Il nuovo volto del vino naturale: dati, tendenze e sfide di un mercato globale


C’è stato un tempo in cui chiedere un vino naturale al ristorante suscitava sguardi perplessi. Un tempo in cui la parola “torbido” era sinonimo di difetto, non di fascino, e in cui i piccoli vignaioli che rifiutavano diserbanti e lieviti selezionati erano considerati eccentrici, talvolta ingenui. Poi, lentamente, il vento è cambiato. Oggi il vino naturale è un linguaggio universale, un modo di bere ma anche di pensare, una filosofia che parla di terra, di persone, di un’etica condivisa.


L’analisi pubblicata da Raisin Digital, la più grande piattaforma mondiale dedicata ai vini naturali, fotografa con chiarezza la rivoluzione avvenuta tra il 2016 e il 2024. In otto anni, la rete dei locali che propongono vini naturali è cresciuta del 60%, passando da cinquemila a oltre ottomila indirizzi nel mondo. Non si tratta di una fiammata passeggera, ma di un cambiamento strutturale che ha ridefinito la geografia del vino e il suo stesso modo di essere raccontato.


La mappa tracciata da Raisin mostra una costellazione sorprendente: Parigi con quasi seicento locali, New York con più di centottanta, Roma al terzo posto con centotrentatré. Ma più dei numeri colpisce la dinamica: in Italia, il paese che più di ogni altro ha visto una crescita esplosiva (+3428% in otto anni), il fenomeno si è spostato dai wine bar di nicchia alle tavole dei ristoranti. A Roma, i locali che propongono vini naturali sono quasi raddoppiati, ma i wine shop e i bar dedicati sono diminuiti. Un segnale preciso: il vino naturale è uscito dalla sua bolla culturale per entrare nel cuore della ristorazione, diventando parte integrante dell’esperienza gastronomica contemporanea.


Non è difficile intuire le ragioni di questa ascesa. La prima è l’autenticità, parola abusata ma mai come in questo caso appropriata. Il consumatore di oggi non si accontenta di un’etichetta accattivante o di un punteggio in guida: vuole sapere da dove viene il vino, chi lo fa, come lo fa. Vuole un racconto credibile, fatto di mani, di suoli, di fermentazioni che seguono i ritmi della natura. È una sete di verità, più che di novità, quella che ha spinto milioni di persone verso bottiglie non sempre perfette ma vive, che cambiano nel bicchiere come cambiano le stagioni in vigna.
A muovere questa ricerca non è solo il gusto, ma anche la coscienza ambientale. L’agricoltura convenzionale è responsabile di un uso massiccio di pesticidi e fertilizzanti chimici; la viticoltura, pur occupando una piccola parte della superficie coltivata europea, ne assorbe una quota importante. Non sorprende allora che in Francia, dal 2010 al 2024, la superficie in biologico o in conversione sia passata dal 6% al 22%. In Italia, secondo Raisin, si contano oggi 739 vignaioli naturali su circa 30.000 aziende: una piccola minoranza, certo, ma in costante crescita, con un impatto culturale molto più ampio dei numeri.


Il vino naturale, insomma, non è più un semplice prodotto agricolo: è diventato un manifesto di sostenibilità. Dietro ogni bottiglia c’è una visione: meno chimica, più vita nel suolo, fermentazioni spontanee, energia risparmiata, bottiglie più leggere, etichette che raccontano la provenienza come un gesto di verità. È un modo di fare agricoltura che non guarda solo al profitto ma al futuro, un ritorno all’essenziale che oggi appare, paradossalmente, come la forma più evoluta di modernità.


C’è poi un aspetto meno evidente ma altrettanto decisivo: la dimensione urbana del fenomeno. Le grandi città sono diventate epicentri del naturale. È nei quartieri creativi di Parigi, Berlino, Barcellona, Roma o New York che il movimento ha trovato il suo pubblico: una generazione colta, curiosa, cosmopolita, attratta tanto dall’etica quanto dall’estetica del vino naturale. Bere naturale, oggi, è anche un gesto culturale, un modo di appartenere a un mondo che privilegia la sincerità alla perfezione, l’esperienza alla competizione. È il vino che parla la lingua dei cuochi contemporanei, delle cucine vegetali, delle fermentazioni spontanee, dell’equilibrio tra gusto e consapevolezza.

Ma dietro questa luminosità non mancano le ombre. Il successo ha portato con sé sfide nuove, che rischiano di incrinare la purezza del messaggio originario. La prima, inevitabile, è quella economica: produrre naturale costa di più. Le rese sono basse, il lavoro è manuale, la burocrazia del biologico è spesso complessa, e l’inflazione post-pandemia ha fatto il resto. A Parigi, una bottiglia sotto i quindici euro è ormai un miraggio; nei ristoranti i ricarichi spingono il prezzo minimo verso i sessanta o settanta euro. Il rischio è che un vino nato per essere contadino e accessibile diventi, paradossalmente, un prodotto elitario, destinato a una ristretta fascia di consumatori informati e benestanti.


C’è poi la questione della definizione. Cosa rende un vino davvero naturale? L’assenza di solfiti aggiunti? La fermentazione spontanea? L’agricoltura biologica certificata? O tutto questo insieme? L’assenza di una normativa ufficiale, sottolinea Raisin, è una lama a doppio taglio: garantisce libertà ai vignaioli, ma apre la porta al caos interpretativo e, in alcuni casi, a fenomeni di “greenwashing”. La sfida dei prossimi anni sarà trovare un equilibrio tra identità e trasparenza, tra filosofia e rigore tecnico. Nonostante queste tensioni, il movimento appare oggi più maturo che mai. L’epoca dell’entusiasmo pionieristico lascia spazio a una generazione di produttori più consapevoli, capaci di coniugare artigianalità e precisione. I vini naturali non sono più “giustificati” dai loro difetti: devono emozionare, sì, ma anche convincere. È la dimostrazione che il naturale non è un rifugio romantico, ma un laboratorio di innovazione, dove si sperimentano nuovi modi di fare vino, di raccontarlo e di distribuirlo. In questo quadro, l’Italia gioca un ruolo strategico. La crescita del settore è tra le più rapide al mondo e il patrimonio vitivinicolo del Paese offre una varietà unica di terroir, vitigni autoctoni e culture enogastronomiche. Ma serve una voce comune, una rete capace di proteggere la coerenza del messaggio. Le esperienze di associazioni come Vinnatur o Vignaioli Artigiani Naturali mostrano che la strada è quella giusta: collaborare, comunicare, educare il pubblico. Non basta produrre diversamente; bisogna anche raccontare diversamente.


