Oneglass. Perchè?


I tasting panel sono un affascinante strumento di marketing che sempre più aziende, non solo di vino, stanno sviluppando approfittando dei tanti blog che si trovano in rete.
In questo caso Oneglass, società veronese che distribuisce confezioni di vino monodose (100 ml), ha voluto mandare una serie di campioni ai principali wine blogger italiani con lo scopo di chieder loro una valutazione sul  prodotto. 

 

Le cose sono due: o sono talmente sicuri che il loro prodotto incontrerà il gusto di chi beve regolarmente vini di un certo spessore, oppure per loro vale la regola del parlatene male purchè se ne parli.
Con tutto il rispetto, è come se la Simmenthal facesse provare le sue scatolette a chi mangia la carne di Eugenio Barbieri. Staremo a vedere.

Per evitare che il mio ego enosborone ed individualista potesse fornire giudizi distorsivi e soggettivi durante la degustazione, con ovvie ripercussioni sull’articolo, ho radunato undici amici per valutare se questi vini sia noeffettivamente appetibili e mantengano le promesse.


I primi interrogativi riguardano la confezione, sicuramente leggera e molto accattivante ma, ad uno sguardo più approfondito, emergono le prime perplessità riguardo l’etichetta che, oltre a riportare banali note di degustazione, aspetto che ritrovo comunque anche in etichette di vini ben più blasonati, nulla dice sulla provenienza di questo vino. Chi è il produttore? Sono vini di una cantina sociale? In che zona sono stati prodotti? Boh!!! Poca trasparenza.

L’altra domanda che ho fatto riguarda chi dovrebbe vendere e, soprattutto, acquistare il vino monodose. Per farla breve: ma voi dove aprireste questa “finta” bottiglia?
In un wine bar? No. In enoteca? No. Al ristorante? No. La grande distribuzione, con l’attuale innalzamento della qualità media dei vini offerti, non ci pensa proprio a vendere queste confezioni che, come vedremo, sono tutt’altro che economiche. 
Le uniche risposte al quesito riguardano la possibilità di acquistare il vino all’interno di mense aziendali oppure su aerei o treni. Qualcuno lo vede bene come gadget da rivista…
Pareri che, comunque, denotano una certa perplessità nei confronti di un prodotto che, per sua natura, viene comunque visto in concorrenza con altre tipologie di vino tipo Tavernello o mezze bottiglie di vino in vetro che, pur non essendo monodose, hanno lo stesso appeal di Oneglass.

Capitolo costi. Una confezione monodose (100 ml) costa 1.60 euro. Significa che una bottiglia di questo vino costerebbe circa 12 euro. Numeri da grande vino che spaventano.
 

E' venuto il momento di capire cosa c'è dentro queste confezioni, se davvero il vino vale quanto costa.

Quattro tipologie di vino: due bianchi, Pinot Grigio delle Venezie e Vermentino, e due rossi a base di Sangiovese e Cabernet Sauvignon.

Pinot Grigio delle Venezie IGT 2009 (pinot grigio 85% e traminer 15%): odore che passa dallo straccio alla Coccoina. Sembra sintetico. Al sorso passa e se ne va.


Vermentino IGT 2009  (vermentino 85% e chardonnay 15%): anche qua al naso c’erano odori di sintesi che vagamente ricordavano la frutta. Non mi invita nemmeno a berlo.

Cabernet Sauvignon delle Venezie IGT 2008 (cabernet Sauvignon 85% e teroldego 15%): un po’ meglio dei precedenti, posso paragonarlo qualitativamente ad uno sfuso mediocre da cantina sociale.

Sangiovese Toscana IGT 2008 (sangiovese 85% e syrah 15%): vedi punto precedente anche se le caratteristiche del sangiovese e del syrah sembrano una chimera.

Conclusioni: Oneglass è un progetto dinamico e al passo con i tempi che, purtroppo, ha  il grande difetto di avere nel suo portafoglio vini di ignota provenienza e scarso pregio venduti, tra l’altro, ad un prezzo, parliamo di 16 euro al litro, non assolutamente giustificabile con un prodotto degno di un hard discount. 
Tutto questo a prescindere dalle perplessità evidenziate dal panel circa dove e quando acquistare questo tipo di confezione.

Suggerimenti: aumentare la qualità del vino puntando magari su sfusi di produttori di eccellenza il cui nome dovrebbe essere ben indicato in etichetta. Almeno saprei con chi prendermela…

Paola Di Mauro e quella testardaggine chiamata Vigna del Vassallo

Oggi vorrei parlarvi di Colle Picchioni, un’azienda vitivinicola che ha fatto un po’ la storia della mia Regione, il Lazio, essendo uno di quelle che ha sempre fatto qualità nella zona di Marino, nei Castelli Romani, anche in tempi non sospetti.
Tutto nasce nel 1976, su un piccolissimo appezzamento di terreno che la famiglia Di Mauro aveva acquistato otto anni prima per sfuggire dal caos cittadino ed immergersi nell’incanto di un posto a metà strada tra Albano e Marino. Colle Picchioni è Paola Di Mauro, donna forte che, stufa di bere il vino del contadino che fino ad allora coltivava le sue vigne, decise di farselo in proprio.


