un’ampia gamma di prodotti, anche tappi di sughero. Avete capito bene.
Il sugherificio veneto qualche tempo fa ha lanciato su Vinix un’iniziativa, chiamata “tapping panel", con la quale si dovrà valutare, dal punto di vista tattile e visivo, il tappo dello Shiraz Mount Avoca 2007, un vino australiano del cui contenuto mi occuperò in seguito.
Ma perché lanciare un’iniziativa così per un tappo in sughero? Perché dicono che  è speciale, forse rivoluzionario.

Dal sito internet leggo che il tappo è prodotto dalla Procork ed è dotato ai due lati di una membrana protettiva formata da cinque strati ognuno con uno scopo preciso: regolazione dell’ossigeno, ritenzione dell’umidità, prevenzione delle contaminazioni e mantenimento del gusto. La membrana lascia passare una quantità controllata di ossigeno e contemporaneamente blocca il passaggio d’umidità. In questo modo riesce a evitare fenomeni ossidativi e riduttivi, che pregiudicano il gusto dei vini, e prevenire le contaminazioni da TCA, che provocano il fastidioso sentore di tappo senza la percentuale di irregolarità organolettiche che causa il sughero.

La membrana
Veniamo alla parte pratica. 

Analizzando la bottiglia la prima cosa che noto è la capsula, in materiale adesivo (!!!), che nella parte superiore riporta la scritta "nonsaditappo.it", il blog ufficiale del sugherificio veneto. Sicuramente tutto benaugurate anche se spero per loro che sia scritta che adesivo siano là solo per questo panel.

Una volta aperto il vino, la cosa che salta subito agli occhi è chiaramente il tappo in sughero che, diversamente dagli altri, ha alle sue estremità questa pellicola protettiva lucida che, se non conosci la filosofia Procork, potrebbe creare nel consumatore medio reazioni poco entusiasmanti nei confronti del vino che, per via dello strana chiusura lucida, potrebbe essere rimandato indietro.


Altra cosa che salta subito all’occhio è che il mio tappo, nella parte inferiore, era macchiato dal vino, in maniera uniforme, per circa 3-4 mm fornendo un effetto non del tutto naturale, comunque diverso dagli altri tappi in sughero di elevata qualità. Era, come dire, tutto troppo perfetto, sembrava disegnata quella macchia di vino. 
Ora non so se questo è un bene o un male, non sono affatto un esperto, però la sensazione era di un qualcosa che aveva bloccato artificialmente, come una barriera, il vino. Il sughero è un materiale poroso e questa cosa, ripeto, mi è sembrata forzata.

Il tappo colorato
Altra piccola considerazione finale: il tappo sembra di buona fattura, mi è stato confermato che trattasi di sughero monopezzo, però esteticamente, e parlo della parte non trattata con la membrana, non mi convince totalmente. 
E' troppo patinato, e il fatto che le due estremità abbiano una pellicola dello stesso tipo rende il tutto troppo artificiale. Il sughero è un materiale naturale ma quel tappo, non solo a me, è sembrato un pò "bionico".

Tappo sezionato
Magari la Procork starà pensando che non ci capisco una mazza di tappi e che quello che sto scrivendo era esattamente il fine ultimo di produzione, per cui abbiate pietà di me :-))

Ah, un consiglio: cambiate il vino che c'è dentro, una vera spremuta di legno...

Dalla Cantina Cremisan nasce il vino che unisce Betlemme e Gerusalemme


Bellissimo articolo tratta da Affari Italiani che vorrei condividere con voi. Il vino può essere anche speranza di pace.

Nell'area tra Betlemme e Gerusalemme, s'incontra Cremisan: qui da 125 anni anni c'è chi unisce passione e competenza per dare un sapore di pace a una terra in cui da decenni non scorre latte e miele, ma violenza e divisione.