Ciò che emerge con chiarezza dall’indagine di Raisin è che il vino naturale non è una moda, ma un movimento culturale che ha cambiato per sempre il modo in cui guardiamo al vino. È il simbolo di una generazione che beve meno ma meglio, che cerca la verità più che l’apparenza, che mette in discussione il sistema industriale per riscoprire il valore dell’imperfezione.
Dieci anni fa era un sussurro nei bicchieri di pochi. Oggi è un coro planetario che canta la stessa canzone: quella della terra, della vita, del tempo che scorre lento tra i filari. Il vino naturale non è più una nicchia: è diventato un modo di stare al mondo.

Pizza (Re)connection: il manuale per i pizzaioli del futuro firmato Giusy Ferraina


La letteratura sulla pizza è ormai vasta e articolata: c’è chi ne ha raccontato la storia, chi esplora l'antropologia del piatto più amato al mondo e chi analizza con minuzia le tecniche di impasto, lievitazione e cottura. Nessuno finora si è mai occupato di trattare questo tema dal punto di vista del mercato e del suo consumo, offrendo una guida che orienti l’operatore a trasformare una pizzeria in un’impresa di successo.


Pizza (Re)connection. Visioni futuristiche e strategie innovative per pizzaioli ultramoderni di Giusy Ferraina colma questa lacuna, proponendosi come un'opera inedita e necessaria per il settore, una bussola per orientarsi tra le tendenze della pizza contemporanea. Il progetto nasce, infatti, da una constatazione chiara: oggi un pizzaiolo non può essere solo un artigiano del gusto, ma deve trasformarsi in imprenditore, comunicatore e innovatore. Il volume, edito da Dario Flaccovio Editore per la collana diretta da Nicoletta Polliotto, “Accadde Domani FuTurismo”, si propone di fotografare il panorama pizza odierno in tutte le sue sfaccettature, esplorando nuove frontiere, tecnologie, innovazioni e sfide che attendono questo prodotto, analisi completa che offre al lettore una visione complessa e attuale del settore e delle opportunità da cogliere rapidamente. In linea con lo spirito della collana, l’opera segue un approccio olistico e, con taglio pratico, suggerisce la ricetta perfetta che equilibra la tradizione e l’identità della pizza con la sua visione contemporanea, dove format alternativi, tendenze, branding, storytelling e tecnologie sono i nuovi ingredienti.

Perché un libro su una nuova visione della pizza?

Se prima i tempi non erano del tutto maturi e impasti e pizzaioli erano i veri protagonisti del racconto, negli ultimi anni la pizza, simbolo gastronomico italiano in tutto il pianeta e con un giro d'affari miliardario, sta vivendo un momento di profondo cambiamento e crescita. Le pizzerie si sono trasformate nelle nuove frontiere della ristorazione e contemporaneamente è cambiata la stessa figura del pizzaiolo sempre più impegnato in ricerca, innovazione e comunicazione, diventando in molti casi star dei social. Ecco perché parlare di “come fare business e impresa con e attraverso la pizza” diventa necessario.

Come afferma la stessa autrice: “L’idea di questo libro nasce dall’osservazione diretta del mondo pizza, grazie alle varie collaborazioni giornalistiche e alla partecipazione come giurata al Campionato Mondiale della Pizza. Un punto di osservazione privilegiato su novità e tendenze, sui pizzaioli illuminati che lanciano format di successo e su chi, invece, si adegua con il solito copia e incolla dell’idea vincente di turno. Intervista dopo intervista, ho avuto la fortuna di confrontarmi con numerosi pizzaioli, rendendomi conto che spesso ciò che mancava era proprio la progettualità, l’unicità differenziante per costruire una propria brand identity. Così nasce questo progetto editoriale, che ritengo utile e mi auguro venga accolto con lo stesso entusiasmo con cui l’ho scritto. Perché per essere al passo con i tempi, bisogna essere visionari, ultramoderni e proiettati nel futuro”.


Nel volume Pizza (Re)connection il lettore individua un’analisi puntuale degli elementi essenziali per costruire un’attività performante: dalle ultime tendenze gastronomiche all’impatto delle tecnologie digitali e produttive, passando per modelli di business rinnovati e strategie di marketing e comunicazione innovative, applicate al mondo della pizzeria. L’obiettivo è quello di generare conoscenza e consapevolezza sulla grande potenzialità e sul percorso che la pizza ha davanti a sé come piatto su cui si sta incentrando la ristorazione del prossimo futuro. Se la pizza è la vera promessa della somministrazione italiana (e non solo), il pizzaiolo diviene un mestiere gettonato, per il quale risulta indispensabile un manuale di istruzioni, per scongiurare una visione “provinciale” di questo ruolo, un’applicazione conformista di format prestabiliti o mode passeggere, incapace quindi di personalizzare i trend. Ovviamente con un occhio di riguardo alle sfide (e opportunità) offerte dalle nuove tecnologie.

Con la prefazione di Antonio Puzzi, giornalista e direttore editoriale del mensile di settore “Pizza e Pasta Italiana”, Pizza (Re)connection mette insieme punti di vista, case history e le voci di esperti e giornalisti come Pina Sozio e Carlo Passera, curatori delle due guide pizza più importanti in Italia o di Antonio Pace presidente dell’AVPN, storica associazione di tutela della pizza napoletana, oltre a creare una mappa, per ogni argomento, di pratiche virtuose ed esempi di successo.