La signora Di Mauro, però, non sapeva nulla di enologia ma, caparbia e sognatrice come era, si mise a studiare per trasformare quel fazzoletto di terra in una piccola azienda vitivinicola, la sua.
A quel tempo non aveva assolutamente struttura, macchinari, mano d’opera, la giudicavano pazza, i due figli la giudicavano colpevole di "sprecare i soldi in campagna". La deridono: "Perchè ti spezzi la schiena sulla terra... Se proprio non sai come buttare i soldi vai in crociera!".

Lei va avanti lo stesso.

La sua prima vendemmia, nel 1974, venne portata avanti con mezzi di fortuna costruiti con i materiali del ferramenta.
Il “gioco” si fa importante, le piace tanto il vino che produce. Compra altri quattro ettari, si rifornisce di botti di legno, di una diraspatrice e con l' aiuto di Bianca, la sua colf mantovana, travasa il vino.

Nasconde la diraspatrice al marito mimetizzandola con un imbuto e con dei tubi di legno
. Inizia a produrre 10-12 mila bottiglie l' anno.

La svolta
avvenne in concomitanza di un vecchio Vinitaly, nel 1983 quando Paola di Mauro incontrò Giorgio Grai, uno tra i più geniali enologi italiani. Tra i due c' è subito la scintilla. Grai è un tipo franco, uno capace di dire davanti a tutti "lei ha fatto una merda" oppure "cambi mestiere". Grai assaggia il Colle Picchioni, il vino della signora e dice: "Lei potrebbe fare figli magnifici. Perchè si ostina a farli con un po' di gobba?". La signora di rimando: "Se lei è tanto bravo mi dica come, ecco il mio numero di telefono". E tra i due nasce alla prima telefonata un grande amore professionale.
Da quel momento in poi arrivarono i primi successi grazie soprattutto a Veronelli che non smetteva di decantare il vino di Colle Picchioni. La costanza qualitativa del vino e l’inserimento dell’azienda nelle principali guide fecero il resto, la storia.


Oggi l’azienda è condotta da Armando Di Mauro, il figlio di Paola, che ho avuto l’onore di avere al mio fianco in una splendida cena tra amici all’interno della quale abbiamo ripercorso un pezzo di storia del suo Vigna del Vassallo, taglio bordolese da omonima vigna il cui nome è una dedica al lavoro dei vassalli dei principi Colonna a cui appartenevano originariamente i terreni dell’azienda.

Armando, durante la cena, ci porta in degustazione la prima (1981) e l’ultima annata (2008) del Vigna del Vassallo.
Il 1981, purtroppo, era sul viale del tramonto, troppi capelli grigi e troppe rughe per essere ancora quel vecchio playboy di una volta.
Il 2008 è una vera e propria anteprima per i presenti, giovanissimo eppur già godibilissimo con la sua vigorosa impronta di frutta rossa croccante, rosa canina e terra vulcanica. Bocca di grande coerenza con il naso. Uno dei pochi grandi rossi del Lazio.


Piccola chicca: sapendo della presenza di Armando di Mauro, ho stagnolato un Vigna del Vassallo 1985 (grande annata per la zona dei Castelli Romani) al fine di testare la bravura dei miei compagni di bevuta. Ebbene, alla cieca anche i migliori posso sbagliare visto che il taglio bordolese laziale è stato scambiato anche per un Monfortino. L’unico a non avere dubbi sul vino, fortunatamente, è stato proprio Armando. Non è cosa da poco, credetemi, la lista dei produttori distratti è molto vasta e ne comprende alcuni davvero titolati.

Foto tratte dalla rete e dal sito www.collepicchioni.it

Bollicine abissali!


Piero Lugano
, titolare dell'azienda vinicola Bisson di Chiavari ed ex insegnante di materie artistiche, da tempo studiava i ritrovamenti sottomarini di antichi galeoni contenenti vino, olio ed altri generi gastronomici che, dopo centinaia d'anni, si erano conservati in ottimo stato.

Lugano già sapeva quando, dal fondale della Cala degli Inglesi, baia incontaminata situata tra il faro di Portofino e la Cala dell'Oro, ha tirato su il primo dei dodici gabbioni contenenti 6.500 bottiglie del suo spumante denominato “Abissi – Riserva Marina di Portofino”, prodotto non in una semplice cantina ma ad profondità di 70 metri, con una temperatura costante di 15 gradi, in ambiente carente di luce: contesto che, assieme all'ottima
le bilanciamento di pressione garantito a simili profondità, favorisce il processo di spumantizzazione.

Lugano sapeva ma non poteva prevedere certo che da là
a qualche settimana tutti i suoi studi, i suoi sogni e le aspirazioni potessero concretizzarsi sul fondo del Mar Baltico. La notizia è di ieri: 30 bottiglie di champagne di 230 anni fa sono state scoperte sul fondo del Baltico. Secondo gli esperti, grazie alle ottime condizioni di conservazione, potrebbe trattarsi dello champagne ancora bevibile più invecchiato della storia.