Vigneti terrazzati e la Cantina Cremisan

Immerso nella collina, all'ombra di ulivi secolari e di una grande pineta, Cremisan ha una storia più antica del conflitto israelo-palestinese. Nel 1863 don Antonio Belloni, sacerdote ligure missionario in Terra santa, inizia la sua opera di cura e aiuto di ragazzi orfani a Beit Jala, nell'area di Betlemme. Don Antonio riesce ad acquistare quattro grandi terreni a Betlemme, Beit Jemal, Cremisan e Nazareth. 
Sono gli anni in cui cresce nel mondo la presenza della famiglia religiosa fondata da don Bosco e dedicata ai giovani. Don Belloni ne approfondisce il carisma e decide di diventare salesiano, donando alla congregazione anche le terre in cui aveva cominciato la sua opera. 
A fine Ottocento a Cremisan viene aperto un centro di formazione che nel 1957 diverrà istituto teologico internazionale, attivo fino al 2004. Ma oltre alla cultura, don Belloni ha distillato anche vino, creando una cantina e iniziando la produzione vinicola. 

Una scommessa che potrebbe sembrare azzardata in una terra a larga componente islamica. Il progetto, invece, ha richiamato in questo secolo esperti e coltivatori locali e internazionali, permettendo di dare lavoro a numerose famiglie. 
La Cantina Cremisan
Lo spiega don Luciano Nordera, sacerdote veneto che da 24 anni vive e lavora a Cremisan: “Perché in un centro di spiritualità c’è una cantina? Don Belloni stesso l'ha fondata nel 1885, nelle grotte naturali della zona, e dopo quattro anni la trasferì dov’è oggi. Essa doveva finanziare la costruzione della casa di Cremisan e dar lavoro ai palestinesi, aspetto sociale sempre mantenuto. A Betlemme il sacerdote costruì anche un forno che ancora oggi garantisce ogni giorno il pane a famiglie in difficoltà”. “All'interno della cantina -  continua don Luciano - lavorano in modo stabile circa 25 operai cristiani e musulmani. Altre 25 famiglie collaborano nelle fasi di realizzazione di grandi progetti, come il terrazzamento di nuovi vigneti, la raccolta della nostra uva, delle olive e la rivendita del vino”.

Lavoratori qualificati, ottimi vitigni, selezione accurata dell'uva sono i tre segreti con cui don Luciano spiega la qualità dei vini Cremisan, che alla base hanno la scelta di una “coltivazione biologica, non chimica”. 
La selezione dei vitigni Hamdàni-Jàndali, Daboùki e Bàladi e il lavoro dell'enologo Andrea Bonini e dell'agronomo Roberto Paglierini, insiema ai coltivatori locali, hanno prodotto ottime annate di vini e creato una rete di distribuzione internazionale. 
Attraverso il sostegno del VIS, della provincia di Trento e di vari sponsor, alcuni giovani palestinesi hanno studiato nuove tecniche di coltivazione nelle cantine di san Michele all'Adige. I vini bianchi e rossi, da tavola e da dessert (David’s Tower, Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay, Malvasia), insieme al brandy e al succo d'uva – a Cremisan si producono anche olio d'oliva, aceto, noci e mandorle –  sono stati presentati con successo all'ultima edizione di Vinitaly nel mese di aprile.

Etichetta

Grazie alla cooperazione italiana e all’associazione tedesca per la Terra Santa sono stati fatti grandi lavori di terrazzamento, che devono ancora essere completati. 
Tra i progetti in cantiere, la sostituzione delle attrezzature ormai obsolete. Cremisan non è però un'oasi nel deserto: il monastero è collocato all'interno della Green Line, i confini dei Territori palestinesi stabiliti dopo la guerra dei Sei giorni nel 1967. L'area è però stata annessa giuridicamente alla municipalità israeliana di Gerusalemme. 
Nel mese di marzo l'esercito ha avviato la costruzione del Muro nella zona di Beit Jala, lambendo i vigneti di Cremisan e centinaia di ettari dell'area. Un comitato popolare che riunisce centinaia di palestinesi, israeliani e attivisti internazionali organizza ogni settimana manifestazioni nel vicino villaggio di al-Walaja, di fronte ai bulldozer al lavoro. Le proteste internazionali potrebbero spingere Israele a modificare il tracciato del Muro nell'area. Affinché la prossima vendemmia non sia l'ultima.

Oneglass. Perchè?