A chi si rivolge Pizza (Re)Connection

Pensato per pizzaioli professionisti e per startupper, per imprenditori e comunicatori del food, ma anche per i pizza lovers che vogliono comprendere quale direzione abbia intrapreso uno dei comparti più vitali e creativi della ristorazione italiana.


L’autrice

Giusy Ferraina calabrese di origine e romana d’adozione, è consulente marketing e comunicazione, project manager e giornalista pubblicista. Si laurea a Siena in Scienze della Comunicazione e dopo alcuni anni passati nell’editoria, si avvicina al mondo dell’enogastronomia, muovendo i primi passi tra redazionali, ricette da editare, social network e fiere di settore. Si specializza così nel “food & wine”, collaborando con chef, cantine, agenzie ed eventi. Dirige il magazine Radio-Food.it, scrive per Pizza e Pasta Italiana, Identità Golose, Gambero Rosso, La Madia Travelfood e collabora anche con prestigiose guide di settore. I suoi temi focus sono la pizza e la Calabria enogastronomica. Il suo mantra è l’ascolto e l’empatia, doti speciali per poter comunicare bene e raccontare storie affascinanti.

InvecchiatIGP: Giovanna Madonia "Fermavento" 1998 e Fattoria Zerbina "Pietramora" 1985


di Roberto Giuliani

Ammettetelo, pochi di voi considerano il Sangiovese romagnolo un vino capace di emozionare e, magari, di invecchiare. Niente di più sbagliato! La Romagna è una regione del tutto particolare, sia per la sua formazione geologica, praticamente unica, sia perché è uno dei pochi luoghi dove l’altitudine non conta più di tanto. In che senso? Nel senso che si possono fare eccellenti Sangiovese a 50 m. sul livello del mare come a 700, perché i fattori che li caratterizzano sono così complessi ed eterogenei che qualunque etichetta si tenti di affibbiargli si incorre in una generalizzazione che non trova corrispondenza con la realtà. Anche il giudizio sulle annate qui non può dare segni di uniformità, perché la varietà di microclimi, di suoli, di pendenze, di esposizioni, è tale da disorientare persino le centraline sparse su tutto il territorio. Detto questo, quello che manca – ma oggi direi sempre meno – è una comunicazione forte e condivisa, collettiva, in grado di sconfiggere luoghi comuni e opinioni frettolose. Andateci in Romagna, non solo al mare, ma girate colline e vigneti, scoprirete un mondo affascinante dove la natura è molto più in armonia che altrove; qui i boschi, la fauna, la flora, sono numerosissimi e, spesso, circondano le vigne, creando paesaggi incantevoli.


Da vent’anni esatti a Faenza c’è un evento che, più di ogni altro, testimonia la bellezza di questi luoghi e dei loro vini, è Vini ad Arte, una kermesse indirizzata, in giornate separate, al pubblico e alla stampa, quest’anno si è svolta dal 22 al 24 settembre. Che si tratti di Sangiovese, Albana, Trebbiano romagnolo, Centesimino, il comparto vinicolo è cresciuto in maniera inequivocabile, senza che i prezzi dei vini siano saliti in modo incontrollato come è avvenuto in altre regioni come Toscana e Piemonte. Per fortuna, direi, perché coloro che per più di vent’anni hanno alzato i prezzi sotto la spinta del successo, oggi fanno molta più fatica a vendere per via di una inevitabile contrazione dei mercati, perché da sempre l’onda sale e scende, i più intelligenti non approfittano ma trovano la giusta mediazione per non incorrere in problemi eccessivi quando la curva scende.


Ebbene, il 23 settembre ho avuto modo di partecipare a una masterclass con tema “Vecchie Annate”, nella quale sono stati presentati 7 campioni, due di questi mi hanno talmente entusiasmato che ho deciso di dedicarli alla rubrica InvecchiatIGP: sono il Romagna Sangiovese Superiore Fermavento 1998 di Giovanna Madonia e il Pietramora 1985 di Fattoria Zerbina. Sono due vini profondamente diversi - il primo proviene da Bertinoro e non è neanche una riserva (che si chiama Ombroso), l’altro da Marzeno, una delle sottozone più piccole del Romagna Sangiovese - ma sono anche due vini che hanno in comune una personalità straordinaria e hanno dimostrato di tenere il tempo in maniera strepitosa.

Giovanna Madonia

L’azienda di Giovanna Madonia e Giorgio Poppi nasce nel 1992, lavora artigianalmente avvalendosi della consulenza enologica di Leonardo Conti e Attilio Pagli, e agronomica di Stefano Dini e Dario Ceccatelli. I suoli sono caratterizzati dal cosiddetto “spungone”, pietra di origine marina dalla connotazione profondamente calcarea. Da alcuni anni l’azienda è passata in regime biologico.
Il Fermavento 1998 ha tinta granato caldo, profumo di straordinario fascino, la componente terziaria è appena accennata, il frutto è ancora vivissimo, arancia, prugna, marasca, karkadè, pelle conciata, poi cenni di caffè e liquirizia dolce, una balsamicità profonda che esalta il bouquet. Tutto si presenta in perfetta armonia, rivelandosi al gusto semplicemente fantastico, salato, austero e allo stesso tempo generoso, ancora fresco e dinamico, senza alcun cedimento, un messaggio chiaro che il sangiovese qui può fare grandi cose.