Le trenta bottiglie, trovate da alcuni sub a una profondità di 55 metri farebbero parte di una spedizione effettuata da Re Luigi XVI allo zar russo Pietro il Grande. La scoperta è avvenuta durante un'immersione lo scorso 6 luglio al largo dell'isola finlandese di Aaland, a metà strada tra la Svezia e la Finlandia.
I sommozzatori hanno contattato inizialmente Moet & Chandon secondo cui però al 98% si tratta di Veuve Clicquot.

La data indicativa è stata dedotta dalla storia dello champagne francese: il Veuve Clicquot fu prodotto per la prima volta nel 1772, ma le prime bottiglie furono tenute a riposo per dieci anni prima di essere messe sul mercato. Perciò quelle sco
perte nel Baltico devono risalire agli anni che vanno dal 1782 al 1788-1789, quando, con lo scoppio della rivoluzione francese, si interruppe la produzione.


Ad assaggiare per primo il preziosissimo champagne è stata l'esperta finlandese, Ekka Gruessner Cromwell-Morgan. Il colore dello champagne è oro scuro con un aroma molto intenso, ha raccontato, «un forte retrogusto di tabacco, di grappa, di frutti bianchi, quercia».
Se dovesse essere confermata l'annata, il prezzo dello champagne potrebbe arrivare a centinaia di migliaia di euro.


Cromwell-Morgan ha spiegato che le bottiglie saranno messe all'asta: il prezzo di partenza per ognuna sarà di 53mila euro.

Vabbè, da profano mi accontenterò di degustare una bottiglia di Abissi made in Portofino. Chissà se Lugano ha ragione?!

Fonte: www.ilsole24ore.com

Gabrile Bonci, Dino De Bellis e......la Bestia





















Dino De Bellis e Gabriele Bonci non hanno bisogogno di molte presentazioni. A Roma sono considerati portatori sani di emozioni culinarie.

Cosa ci fanno insieme? Organizzeranno a Roma, il 20 Luglio, una cena speciale con la bestia.
Volete saperene di più? Ecco cosa mi hanno detto di scrivere.

Prendi una bestia enorme, macellala, falla frollare a dovere .
Aggiungi due pazzi che la cucinano in tutti i modi possibili e ne uscira fuori una serata speciale…..
menu a sorpresa, vino a sorpresa………il prezzo € 40,00

per info e prenotazioni info@incannucciata.com

0645424282

Ah, la bestia è una manzetta di 40 mesi e 500 Kg! Se volete saperne di più andate su Scatti di Gusto

Foto di Francesco Arena

Etichette d'autore: Chateau Mouton Rothschild

Château Mouton Rothschild, premier cru bordolese, è sicuramente uno dei vini più famosi al mondo non solo per la bontà del vino, ma anche perchè ogni annata del Mouton è caratterizzata da un'etichetta realizzata da un pittore contemporaneo che, generalmente, viene dedicata alle vigne, al vino oppure, occasionalmente, per celebrare eventi storici.

La prima etichetta d'autore è del 1924, quando il barone Philippe de Rothschild chiese a Jean Carlu di disegnarla per le bottiglie di quell'annata. Poi una lunga pausa, fino al 1945, quando per celebrare la pace, la seconda etichetta fu commissionata a Jean Oberle. Da lì un crescendo, con il coinvolgimento degli amici del barone tra cui Da, Mirò, Chagall, Picasso ed Andy Warhol.

Che ne dite di vederne qualcuna?


1945- La prima etichetta

1958 - Salvator Dalì

1969 - Joan Mirò

1970 - Marc Chagall

1973 - Pablo Picasso

1975 - Andy Warhol


Non finiscono qua le sorprese perchè etichette sono state create anche dal Principe Carlo, nel 2004, e da Lucian Freud, figlio del più famoso Sigmund.
Ovviamente tutti questi artisti vengono ricompensati con più casse di Château Mouton Rothschild.
Se volete vedere tutte le etichette fino ad ora prodotte questo è il sito:
http://www.theartistlabels.com/index.html

Parliamo di metalli pesanti nel vino?


Purtroppo le brutte notizie non sono finite.

Nel vino, così come in tantissimi altri alimenti, non dobbiamo fare i conti solo i pesticidi, i pericoli alla nostra salute giungono anche da un altro nemico invisibile: i metalli pesanti.

La notizia è del 2008 ma, nel frattempo, non credo che le cose siano migliorate, anzi.

Uno studio pubblicato dal Chemistry Central Journal e coordinato da Declan P. Naughton, ha voluto indigare sulle sostanze contenute nei comuni vini da tavola bianchi e rossi prodotti in 15 Paesi distribuiti tra Europa, Sudamerica e Medio Oriente, per ricavarne indicazioni sui loro livelli di contaminazione metallica.
La pericolosità di quest’ultima è stata valutata in base a un indice definito Target Hazard Quotient (THQ), originariamente messo a punto dall’Agenzia statunitense per la protezione ambientale allo scopo di stabilire i rischi per la salute comportati dai pesticidi.

Un valore del quoziente in questione che sia superiore a 1 rappresenta una minaccia alla salute, perciò i ricercatori sono rimasti sorpresi dalla constatazione che esso viene abbondantemente superato dai vini di 12 dei 15 Paesi presi in considerazione, con le virtuose eccezioni, per l’appunto, dell’Italia, del Brasile e dell’Argentina.

