Arianna Occhipinti e il suo Frappato 2020


di Luciano Pignataro

Era l’ormai lontano 2011, annata calda, caldissima, dal Ferragosto in poi come la 2003 quando visitai Arianna Occhipinti: era proprio all’inizio di quello che poi sarebbe stato un travolgente successo. Si dice spesso che per diventare famosi bisogna saper comunicare e in ogni caso smanettare alla grande con i social. Ma questa affermazione è vera solo a metà, perché se dietro non c’è sostanza il successo dura il tempo di un battito d’ali di una farfalla.
Arianna, al contrario, nel corso degli anni è diventata una vera e propri star, un riferimento non solo per l’Italia ma anche negli Stati Uniti dove non è facile affermarsi. E la sostanza è che ho visto una ragazza nel 2011 immersa nella sua vigna, con le mani piene di lavoro manuale, che ci racconto dello zio Giusto, ci fece fare il giro dei terreni e poi bere i suoi vini nel suo salotto: una visita talmente improvvisata che andai con Leo Ciomei che è vigorosamente astemio.
Compresi subito che mi trovavo a qualcosa di nuovo, era ormai il nuovo millennio che si affermava sui blog e sui forum del Gambero. Se negli anni ’90 i personaggi erano creati dalla guida Slow-Gambero Rosso, la musica era ormai cambiata. Era anche l’epoca in cui la cavalcata trionfale del mondo dl vino aveva conosciuto prima la crisi dell’attacco alle Twin Tower, poi quella successiva, forse più pesante dal punto di vista commerciale, del crollo finanziario del 2008-2009.


Arianna capì subito l’importanza di un racconto diverso, forse meno edulcorato, del lavoro nella terra, ma soprattutto colse l’importanza di due fenomeni nascenti: la narrazione autoprodotta e non figlia dell’ipse dixit e la sensibilità verso l’ambiente come bene comune e premessa della salute del consumatore.
Inutile adesso stare a discutere nel merito di questi due temi, fatto sta che Arianna è riuscita a comunicare direttamente alla sua generazione che in quel momento si affacciava al racconto del vino in modo semplice e colloquiale, senza filtri di addetti stampa e comunicatori specializzati, per la verità molto pochi in un paese come l’Italia. E ha trasmesso questi valori come interprete autentica della sua Sicilia, liberandosi dall’assedio della guerra dei prezzi al ribasso tipica proprio della zona di Vittoria e di Avola costruendo vini semplice ma complessi, facili da leggere ma lunghi da raccontare.


Come questo Frappato. Lo beviamo, assetati, una domenica di questo agosto quando il sole declina dietro l’orizzonte del mare di Paestum: abbiamo bisogno di rilassaci, di godere questo piatto di totani al sugo e ci lanciamo sul rosso senza esitazioni perché ne conosciamo le caratteristiche: tannini presenti ma setosi e non invasivi, un bel frutto e soprattutto. Tanta, tanta acidità, freschezza, la chiusura amara e precisa che rimanda subito al secondo sorso. Nasce da uve in collina, quasi trecento metri, la fermentazione parte con lieviti non selezionati, la macerazione lunga e l’affinamento in botti grandi di rovere di Slavonia lo fanno crescere fondendo il frutto con sentori di legna che ci suggeriscono il tostato non omologante e tranquillizzanti note balsamiche.


La bottiglia finisce, impossibile bere un vino senza pensare al produttore quando lo hai conosciuto, perché la bottiglia è un rimando continuo a ciò che ho visto e sentito. Poi, prima di scrivere, leggo nelle note aziendali: “È il vino che più mi somiglia, coraggioso, originale e ribelle. Ma non solo. Ha origini contadine, per questo ama le sue radici e il passato che si porta dentro; ma, nello stesso tempo, è capace di lottare per migliorarsi. Conosce la raffinatezza senza dimenticare mai se stesso”. Tutto vero.

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