Cristina Geminiani è nata a Monza ma potremmo dire che è naturalizzata romagnola, visto che ci vive da moltissimi anni. Nel 1985 prende le redini dell’azienda acquistata nel ’66 dal nonno e prende subito la via dell’innovazione, ne è testimone lo Scacco Matto, un passito da uve Albana botritizzate che ha conquistato il globo e forse qualche altro pianeta fuori della nostra galassia. Cristina, laureata in agronomia, è stata la prima a utilizzare l’alberello come metodo di allevamento, con le vigne ad alta densità, e ad effettuare una ricerca clonale per impiantare le migliori barbatelle di sangiovese romagnolo e toscano. Il suo Pietramora è il primo vino prodotto a base sangiovese, degustare il 1985 è stato di per sé già una grande emozione.

Cristina Geminiani

Il Romagna Sangiovese Superiore Riserva Pietramora 1985 mostra un colore granato ancora vivo, luminoso (forse c’è un piccolo contributo dell’ancellotta, uva tintora che Cristina usa in piccola percentuale ma non in tutte le annate); il bouquet si lancia sui fiori macerati, ciliegia in confettura, agrumi, cioccolato, liquirizia, torba e molto altro, ma è al palato che mi lascia senza fiato, dove mette in mostra una freschezza incredibile, che dona al frutto e alle spezie un’energia spettacolare, mai potresti immaginare sia un vino con 40 anni sulle spalle!


Un autentico gioiello, con una beva che ti strega, tanto che non ho potuto fare a meno di finire quel poco che avevo nel calice, sarebbe stata un’eresia lasciarlo lì. Immenso. Viva la Romagna!

Grillesino - Toscana IGT Ciliegiolo Nàcchero 2024


di Roberto Giuliani

Se c’è un vino con cui è facile fare il bis a tavola, questo è sicuramente il Ciliegiolo. A Sorano, nel cuore della Maremma toscana, Giancarlo e Saverio Notari ne producono uno buonissimo, profuma di prugna, mora e macchia mediterranea. 


Al palato è un trionfo di frutta e nuances pepate, una goduria!

Champagne Experience 2025, buona la prima a Bologna


Si è conclusa, dopo due intensi giorni di degustazioni e approfondimenti l’ottava edizione di Champagne Experience, la prima andata in scena a Bologna domenica 5 e lunedì 6 ottobre, confermandosi come il più grande evento in Italia dedicato allo Champagne. Nel corso di Champagne Experience 2025, ospitato nel padiglione 15 di BolognaFiere, si sono registrate poco più di 7000 presenze, segnando un incremento del 20% rispetto all’ultima edizione modenese. Un dato che conferma il crescente interesse del mercato italiano, che – nonostante la congiuntura attuale – si mantiene come il quarto bacino di riferimento per lo Champagne.


La manifestazione quest’anno ha visto la partecipazione di 145 realtà produttive, che hanno messo in degustazione poco più di 700 etichette. A completare l’offerta, anche un ricco programma di master class, che ha permesso di approfondire alcune delle tante sfaccettature dello Champagne, in particolar modo quelle espresse dagli attuali trend di mercato, che meritano di essere sostenuti e raccontati.

Bologna è stata anche l’occasione per ribadire la centralità della formazione per Excellence SIDI, sempre più determinante per interpretare in modo efficace le evoluzioni e le esigenze del mercato. A partire dalla selezione delle maison pensata per promuovere un alto livello di professionalità negli incontri, sempre all’insegna della qualità, con una particolare attenzione rivolta al mondo Ho.Re.Ca. e ai professionisti del settore.

“Questa ottava edizione di Champagne Experience – dichiara Luca Cuzziol, presidente di Excellence SIDI – rappresenta per noi un passaggio fondamentale: non solo perché segna il debutto a Bologna con numeri interessanti, ma perché conferma quanto il modello di collaborazione e formazione che promuoviamo come Excellence SIDI sia oggi imprescindibile per affrontare le nuove sfide del settore. Il pubblico che abbiamo incontrato in questi due giorni — professionisti sempre più preparati e curiosi, operatori attenti alla qualità e alla sostenibilità — ci dice chiaramente che il mercato sta evolvendo, e che il nostro compito è accompagnarlo con visione e responsabilità. Bologna è solo l’inizio di un percorso ancora più ambizioso”.

Ma la “Città delle Due Torri” è stata anche l’occasione per annunciare la U25 Academy, un innovativo programma formativo ideato da Excellence SIDI per rispondere concretamente alle esigenze di rinnovamento espresse dalla filiera e per facilitare l’ingresso delle nuove generazioni nel mondo della distribuzione. I dettagli dell’iniziativa saranno svelati nelle prossime settimane.

L’ottava edizione di Champagne Experience è stata promossa e organizzata da Excellence SIDI, realtà composta da ventuno tra i maggiori importatori e distributori italiani di vini e distillati di alta qualità. La prossima edizione andrà in scena sempre Bologna, il 4 e il 5 ottobre 2026.

Tempa di Zoè: il Fiano XA racconta la rinascita cilentana del grande bianco del Sud


di Roberto Giuliani

Siamo a Torchiara nell’anno 2016, qui Bruno De Conciliis, Vincenzo D’Orta, Feudi di San Gregorio e Francesco Domini decidono di unire le proprie esperienze per valorizzare il territorio cilentano con un nuovo progetto. Quattro vigne per un totale di 5,4 ettari, divise tra i Comuni di Torchiara, Agropoli, Aquara e Rocca Cilento; inizialmente i vini vengono prodotti da Feudi a Sorbo Serpico, ma nel 2018 viene ristrutturata una cantina situata ad Agropoli, in località San Pietro, circondata da 4 ettari di vigneto, dove verranno vinificati tutti i vini di Tempa di Zoè. Le uve predestinate sono l’aglianico e il fiano, da quest’ultimo nasce lo XA, poco più di 3000 bottiglie, fermentato in botti da 500 litri e maturato in botti di rovere francese per un anno. Un’espressione di questo vitigno abbastanza diversa da quelle a cui siamo abituati in Irpinia, frutto non solo della lavorazione in legno, ma anche di un territorio molto più vicino al mare e da questo influenzato.