I principali metalli responsabili della contaminazione sono il vanadio, il rame e il manganese, seguiti dallo zinco, dal nichel, dal cromo e dal piombo.

La maglia nera dei vini che sanno di metallo va all’Ungheria e alla Repubblica Slovacca, dove il quoziente di rischio può superare il 350, ma non scherzano Paesi come la Francia, l’Austria, la Spagna, la Germania e il Portogallo, nei cui bicchieri nuotano ioni metallici in grado di proiettare le probabilità di una pesante bevuta oltre quota 100. Un po’ meno a rischio sono invece i vini prodotti in Grecia, Repubblica Ceca, Giordania, Macedonia e Serbia.


«In molti vini abbiamo riscontrato valori preoccupanti, senza differenze sostanziali fra i rossi e i bianchi», riferisce Naughton. «Un eccesso di metalli nella dieta viene associato a patologie come la malattia di Parkinson; inoltre, i metalli aumentano la probabilità di danno ossidativo, componente chiave delle malattie infiammatorie croniche e probabilmente di molte forme di tumore».

«I livelli di metalli dovrebbero essere segnalati nelle etichette», conclude Naughton.

Ohhhh e parliamo di etichetta allora, anzi, di retroetichetta!

Qualche blog si sta occupando in questi ultimi tempi di come dovrebbe essere quella del vino.
La mia versione somiglia molto a quella delle acque minerali, vorrei un’analisi delle caratteristiche chimiche e chimico-fisiche del vino che mi dica se e in che quantità sono presenti le seguenti sostanze:

Fungicidi
Diserbanti
Acaricidi
Regolatori di crescita
Insetticidi
Metalli pesanti


Questo sarebbe già un ottimo punto di partenza. Poi, come ha fatto il siciliano Bini, va benissimo inserire informazioni su eventuali prodotti aggiunti (lieviti, tannini, acidificanti, etc) o sulle pratiche di cantina (osmosi inversa, filtrazioni, etc,).

Etica e salute, spesso, vanno di pari passo.


Franco Ziliani, nonostante tutto, ci mancherai.


Vino al Vino, il blog di Franco Ziliani, ex Franco Tiratore, chiude o, almeno, è quello che scrive lo stesso autore nel suo sito internet.

Le motivazioni sono profonde, pensate forse da molto tempo, non è un ragazzino Franco.

Scrive testualmente che:"
Non avendo chiare le idee sulla mia vita, non posso fare finta di niente e continuare a condurre questo diario in pubblico come se nulla fosse ed è lo stesso senso del mandare avanti un blog, raccontando molto di me come ho fatto e non limitandomi a parlare di vino, ad essere profondamente messo in discussione, a rivelarsi, in fondo, privo di senso. Questo anche se scrivere è la mia ragione di vita, l’unica cosa che, forse, so fare decentemente".

Non conoscevo Franco Ziliani di persona, ci siamo scambiati a volte qualche mail, un anno fa, quando vinsi il Blog Cafè, non mi risparmiò delle frecciatine. Non è amato da tutti, molto lo criticano più o meno giustamente, a me non interessa, quello che conta è che una voce libera su internet cesserà di gridare, di raccontare il vino. E questo ci renderà tutti più poveri.
Nonostante tutto, caro Franco, ci mancherai.

Con stima

Andrea Petrini

Piccola panoramica sui vini dell'Etna

Non vorrei che sia l’ennesima moda dove tanti, troppi, si sono buttati dentro senza un minimo di cognizione, non vorrei che, come accadde col nero d’avola, alla fine qualcuno sputtani quei i pochi, i Pionieri del Nerello, che con tanto amore stanno rilanciando un territorio.

Siamo in Sicilia, l’Isola del Fuoco come la definì Dante riferendosi all’Etna, un ecosistema unico al mondo la cui storia inizia con una lunga e suggestiva vicenda geologica, durata forse 500 mila o 700 mila anni, che ha dato origine alla regione etnea ed al vulcano più alto d'Europa. Un'area interamente costruita dal vulcano che nei secoli ha eruttato quantità enormi di lava.


Con l'aiuto del tempo, l'azione dell'uomo ha tenacemente sovrapposto al paesaggio lavico un paesaggio agricolo tra i più ricchi dell'isola dove l’arte di coltivare e lavorare la vite ha origini ed usanze antiche: nella "Storia dei Vini d’Italia", pubblicata nel 1596, venivano ricordati i vini prodotti sui colli che circondano Catania la cui bontà veniva attribuita alle ceneri dell’Etna. Oggi, a rendere davvero grandi questi vini, concorrono alcuni fattori: i terreni di origine vulcanica, a volte ciottolosi e ghiaiosi, a volte sabbiosi o meglio cinerei , le grandi escursioni termiche, che arrivano anche a 25/30 gradi tra il giorno e la notte ed infine l’età delle viti.

Qui troviamo alcuni dei vigneti più vecchi coltivati in
Italia, addirittura più che centenari e ancora a piede franco. Anche se non mancano impianti a cordone speronato o a spalliera la forma di allevamento più usata, che è anche quella più tradizionale, è l’alberello arrampicato su tutto il monte con l'aiuto delle nere terrazze di pietra lavica, trova da secoli la sua ideale ambientazione.