I tasting panel sono un affascinante strumento di marketing che sempre più aziende, non solo di vino, stanno sviluppando approfittando dei tanti blog che si trovano in rete.
In questo caso Oneglass, società veronese che distribuisce confezioni di vino monodose (100 ml), ha voluto mandare una serie di campioni ai principali wine blogger italiani con lo scopo di chieder loro una valutazione sul  prodotto. 

 

Le cose sono due: o sono talmente sicuri che il loro prodotto incontrerà il gusto di chi beve regolarmente vini di un certo spessore, oppure per loro vale la regola del parlatene male purchè se ne parli.
Con tutto il rispetto, è come se la Simmenthal facesse provare le sue scatolette a chi mangia la carne di Eugenio Barbieri. Staremo a vedere.

Per evitare che il mio ego enosborone ed individualista potesse fornire giudizi distorsivi e soggettivi durante la degustazione, con ovvie ripercussioni sull’articolo, ho radunato undici amici per valutare se questi vini sia noeffettivamente appetibili e mantengano le promesse.


I primi interrogativi riguardano la confezione, sicuramente leggera e molto accattivante ma, ad uno sguardo più approfondito, emergono le prime perplessità riguardo l’etichetta che, oltre a riportare banali note di degustazione, aspetto che ritrovo comunque anche in etichette di vini ben più blasonati, nulla dice sulla provenienza di questo vino. Chi è il produttore? Sono vini di una cantina sociale? In che zona sono stati prodotti? Boh!!! Poca trasparenza.

L’altra domanda che ho fatto riguarda chi dovrebbe vendere e, soprattutto, acquistare il vino monodose. Per farla breve: ma voi dove aprireste questa “finta” bottiglia?
In un wine bar? No. In enoteca? No. Al ristorante? No. La grande distribuzione, con l’attuale innalzamento della qualità media dei vini offerti, non ci pensa proprio a vendere queste confezioni che, come vedremo, sono tutt’altro che economiche. 
Le uniche risposte al quesito riguardano la possibilità di acquistare il vino all’interno di mense aziendali oppure su aerei o treni. Qualcuno lo vede bene come gadget da rivista…
Pareri che, comunque, denotano una certa perplessità nei confronti di un prodotto che, per sua natura, viene comunque visto in concorrenza con altre tipologie di vino tipo Tavernello o mezze bottiglie di vino in vetro che, pur non essendo monodose, hanno lo stesso appeal di Oneglass.

Capitolo costi. Una confezione monodose (100 ml) costa 1.60 euro. Significa che una bottiglia di questo vino costerebbe circa 12 euro. Numeri da grande vino che spaventano.
 

E' venuto il momento di capire cosa c'è dentro queste confezioni, se davvero il vino vale quanto costa.

Quattro tipologie di vino: due bianchi, Pinot Grigio delle Venezie e Vermentino, e due rossi a base di Sangiovese e Cabernet Sauvignon.

Pinot Grigio delle Venezie IGT 2009 (pinot grigio 85% e traminer 15%): odore che passa dallo straccio alla Coccoina. Sembra sintetico. Al sorso passa e se ne va.


Vermentino IGT 2009  (vermentino 85% e chardonnay 15%): anche qua al naso c’erano odori di sintesi che vagamente ricordavano la frutta. Non mi invita nemmeno a berlo.

Cabernet Sauvignon delle Venezie IGT 2008 (cabernet Sauvignon 85% e teroldego 15%): un po’ meglio dei precedenti, posso paragonarlo qualitativamente ad uno sfuso mediocre da cantina sociale.

Sangiovese Toscana IGT 2008 (sangiovese 85% e syrah 15%): vedi punto precedente anche se le caratteristiche del sangiovese e del syrah sembrano una chimera.

Conclusioni: Oneglass è un progetto dinamico e al passo con i tempi che, purtroppo, ha  il grande difetto di avere nel suo portafoglio vini di ignota provenienza e scarso pregio venduti, tra l’altro, ad un prezzo, parliamo di 16 euro al litro, non assolutamente giustificabile con un prodotto degno di un hard discount. 
Tutto questo a prescindere dalle perplessità evidenziate dal panel circa dove e quando acquistare questo tipo di confezione.