Ha colore paglierino medio, molto luminoso, il primo impatto riporta a leggere note boisé, ma velocemente si sposta su agrumi gialli maturi, pesca ed erbe balsamiche, forti richiami alla cera d’api, sfumature di camomilla, sul finale un accenno di melone invernale e note iodate.


L’assaggio si concretizza in una sensazione di pienezza e intensità, con una spiccata freschezza e una altrettanto incisiva sapidità; è un vino complesso e stimolante, con grandi prospettive evolutive, non sarebbe male averne qualche bottiglia da parte per futuri assaggi, ma per ora ci possiamo accontentare.

InvecchiatIGP: Antonelli – Spoleto DOC Trebbiano Spoletino “Trebium” 2015


Nel cuore della denominazione di Montefalco, tra vigne, uliveti e colline che hanno fatto dell’Umbria una delle regioni più autentiche d’Italia, sorge la Cantina Antonelli. La sua storia affonda le radici nel Medioevo, quando i terreni di San Marco appartenevano al Vescovo di Spoleto. Nel 1883 l’avvocato Francesco Antonelli acquistò la tenuta, trasformandola in un’azienda agricola moderna e visionaria, con impianti di vigna fitti e innovativi già alla fine dell’Ottocento.


Da allora la famiglia Antonelli non ha mai smesso di coltivare un legame profondo con questa terra. Il punto di svolta arriva negli anni ’80, quando Filippo Antonelli decide di rompere con la tradizione familiare forense per dedicarsi completamente al vino, guidando la cantina in un percorso di crescita che ha saputo coniugare tradizione, innovazione e sostenibilità. Certificata biologica dal 2012, la cantina si è affermata come una delle voci più autorevoli del panorama umbro, non solo grazie al Sagrantino – vitigno simbolo di Montefalco – ma anche attraverso la riscoperta del Trebbiano Spoletino, varietà bianca, per decenni quasi dimentica, riportata al centro della scena da realtà lungimiranti come Antonelli. Si tratta di un vitigno versatile e straordinario, capace di regalare vini freschi e verticali da giovani, ma soprattutto di affrontare il tempo con eleganza e sorprendente longevità. 


Il Trebium 2015 ne è la prova più convincente. A dieci anni dalla vendemmia, il vino si presenta integro, vibrante e attuale. Il colore, dorato luminoso, rivela una lenta e armoniosa evoluzione. Al naso emergono sentori di frutta secca, fieno, accenni mielati e una netta impronta sapida a fare da corollario.


Al palato sorprende per equilibrio e intensità, con una struttura rotonda ma sempre sostenuta da una vena acida che lo mantiene vivo e dinamico. È un vino di grande equilibrio ed eleganza, con un carattere, ispirato ad una vinificazione di stile borgognone, che richiama alla mente alcuni grandi vini internazionali, pur mantenendo una forte identità umbra. Chapeau!

Ceratti – Greco di Bianco DOP


Ottenuto da uve Mantonico passite, questo vino prodotto solo nel territorio calabrese di Bianco, grazie ad un breve passaggio in legno, incanta con note di zagara, mandorla tostata e mallo di noce.


Di equilibrio sopraffino, rispecchia l’idea di eleganza di Armani: non per farsi notare, ma per farsi ricordare.

Tenuta Fratini – Bolgheri Superiore DOC “Hortense” 2021


A Bolgheri, dove il vino spesso si misura a colpi di muscolo e concentrazione, i Fratini sono tornati per alzare l’asticella, ma con stile e testa fredda. Dopo l’avventura di Argentiera, venduta nel 2016, hanno deciso di ripartire da zero ma con le idee chiarissime: niente repliche, solo eccellenza assoluta. Così nasce Tenuta Fratini, situata a Donoratico, frazione di Castagneto Carducci, con l’obiettivo dichiarato di produrre vini rossi straordinari, specchio dell’anima più autentica di Bolgheri. La tenuta è immensa, 1100 ettari di cui solo 20 vitati, scelta volutamente radicale per concentrare tutto sulla qualità. I vitigni sono quelli del classico taglio bordolese — Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Merlot — ma l’approccio è tutto toscano, anzi, tutto Fratini.


I terreni, una sinfonia prevalente di argille, sabbie, galestro sono stati visionati e mappati da due mostri sacri del terroir come Pedro Parra e Françoise Vannier che, palma a palmo, hanno sezionato il suolo cercando profondità, tessitura e capacità drenante. L’obiettivo? Micro-parcelle da 0,2 ettari che parlino ognuna una lingua diversa.


La cantina è un laboratorio hi-tech ma con anima artigiana: vasche di cemento a temperatura differenziata, tini di acciaio per le fermentazioni spontanee, barrique di rovere francese scelte una per una. E poi c’è lui, Eric Boissenot, l’enologo delle Premier Cru di Bordeaux, che per la prima volta mette piede nella DOC Bolgheri: la sua mano si sente nei vini, che non cercano la forza bruta ma la finezza, l’equilibrio, la profondità. Accanto a lui Emiliano Falsini, Stefano Galbiati e Stefano Zaninotti, tre nomi di peso in Toscana.


Il risultato? Rossi mediterranei ma al tempo stesso verticali, scattanti, con tannini levigati e sorso sapido. Le tre etichette — Clinio, Harte e Hortense — sono l’espressione di tre quote e tre anime diverse: Clinio più caldo e solare, Harte più minerale, Hortense (80% cabernet franc, 20% cabernet sauvignon) il fuoriclasse prodotto da vigne ad alberello del lieux dits Poggio al Lupo e delle Grotte, che giacciono su suoli vulcanici (rioliti) tra i 180 e i 235 metri s.l.m. La 2021 è un vino capace di raccontare Bolgheri Superiore con una voce nuova, autorevole ma non urlata, elegante senza essere etereo, potente senza scivolare nella pesantezza. 