L’areale dell’Etna Doc, prima denominazione di origine siciliana (1968), ha una forma semicircolare che si estende da nord a sud-ovest in una fascia che va da 450 a 1000 metri di altitudine sul livello del mare. La zona, suddivisa in contrade, ha il cuore vinicolo pulsante situato nei dintorni di Castiglione di Sicilia e Randazzo.


E’ in questi comuni che vengono allevati i tre vitigli autoctoni dell’Etna: il nerello mascalese e il nerello cappuccio per i rossi e il carricante per i bianchi.
Il primo di questi, concorrendo per l’80 – 100% alla produzione totale del vino rosso Etna Doc, è sicuramente il vitigno principe della zona e si presum
e sia originario della storica Contea di Mascali, un vastissimo territorio che, a partire da alcune donazioni normanne del XII° secolo e fino ai primi dell’‘800, comprendeva, oltre all’attuale comune di Mascali, parte dell’Acese, gran parte delle falde orientali e nord–orientali del Vulcano e persino molte plaghe del messinese.


Vitigno difficile il nerello, molti lo paragonano al nebbiolo per la maturazione tardiva (2ª decade d'ottobre) e al pinot nero per quanto riguarda la sensibilità all’annata e al terroir di appartenenza. Roba tosta, insomma, per vignaioli veri, eroici, gli stessi presenti la scorsa settimana all’AIS di Roma dove è andata in scena una interessante verticale di Vini dell’Etna, un’occasione per capire chi fa sul serio e chi, invece, sta là solo per moda.

Ricordate il discorso che ho fatto all’inizio, vero? Ecco qua
lche appunto di degustazione.

Vivera
Salisire 2008: 100% carricante da produzione biologica. E’ un vino che ti strega per grande mineralità, salinità e freschezza. Forse gli manca un po’ di struttura visto che nel finale di bocca cede troppo e non si allunga.

Passopisciaro – Passopisciaro 2007: 100% nerello mascalese. Olfatto molto coinvolgente, c’è un bouquet di fiori contornato da tanta frutta rossa croccante. Bocca un po’sfuggente, manca avvolgenza e persistenza. Per i miei gusti scivola via un po’ troppo.

Passopisciaro – Contrada Chiappemacine 2
008: 100% nerello mascalese da piante di oltre ottanta anni. Questo vino è figlio di una piccola Contrada sui 550 metri s.l.m., collocata tra strapiombi di pietra arenaria che la lava è appena arrivata a circondare. Diverso dal precedente, più complesso, profondo, lavico come dovrebbe essere un vino dell’Etna.


I Vigneri – Etna Rosso 2008: azienda interessantissima che produce un rosato davvero eccellente. In questa occasione ho degustato il loro rosso base da nerello mascalese e nerello cappuccio prodotto dai loro vigneti situati a varie altitudini. Naso inizialmente selvatico, poi escono le note dolci di fiori rossi, ciliegia, mora di rovo che, col tempo, si fondono ad un “amaro” dato da sensazioni di radici e pietra lavica. Bocca di discreta struttura e acidità. Un buona partenza che prelude a crescenti emozioni.


Biondi – Outis 2006: 100% nerello mascalese prodotto da vita di 40 anni di media. L’unico vino dell’Etna portato in degustazione con qualche anno sulle spalle. Vino di grande espressione territoriale, un vulcano all’interno del bicchiere visto che le sfumature aromatiche sono tutte di frutta rossa matura, catrame, cenere, polvere pirica, macchia mediterranea. In bocca è di grande equilibrio. Persistenza finale lunga giocata su ritorni di grafite. Questo è quello che mi aspetta da un vino dell’Etna.

Frank Cornelissen - MunJebel Rosso 2008:
ha bisogno di poche presentazioni questo belga trapiantato in Sicilia che, nel produrre il vino, impara dalla Natura. Questo vino è un assemblaggio di vari vigneti (contrade) e varie annate di nerello mascalese maturo e selezionato. E’ un vino diverso dagli altri, è chiaro fin da subito, e lo si nota da subito perché inizialmente, pur essendo giovane, è terziarizzato nelle sensazioni di cuoio, di fiori secchi appassiti, poi esce il terreno lavico e la ciliegia matura. Bocca spiazzante perché a tratti acerba, mi ricorda quando metto in bocca la buccia e i vinaccioli dell’uva. Deve essere così questo vino? Mah!

Tenuta di Fessina – Musmeci 2007
: prodotto in contrada Rovittello da uve nerello mascalese e nerello cappuccio di oltre 80 anni di età. I tre bicchieri verdi del Gambero Rosso e l’eccellenza della Guida ai vini de L’Espresso 2010 non posso essere un caso. All’olfattiva è ampio, fresco, disposto su sensazioni di viola appassita, geranio, frutta rossa croccante, humus, liquirizia, polvere di lava, rabarbaro. Bocca viva, tenace, di grande progressione e piacevolezza e persistenza. Il miglior vino della serata senza dubbio.