Suggerimenti: aumentare la qualità del vino puntando magari su sfusi di produttori di eccellenza il cui nome dovrebbe essere ben indicato in etichetta. Almeno saprei con chi prendermela…

Paola Di Mauro e quella testardaggine chiamata Vigna del Vassallo

Oggi vorrei parlarvi di Colle Picchioni, un’azienda vitivinicola che ha fatto un po’ la storia della mia Regione, il Lazio, essendo uno di quelle che ha sempre fatto qualità nella zona di Marino, nei Castelli Romani, anche in tempi non sospetti.
Tutto nasce nel 1976, su un piccolissimo appezzamento di terreno che la famiglia Di Mauro aveva acquistato otto anni prima per sfuggire dal caos cittadino ed immergersi nell’incanto di un posto a metà strada tra Albano e Marino. Colle Picchioni è Paola Di Mauro, donna forte che, stufa di bere il vino del contadino che fino ad allora coltivava le sue vigne, decise di farselo in proprio.


La signora Di Mauro, però, non sapeva nulla di enologia ma, caparbia e sognatrice come era, si mise a studiare per trasformare quel fazzoletto di terra in una piccola azienda vitivinicola, la sua.
A quel tempo non aveva assolutamente struttura, macchinari, mano d’opera, la giudicavano pazza, i due figli la giudicavano colpevole di "sprecare i soldi in campagna". La deridono: "Perchè ti spezzi la schiena sulla terra... Se proprio non sai come buttare i soldi vai in crociera!".

Lei va avanti lo stesso.

La sua prima vendemmia, nel 1974, venne portata avanti con mezzi di fortuna costruiti con i materiali del ferramenta.
Il “gioco” si fa importante, le piace tanto il vino che produce. Compra altri quattro ettari, si rifornisce di botti di legno, di una diraspatrice e con l' aiuto di Bianca, la sua colf mantovana, travasa il vino.

Nasconde la diraspatrice al marito mimetizzandola con un imbuto e con dei tubi di legno
. Inizia a produrre 10-12 mila bottiglie l' anno.

La svolta
avvenne in concomitanza di un vecchio Vinitaly, nel 1983 quando Paola di Mauro incontrò Giorgio Grai, uno tra i più geniali enologi italiani. Tra i due c' è subito la scintilla. Grai è un tipo franco, uno capace di dire davanti a tutti "lei ha fatto una merda" oppure "cambi mestiere". Grai assaggia il Colle Picchioni, il vino della signora e dice: "Lei potrebbe fare figli magnifici. Perchè si ostina a farli con un po' di gobba?". La signora di rimando: "Se lei è tanto bravo mi dica come, ecco il mio numero di telefono". E tra i due nasce alla prima telefonata un grande amore professionale.
Da quel momento in poi arrivarono i primi successi grazie soprattutto a Veronelli che non smetteva di decantare il vino di Colle Picchioni. La costanza qualitativa del vino e l’inserimento dell’azienda nelle principali guide fecero il resto, la storia.


Oggi l’azienda è condotta da Armando Di Mauro, il figlio di Paola, che ho avuto l’onore di avere al mio fianco in una splendida cena tra amici all’interno della quale abbiamo ripercorso un pezzo di storia del suo Vigna del Vassallo, taglio bordolese da omonima vigna il cui nome è una dedica al lavoro dei vassalli dei principi Colonna a cui appartenevano originariamente i terreni dell’azienda.

Armando, durante la cena, ci porta in degustazione la prima (1981) e l’ultima annata (2008) del Vigna del Vassallo.
Il 1981, purtroppo, era sul viale del tramonto, troppi capelli grigi e troppe rughe per essere ancora quel vecchio playboy di una volta.
Il 2008 è una vera e propria anteprima per i presenti, giovanissimo eppur già godibilissimo con la sua vigorosa impronta di frutta rossa croccante, rosa canina e terra vulcanica. Bocca di grande coerenza con il naso. Uno dei pochi grandi rossi del Lazio.


Piccola chicca: sapendo della presenza di Armando di Mauro, ho stagnolato un Vigna del Vassallo 1985 (grande annata per la zona dei Castelli Romani) al fine di testare la bravura dei miei compagni di bevuta. Ebbene, alla cieca anche i migliori posso sbagliare visto che il taglio bordolese laziale è stato scambiato anche per un Monfortino. L’unico a non avere dubbi sul vino, fortunatamente, è stato proprio Armando. Non è cosa da poco, credetemi, la lista dei produttori distratti è molto vasta e ne comprende alcuni davvero titolati.