È qui, secondo me, che l’intuizione di Boissenot e della famiglia Fratini trova la sua espressione più compiuta: unire la finezza bordolese con il carattere profondo di questo lembo di Toscana, evitando sovrastrutture e inutili manierismi. E se il buongiorno si vede dal mattino, c’è da attendersi solo grandi cose per il futuro.

InvecchiatIGP: Santa Sofia - Igt Rosso del Veronese “Arlèo” 2002


di Lorenzo Colombo

Santa Sofia è un’azienda storica della Valpolicella, vanta infatti oltre due secoli di storia essendo stata fondata nel 1811. Di proprietà della famiglia Begnoni è situata a San Pietro in Cariano, in frazione Pedemonte e dispone di 90 ettari di vigneti dai quali ricava annualmente 650.000 bottiglie. Sul sito aziendale, nella scheda tecnica di questo vino troviamo “Prodotto con uva Corvina, Corvinone, Rondinella ed altre varietà a bacca rossa provenienti da vigneti collinari e sassosi situati nel comune di Verona. La resa è di 30 ettolitri/ettaro, vinificazione in acciaio con macerazione di 15 giorni, affinamento per 36 mesi in botti di rovere di Slavonia da 20-30 hl e tonneaux da 500 litri di rovere francese. Sosta di almeno 6 mesi in bottiglia”.


Ebbene, quello che abbiamo assaggiato (bevuto) noi è un altro vino. Nella sua retro-etichetta troviamo infatti scritto “Vino esclusivo di nostra produzione, da uve Corvina, Cabernet sauvignon e Merlot, affinato in piccole botti di rovere di Slavonia”.

Ma com’era questo vino? Buonissimo!

L’annata 2002 è unanimemente considerata una delle peggiori di inizio secolo, con un clima caratterizzato da una notevole piovosità che ha messo a dura prova i vignaioli costretti a ridurre significativamente le loro produzioni per cercare di ridurre al minimo i danni. Si salvarono Sicilia e Valtellina, dove si ottennero vini dalla notevole qualità. Ma, assaggiando nel corso degli anni molti vini di quell’annata ci siamo accorti che la realtà era ben diversa, con vini certamente non potenti ma spesso caratterizzati da una notevole eleganza.


Anche sulla loro tenuta nel tempo, allora considerata breve, ci siamo dovuti ricredere, non in tutti i casi ovviamente, ma l’ultima conferma l’abbiamo avuta da questo vino, degustato per la rubrica del sabato InvecchiatIGP. Qualche difficoltà l’abbiamo avuta all’apertura, con il tappo che si è spezzato a metà e, non essendo riusciti ad estrarlo completamente abbiamo dovuto spingerlo all’interno della bottiglia e di conseguenza filtrare poi il vino che, curiosamente, non presentava alcun sedimento.


Bellissimo il suo colore, granato profondo, vivo e luminoso, con unghia tendente leggermente all’aranciato. Buona l’intensità olfattiva, ampio ed elegante, si colgono sentori di frutto dolce, prugne mature, anche in confettura, cioccolato, vaniglia, note balsamiche e mentolate, leggeri accenni di radici, pepe, tabacco, caffè. Intenso al palato, strutturato, con tannino ancora vivo, sentori di cioccolato amaro, prugne e ciliegie mature, accenni d’amaro alle erbe, note di rabarbaro, leggeri accenni piccanti, chiude lunghissimo su note di caffè amaro e con ricordi di Pocket Coffee. Un vino godibilissimo che non dimostra assolutamente la sua età, a bottiglia coperta gli avremmo dato cinque/sei anni.

Quaquarini - Provincia di Pavia IGT Ughetta di Canneto 2023


di Lorenzo Colombo

Ughetta è sinonimo di Vespolina, vitigno piuttosto raro, diffuso in Oltrepò Pavese e nel nord Piemonte ed utilizzato principalmente in combinazione con altri vitigni.


Qui Umberto Quaquarini lo utilizza in purezza ed il risultato non è affatto male ricavandone un vino speziato e dalla piacevole beva.

Primo Franco e la rivoluzione del Prosecco


di Lorenzo Colombo

Lo scorso 15 settembre abbiamo partecipato, presso l’Enoluogo di Milano, a una degustazione di nuove e vecchie annate dei vini dell’azienda Nino Franco.
A condurre l’evento: Primo Franco, la figlia Silvia e Alessandro Torcoli, direttore di Civiltà del Bere.

Franco e Torcoli

L’eredità familiare e il percorso del Prosecco

Primo Franco rappresenta la terza generazione di un’azienda fondata nel 1919 dal nonno Antonio, mercante di vini. Fu il padre Nino a dare il nome alla cantina e ad avviare la produzione di spumanti. Negli anni, il Prosecco è passato da vino locale a sinonimo internazionale di spumante. Nel 2024 sono state prodotte quasi 800 milioni di bottiglie tra Prosecco Doc, Asolo Prosecco Docg e Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg (dati Valoritalia).
Il punto di svolta è arrivato nel 2009, quando il vitigno Prosecco ha assunto il nome di Glera e i disciplinari sono stati rivisti: il Prosecco è diventato Doc, mentre Asolo Prosecco e Conegliano Valdobbiadene sono stati elevati a Docg.

La storia personale di Primo Franco

- 1967: diploma alla Scuola Enologica di Conegliano
- 1971: ingresso in azienda accanto al padre
- Anni ’70: presenta i vini alla Fiera Campionaria di Milano
- Anni ’80: viaggia negli Stati Uniti, imponendo il Prosecco come stile di vita

Oggi l’azienda produce circa 800 mila bottiglie l’anno, il 70% destinate all’estero (di cui metà negli USA).