Degustato al volo anche il Quota 600 di Graci, sempre gradevolissimo, mentre la maglia nera della serata spetta a Cottanera col suo Barbazzale 2009 che aveva un naso dolcissimo da caramella Charms al lampone e una bocca sfuggente e contraddittoriamente amara. Bottiglia non in perfette condizioni?

Fonti:
http://www.vinisiciliani.it; http://www.winews.it; http://www.etnadoc.com; http://www.aislombardia.it; http://www.teatronaturale.it

Segui Percorsi di Vino!

Vuoi essere sempre aggiornato sui nuovi articoli Percorsi di Vino?

Nulla di più semplice? Diventa un lettore fisso cliccando sull'icona Segui con Google Friend Connect


oppure Abbonati, ovviamente gratis, e leggi le ultime novità in campo di vino utilizzando un semplice RSS Reader

Moët & Chandon e il marketing estivo dello Champagne

Che lo Champagne non se la passi bene lo confermano i dati: le vendite totali di Champagne francese nel 2008 sono state di 322 milioni di bottiglie, registrando un calo del 4,8% rispetto all’anno precedente, mentre nel 2009 le esportazioni hanno subito un forte calo, circa il 9% in meno. Non mi sorprende, pertanto, che qualche Maison francese stia tentando tutte le strade per cercare di invertire il trend negativo. A tutto, però, c’è un limite e questo, dal mio punto di vista, l’ha superato Moët & Chandon, storica casa produttrice di Champagne che sta usando il marketing del vino nella maniera peggiore.

Il motivo di ciò? Eccovene due

Il primo si chiama Moët & Chandon Ice Imperial ed è uno champagne elaborato da Benoît Gouez ((chef de cave di Moët et Chandon dal 2005) per essere bevuto con giaccio o, se volete, « on the rocks ». Sarà distribuito presso i migliori stabilimenti balneari del mondo.
Quindi da ora in poi lo Champagne sarà considerato alla stregua del San Bitter bianco? Non è finita qua.


Sempre per l’estate la stessa Maison lancia le “Summer Bubbles”, palle di Natale dorate che, aprendosi, nascondono frutta secca disidratata che, secondo loro, non aspetta altro che essere messa all’interno dello flute.
E così abbiamo fatto pure la Sangria di lusso…


La Franciacorta e tutto il Trentodoc ringrazia sentitamente!

Bevute mondiali: Germania contro Spagna è anche Lopez de Heredia contro Egon Muller

Spagna contro Germania, David Villa contro Miroslav Klose, passione latina in opposizione all’algidità teutonica, vini rossi mediterranei contrapposti a vini bianchi di grande freschezza.

Spagna e Germania, due mondi diversi tra loro che mi offrono lo spunto per parlare di Lopez De Heredia, storica casa vinicola spagnola, ed Egon Muller, “tetesco” di Mosella i cui vini possono raggiungere alle aste quotazioni incredibili.

Torniamo indietro nel tempo, siamo in Spagna intono alla metà del XIX secolo, Don Rafael López de Heredia y Landeta, un visionario studente di enologia, si innamora perdutamente del territorio di Haro, nella regione della Rioja Alta, dove trova una combinazione di clima e suolo che potrebbe permettere di ottenere grandissimi vini. E’ l’inizio. Nel 1877 inizia la progettazione e la costruzione della cantina che ancora oggi è conosciuta come Lopez de Heredia, un’azienda famigliare che da generazioni sta dando vita a al sogno di Don Rafael.


Oggi l’azienda si estende per oltre 54.000 metri quadrati, i vigneti, veri e propri cru che si chiamano Tondonia, Bosconia, Cubillo e Gravonia, occupano un’estensione di oltre 170 ettari con una produzione media annuale di circa 800.000 chili di uva, che viene vendemmiata anticipatamente, evitando problemi di surmaturazione e garantendo acidità e “equo” tenore alcolico.
Perché amo (e segnalo) questa azienda? Perché per loro l’affinamento del vino è una vera e propria filosofia di vita, i vini rossi e, soprattutto, i vini bianchi sono fatti maturare per tantissimi anni in bottiglia: le annate particolari denominate “Gran Reserva” trascorrono in botte anche nove anni e mezzo e vengono imbottigliate, previa chi
arifica con albume, direttamente dalla botti per poi trascorrere altri 8-10 anni in bottiglia prima di andare in commercio. Avete capito bene, oggi possiamo comprare tranquillamente un Viña Tondonia Tinto Gran Reserva 1991 come se fosse un nostro 2008.


Da uve Tempranillo (75%), Garnacho (15%), Mazuelo e Graciano (restante) nel bicchiere si presenta intenso di profumi mediterranei che vanno dalla frutta di rovo al tabacco da pipa, dal floreale di rosa al minerale più oscuro ed intrigante. Non finiremmo mai di trovare aromi. In bocca sorprende per quella freschezza ricercata in fase di vendemmia e per un’avvolgenza e una profondità che sono proprie solo dei grandissimi vini. Don Rafael aveva visto giusto.



Andiamo in Germania, da Egon Müller, la cui azienda, come la precedente, affonda le origini nel passato visto che Jean-Jacques Koch, il suo bis-bisnonno, acquisì la proprietà Scharzhof, dalla Repubblica Francese nel 1797.
Egon IV, ex studente della Università di scienze applicate Geisenheim e attuale proprietario dell’azienda, ama definirsi un “viticultore servo della vigna”, una frase che riassume le caratteristiche della sua produzione che vieta in maniera assoluta l’uso di erbicidi, insetticidi e fertilizzanti chimici.