Foto tratte dalla rete e dal sito www.collepicchioni.it

Bollicine abissali!


Piero Lugano
, titolare dell'azienda vinicola Bisson di Chiavari ed ex insegnante di materie artistiche, da tempo studiava i ritrovamenti sottomarini di antichi galeoni contenenti vino, olio ed altri generi gastronomici che, dopo centinaia d'anni, si erano conservati in ottimo stato.

Lugano già sapeva quando, dal fondale della Cala degli Inglesi, baia incontaminata situata tra il faro di Portofino e la Cala dell'Oro, ha tirato su il primo dei dodici gabbioni contenenti 6.500 bottiglie del suo spumante denominato “Abissi – Riserva Marina di Portofino”, prodotto non in una semplice cantina ma ad profondità di 70 metri, con una temperatura costante di 15 gradi, in ambiente carente di luce: contesto che, assieme all'ottima
le bilanciamento di pressione garantito a simili profondità, favorisce il processo di spumantizzazione.

Lugano sapeva ma non poteva prevedere certo che da là
a qualche settimana tutti i suoi studi, i suoi sogni e le aspirazioni potessero concretizzarsi sul fondo del Mar Baltico. La notizia è di ieri: 30 bottiglie di champagne di 230 anni fa sono state scoperte sul fondo del Baltico. Secondo gli esperti, grazie alle ottime condizioni di conservazione, potrebbe trattarsi dello champagne ancora bevibile più invecchiato della storia.


Le trenta bottiglie, trovate da alcuni sub a una profondità di 55 metri farebbero parte di una spedizione effettuata da Re Luigi XVI allo zar russo Pietro il Grande. La scoperta è avvenuta durante un'immersione lo scorso 6 luglio al largo dell'isola finlandese di Aaland, a metà strada tra la Svezia e la Finlandia.
I sommozzatori hanno contattato inizialmente Moet & Chandon secondo cui però al 98% si tratta di Veuve Clicquot.

La data indicativa è stata dedotta dalla storia dello champagne francese: il Veuve Clicquot fu prodotto per la prima volta nel 1772, ma le prime bottiglie furono tenute a riposo per dieci anni prima di essere messe sul mercato. Perciò quelle sco
perte nel Baltico devono risalire agli anni che vanno dal 1782 al 1788-1789, quando, con lo scoppio della rivoluzione francese, si interruppe la produzione.


Ad assaggiare per primo il preziosissimo champagne è stata l'esperta finlandese, Ekka Gruessner Cromwell-Morgan. Il colore dello champagne è oro scuro con un aroma molto intenso, ha raccontato, «un forte retrogusto di tabacco, di grappa, di frutti bianchi, quercia».
Se dovesse essere confermata l'annata, il prezzo dello champagne potrebbe arrivare a centinaia di migliaia di euro.


Cromwell-Morgan ha spiegato che le bottiglie saranno messe all'asta: il prezzo di partenza per ognuna sarà di 53mila euro.

Vabbè, da profano mi accontenterò di degustare una bottiglia di Abissi made in Portofino. Chissà se Lugano ha ragione?!

Fonte: www.ilsole24ore.com

Gabrile Bonci, Dino De Bellis e......la Bestia





















Dino De Bellis e Gabriele Bonci non hanno bisogogno di molte presentazioni. A Roma sono considerati portatori sani di emozioni culinarie.

Cosa ci fanno insieme? Organizzeranno a Roma, il 20 Luglio, una cena speciale con la bestia.
Volete saperene di più? Ecco cosa mi hanno detto di scrivere.

Prendi una bestia enorme, macellala, falla frollare a dovere .
Aggiungi due pazzi che la cucinano in tutti i modi possibili e ne uscira fuori una serata speciale…..
menu a sorpresa, vino a sorpresa………il prezzo € 40,00

per info e prenotazioni info@incannucciata.com

0645424282

Ah, la bestia è una manzetta di 40 mesi e 500 Kg! Se volete saperne di più andate su Scatti di Gusto

Foto di Francesco Arena