Primo Franco
I vini degustati

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Rustico Brut

Colore: paglierino scarico
Naso: fresco, pulito, note di lieviti, pera Williams, pesca bianca
Bocca: fresca, succosa, sapida, lunga persistenza
👉 Prototipo ideale di Prosecco di Valdobbiadene

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Vigneto della Riva di San Floriano 2024

Uve da vigneto singolo a Valdobbiadene (suoli calcarei, selce e argilla)
Colore: verdolino
Naso: elegante, fine, pesca bianca
Bocca: fresca, succosa, buona vena acida
👉 Molto apprezzato all’olfatto


Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Nodi Extra Brut 2023 (anteprima)

Uve: parcella Col del Vent
Nome: “Nodi” richiama sia le nodosità dei ceppi sia l’unità di misura del vento
Colore: verdolino
Naso: frutta a polpa bianca
Bocca: intensa, sapida, pesca bianca e gialla, leggere note piccanti
👉 Più energico rispetto al San Floriano

VSQ Grave di Stecca Brut

Vigneto chiuso da mura, citato sulle mappe napoleoniche (270 m slm, suoli calcarei e ghiaiosi)

2018 – Paglierino, frutta gialla, pera matura, cremoso e sapido
2014 – Fresco, verticale, frutta fresca, sorprendente giovinezza
2010 – Dorato, sentori ossidativi piacevoli, mela matura, struttura cremosa

Primo Franco Dry

Vino simbolo voluto da Primo, con prima annata nel 1983. Uve dai vigneti più alti (366 m slm).

2024 – Verdolino, intenso, pera, mela, pesca bianca; succoso e morbido
2003 – Oro intenso, freschezza sorprendente, accenni ossidativi piacevoli
1992 – Oro antico, caramella d’orzo, pesca gialla matura; vino affascinante e persistente

Prosecco Doc Grave di Stecca Vendemmia Tardiva Abboccato 1991

Colore: oro luminoso
Naso: canditi e zenzero
Bocca: strutturato, persistente, note di albicocca e zenzero

Champagne Experience 2025 debutta a Bologna: tutto pronto per l’ottava edizione


È partito il countdown per la VIII edizione di Champagne Experience, manifestazione di riferimento in Italia dedicata allo Champagne, in programma per la prima volta a Bologna domenica 5 e lunedì 6 ottobre, organizzata da Excellence SIDI, realtà composta da ventuno tra i maggiori importatori e distributori italiani di vini e distillati di alta qualità.


La prima edizione nella città delle Due Torri sarà ospitata al padiglione 15 di BolognaFiere. L’evento è stato presentato questa mattina presso la sede di Confcommercio Ascom Bologna.
All’incontro hanno partecipato Luca Cuzziol (presidente Excellence SIDI), Daniele Ara (assessore Comune di Bologna), Pietro Pellegrini (vicepresidente Excellence SIDI), Gianpiero Calzolari (presidente BolognaFiere) e Giancarlo Tonelli (direttore Confcommercio-Ascom), insieme al CdA di Excellence SIDI: Andrea Montanaro, Leonardo Sagna e Alessandro Sarzi Amadé.

L’edizione 2025, che a meno di due settimane dal taglio del nastro, segna un incremento del 20% nelle vendite di biglietti rispetto all’edizione precedente, avrà un’attenzione ancora maggiore al mondo Ho.Re.Ca. con un’offerta costruita su misura per i professionisti del settore. Già da qualche settimana, infatti, è in corso una rassegna fuori salone con contenuti e iniziative in avvicinamento a Champagne Experience, pensati per la ristorazione, l’hotellerie e il catering di alto livello.

Mancano gli ultimi dettagli e saremo pronti ad accogliere i numerosi professionisti e appassionati già accreditati - ha affermato Luca Cuzziol, presidente di Excellence SIDI. Il passaggio da Modena a Bologna rappresenta un’evoluzione naturale per un evento in costante crescita, sempre più centrale per il settore Ho.Re.Ca. La nuova sede, facilmente raggiungibile e ben strutturata, ci permette di offrire un’esperienza ancora più funzionale e accogliente. Grande attesa anche per le master class, che tornano come momento formativo di punta dell’evento: “I posti sono quasi esauriti, a conferma del forte interesse verso contenuti di qualità e relatori di alto livello,” ha concluso Cuzziol.

Anche questa edizione offrirà un’occasione unica per approfondire la conoscenza del mondo dello champagne grazie alla presenza di poco più di 700 etichette in degustazione in rappresentanza di 145 realtà produttive suddivise tra storiche Maison e piccoli vigneron. I banchi d’assaggio saranno suddivisi come di consueto in base all’area geografica, corrispondente alle diverse zone di produzione della Champagne – Montagne de Reims, Vallée de la Marne, Côte des Blancs, Côte des Bar– oltre alle “maison classiche” che invece saranno riunite in una specifica area.
A partire da questa edizione, inoltre, si potranno degustare le nobili bollicine francesi nel calice ufficiale di Champagne Experience, appositamente serigrafato.

In apertura, Giancarlo Tonelli, direttore Generale Confcommercio Ascom Bologna, ha fatto gli onori di casa: "Siamo lieti di ospitare la presentazione di questa importante manifestazione Champagne Experience 2025, per la prima volta a Bologna, il più grande evento italiano dedicato allo Champagne, organizzato da Excellence SIDI. La valorizzazione e la promozione delle nostre eccellenze enologiche nel mondo, attraverso un nuovo appuntamento fieristico, conferma l'importanza di questo polo di riferimento e di confronto per le realtà commerciali, gli appassionati e i professionisti di un settore italiano in forte crescita”.

“Siamo orgogliosi di ospitare a BolognaFiere Champagne Experience 2025, il più grande evento italiano dedicato allo Champagne, con 700 etichette in degustazione. Questa manifestazione –ha dichiarato Gianpiero Calzolari, presidente di BolognaFiere - rafforza il ruolo del nostro quartiere fieristico come piattaforma internazionale del vino e dell’agroalimentare. Bologna si conferma così punto di riferimento degli eventi del food&beverage di qualità, capace di attrarre operatori, appassionati e un pubblico internazionale, generando valore per le imprese e per il territorio”.