Nella Saar l’azienda ha un totale di 16 ettari di vigneto, dei quali 8,3 (su 28 complessivi) nello
Scharzhofberg, incastonato su un suolo di ardesia azzurra e grigia, e 4,5 nel Braune Kupp (posseduto in monopolio), i cui vini vengono imbottigliati con l’etichetta Le Gallais. La vinificazione viene fatta sia in acciaio (per i base aziendali) che in botti grandi (le tradizionali “fuder”, botti da 1000 litri), utilizzando solo lieviti naturali che devono operare, in fase di fermentazione, alla naturale temperatura di cantina, circa 10 gradi, portando avanti la vinificazione anche per molto tempo.


Sempre con un minimo residuo zuccherino, perché bisogna rispettare la tradizione, i vini di Egon Muller, soprattutto gli Auslese e i T.B.A, sono vini dalla grande longevità ed eleganza, purezza cristallina che si concretizza all’interno di una bottiglia di Scharzhofberger Auslese 1971, il cui dono ha lo stesso effetto di un pacco regalo scartato da un bambino a Natale: incredulità mista a gioia irrefrenabile.
Questo Riesling è davvero un marziano atterrato sulla Terra, prendete tutte le sfumature della frutta gialla, declinate ogni specie di spezia orientale e fatevi assorbire dal minerale della sua anima. Il risultato di questa operazione è un vino immenso e profondo, senza se e senza ma. Un’esperienza extra-terrestre che ogni appassionato dovrebbe fare nella sua vita.


Fonti: www.vinealia.org - www.vinoedesign.it - www.enodelirio.it

QR Code, il vino diventa multimediale!

A vederlo sembra un quadrato composto da tanti puntini neri, ma se lo si inquadra con la fotocamera del telefonino, si trasforma e racconta tutto di sé. Si chiama Qr Code ed è l’abbreviazione inglese di «quick response» (risposta rapida), l’erede del “vecchio” codice a barre.

Come scrive Panorama, primo giornale ad aver utilizzato il codice a fini commerciali, il QR Code rappresenta oggi una sorta di trait d’union tra il mondo cartaceo e quello multimediale di internet. Una porta d’accesso a contenuti aggiuntivi
che per la loro natura digitale non troverebbero spazio sulla carta e che invece arrivano, via web, direttamente sullo schermo del telefonino, basta avere un apposito software di lettura e la connessione internet.
Una semplice inquadratura e quei puntini ci sveleranno un mondo fatto di link a siti web, frasi, brevi audio o video.



In Giappone li utilizzano già da dieci anni, addirittura è stata creata una struttura commerciale, la N building, dove per la facciata, per non deturpare l’ambiente con cartelloni vari, è stato usato un codice QR che, con la sua lettura, vi proietterà sul sito che comprende oltre la presentazione del negozio anche tutti i dati e le informazioni dello stesso.


Anche negli Stati Uniti il QR Code è diffuso da molti anni: Ikea, ad esempio, ha stampato il codice su una serie di volantini; basta fotografarlo e si ottiene un coupon di sconto da detrarre alla cassa.
In Europa sta man mano prendendo piede: la Pepsi, in Danimarca, ha ideato affissioni e lattine con il Qr code. Chi lo inquadra ottiene una bibita gratis e le informazioni sui concerti che Pepsi sponsorizza a Copenaghen. Nel Regno, altro paese dove i tag bidimensionali stanno spopolando, l’uscita in dvd del film 28 Weeks later è stata lanciata, fra l’altro, posizionando un tag sul sito web del film e su affissioni outdoor nella città di Londra con l’obiettivo di incrementare la community dei fan del film.
In Italia il Qr Code sta diventando solo oggi diffuso: Panorama, Ciak, La Gazzetta dello Sport ed altri giornali stanno usando il codice che troveremo, tra l’altro, impresso presso gli stand dei Presidi Slow Food al prossimo Salone del Gusto di Torino.

Ovviamente, non potevano mancare le applicazioni per quanto riguarda il vino. Immaginate di essere in un’enoteca o presso il vostro ristorante preferito, puntate il telefono sul codice e potrete avere tutte le informazioni possibili e immaginabili sul vino che state comprando o scegliendo dalla carta dei vini: la storia dell’azienda, le vigne, la cantina, gli abbinamenti e i premi saranno tutte informazioni a portata di clic, così come la possibilità di acquistare on line il vino a prezzi vantaggiosi qualora fosse di particolare gradimento.

Il mondo del vino sta man mano scoprendo l'utilità di questo innovativo codice: Rocca di Frassinello, Nino Negri, l'Azienda Agricola San Giovanni e, soprattutto, Il Mosnel, sono solo alcuni dei produttori che stanno tracciando la via verso un "nuovo" modo di comunicare il vino.

Ce la faranno? Personalmente la cosa non mi dispiace anche se, non essendo un amante del telefonino, trovo la cosa un pò frustrante. Ah, la tecnologia!

P.S.: il QR Code che vedete all'inizio del post dovrebbe essere quello del mio blog. Che mi dite se funziona?

La Banca Solidale del vino: un sogno diventato realtà

Non facciamo gli ottimisti da quattro soldi, il terremoto in Abruzzo di un anno fa ha fatto e sta facendo ancora molti danni, sia materiali sia economici.


In questo anno molto personalità pubbliche e private si sono mosse per dare una mano ai residenti delle zone terremotate per permetter loro di rialzarsi nel più breve tempo possibile, per garantirgli un futuro, un’ancora di salvezza.

Una di queste persone è stata
Antonio Paolini, abruzzese e giornalista enogastronomico, che ha raccolto le grida d’aiuto di decine tra ristoratori e gestori di enoteche e wine bar che vorrebbero riaprire ma non possono, troppo il danno economico subito per via delle tante bottiglie rimaste sotto le macerie.
La sfida Paolini la lancia qualche mese fa chiedendo la solidarietà dei produttori di vino. L’idea è creare una banca solidale del vino. I produttori che aderiranno manderanno 12 bottiglie della loro azienda e un comitato di “saggi” (sommelier, rappresentanti dei commercianti e delle guide dei vini) le distribuirà in base ai bisogni degli esercenti locali.



Bene, il sogno è diventato realtà perché proprio ieri ho letto su vari giornali che sono state raccolte oltre 1700 bottiglie da tantissimi di produttori italiani di vino e due consorzi, il Soave ed il Sagrantino.


Il 7 luglio, alla presenza delle autorità aquilane, di una delegazione del Comune di Teramo, del comandante della Caserma, il generale Fabrizio Lisi, e di alcuni produttori, tra cui il presidente del Consorzio del Soave, Arturo Stocchetti, e la Confraternita del Sagrantino, prenderà il via l'organizzazione della distribuzione.

Paolini ce l’ha fatta, un’altra goccia nel mare si è aggiunta.

Il Barolo Rocche dell’Annunziata 2006 di Mauro Veglio. Modernisti si può!

Durante Radda nel Bicchiere, manifestazione di cui ho parlato qualche settimana fa, si è anche giocato grazie al seminario guidato da Carlo Macchi (direttore di Winesurf) dove, assieme ad altri appassionati, si è cercato di scoprire quali sono le differenze e le similitudini tra il nebbiolo e il sangiovese.


Sei i vini versati alla cieca nel bicchiere, tre grandi Barolo e tre grandi Chianti Classico di Radda erano sottoposti al nostro insindacabile giudizio che, alla fine, ha premiato quasi all’unanimità un grande nebbiolo, il Barolo Rocche dell'Annunziata 2006 di Mauro Veglio che per me, ancora troppo lontano dal Piemonte, era un produttore che non conoscevo.

Figlio di contadini delle Langhe che hanno sempre venduto le loro uve sul mercato dei mediatori e delle grandi aziende commercianti, nel 1992 Mauro Veglio, prese le redini dell’azienda, decide di cambiare rotta seguendo l’esempio dell’amico e vicino di casa Elio Altare e inizia, con una drastica riduzione delle rese per ettaro, a produrre uva da vinificare direttamente nella nuova cantina.



L’azienda attualmente consta di circa 13 ettari, tra La Morra e Monforte d’Alba, e la produzione media annua è di circa 60.000 bottiglie.
Nel vigneto i trattamenti sono ridotti al minimo utilizzando, quando serve, solo zolfo e verderame, o solfato di rame.
Con un vicino come Altare che ha influenzato il modus operandi in cantina, la tradizione lascia il passo all’innovazione: macerazioni brevi a temperatura controllata nei rotofermentatori, nessun uso di lieviti selezionati, affinamento in piccole botticelle di rovere ed imbottigliamento senza ricorso a filtraggi o chiarifiche.
Quattro sono i cru di Barolo prodotti quando l’annata lo consente: Arborina, Gattera e Rocche dell’Annunziata, situati a La Morra, e Castelletto, di proprietà della famiglia della moglie Daniela, nel comune di Manforte d’Alba.

Davanti a me ho il Barolo Rocche dell’Annunziata 2006, l’ultima annata di questo piccolo Cru (0.5 ettari) la cui produzione annua, nelle annate migliori, è di circa 1.800 bottiglie. Alla cieca non avrei mai riconosciuto il produttore, da un “non tradizionalista” che punta sulla bevibilità del vino ti aspetti nel bicchiere un Barolo piuttosto concentrato, rotondo, tutto tranne che “acido”. Errore!
Il vino ha una bella vesta aranciata, trasparente, nulla che faccia capire che si è usato un rotomaceratore per quattro giorni. Il naso è davvero bello, il migliore della giornata, è davvero la quintessenza del nebbiolo con i suoi intensi, eleganti e persistenti aromi di scorza d’arancia, rosa selvatica, erbe, fieno, tabacco da pipa. In bocca l’impronta del produttore si fa sentire nell’ottima bevibilità, qualità surrogata da una struttura dinamica, profonda ed armoniosa. Ottima persistenza.
L’unico difetto? E’ un 2006 e forse è già “troppo” pronto per essere un Barolo. Staremo a vedere in futuro.