“Salutiamo con piacere l’arrivo di Champagne Experience a Bologna. Questa manifestazione – ha dichiarato Daniele Ara, assessore Comune di Bologna - non solo conferma il ruolo centrale della città nel sistema fieristico, ma offre anche l’opportunità di far incontrare il nostro sistema agroalimentare emiliano con pubblici professionali di alto livello, in un virtuoso incontro e confronto con i cugini d’oltralpe. Senza dimenticare che i pubblici che visiteranno la manifestazione rappresenteranno una ulteriore occasione per la ristorazione di Bologna di farsi apprezzare da una clientela capace di riconoscere la qualità della proposta di cucina che la nostra città sa esprimere”.

Anche per l’ottava edizione, Champagne Experience proporrà un ricco programma di master class di alto livello, curate da professionisti del settore che consentiranno di approfondire le peculiarità del terroir champenois. A guidare i partecipanti quest’anno saranno il sommelier Luca Boccoli, divulgatore, formatore e selezionatore di vini, e Alberto Lupetti, giornalista professionista e tra i massimi esperti di Champagne. 

Si parte domenica 5 ottobre, alle 12.30, con “Oltre i colori, Champagne al buio”, una degustazione condotta da Luca Boccoli, già sold out. Seguirà, alle 14.00, “I grandi formati”, guidata da Alberto Lupetti, che proporrà un confronto tra Champagne in magnum e in jéroboam.

Lunedì 6 ottobre, alle 12.30, si terrà “Spécial Club: è veramente speciale?”, con degustazione abbinata al caviale Calvisius Tradition Royal. Alle 14.00, ancora con Lupetti, la master class “Dal Bianco al Rosa”, dedicata alla filosofia produttiva di alcune grandi maison. Completano il calendario degli approfondimenti le sponsor class, organizzate dai partner di Champagne Experience, dedicate non solo allo Champagne, ma anche a prodotti d’eccellenza del territorio emiliano. Questi eventi sono realizzati in collaborazione con il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, il Consorzio Tutela Lambrusco e Champagne de Vignerons.

È possibile acquistare i biglietti per l’ingresso e quelli per l’accesso alle masterclass, solo ed esclusivamente sul sito ufficiale della manifestazione: www.champagneexperience.it.

InvecchiatIGP: Cantina di Terlano - Nova Domus Riserva 1998


di Stefano Tesi

Prima dell’assaggio ho fatto un breve calcolo: per fare i tempo a gustarmi una delle mathusalem di Vorberg Riserva Pinot Bianco del 2022, di Quarz Sauvignon Blanc 2023 e soprattutto di Nova Domus Riserva 2022 - i nuovi grandi formati presentati a Firenze giorni fa dalla Cantina di Terlano – ma della stessa età del Nova Domus Riserva 1998 degustato nella medesima occasione, in formato normale però, dovrei trasformarmi in un novello Matusalemme o puntare a divenire un arzillo ultranovantenne. Cosa senza dubbio auspicabile, ma piuttosto improbabile.


Oggi quindi dovrò limitarmi a parlare dell’ultimo vino che ho menzionato, quello dell’annata 1998. E scusate se è poco, visto che appartiene al “Club dei 27”: ha cioè la stessa età di Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison e Brian Jones quando sono morti. Solo che lui è vivo e vegeto. Il Terlaner, come ha ben raccontato Klaus Gasser, lo storico direttore commerciale della cantina, è “il” vino di Terlano per antonomasia, frutto di una ricetta che prevede in media il 30% di Chardonnay, il 60% di Pinot bianco e il 10% di Sauvignon blanc ed è “espressione del territorio, non delle varietà che lo compongono”. La vendemmia ’98 fu l’esito di un’annata nel complesso temperata, con primavera mite, un’estate calda con piogge regolari e un settembre fresco, che garantirono uve sane, buona acidità e ottimo sviluppo aromatico. Il vino fu uno degli ultimi della cantina a fermentare interamente in barrique, poi fece un anno sui lieviti fini e subì l’assemblaggio sei mesi prima dell’imbottigliamento.


E’ stato un assaggio di grande fascino, che ha mantenuto le non poche aspettative.
All’occhio questo Terlaner è di colore oro giallo e carico, quasi cupo. Al naso affiora ancora un po’ di vaniglia, che presto però lascia il posto a note dense, evolute e quasi cremose di nocciola, sasso bagnato, polvere da sparo. Al palato si apre con grande eleganza e profondità, in una finezza stuzzicante e lunghissima, lasciando in bocca una sensazione mista di reminiscenze e di pulizia.


Nel complesso, insomma, un’ottima bevuta e una confortante conferma. Per la mathusalem del 2022 citofonare nel 2049.

San Donatino - Chianti Classico "Poggio ai Mori" 2021


di Stefano Tesi

Sarò banale e pure un po’ retorico, il gioco di parole sarà risaputo, ma questo è davvero quanto di più classico, nel senso antico del termine, ci si possa aspettare da un Chianti Classico: diretto, agile, profumato, profondo, sapido, godibile e suadente.


Sangiovese 100% fatto in cemento e acciaio.

Il coraggio oltre l’eroismo: viaggio tra i vigneti estremi della Val di Cembra


di Stefano Tesi

Sarò impopolare, ma oggi si abusa un po’ troppo del concetto di eroe e dell’aggettivo “eroico”. Per chi è cresciuto tra le suggestioni omeriche, gli eroi sono altri da quelli che popolano i social e i giornali: semidei con la testa nel mondo e i piedi nel mito. Per parlare di vino mi piacciono di più il concetto di coraggio e l’immagine dei coraggiosi. Che, sì, forse sono un po’ sotto il livello degli eroi, ma sono anche molto più umani e, in fin dei conti, tangibili. E perciò si misurano con imprese più a portata d’uomo come, appunto, fare il vino.


Ci ripensavo quest’estate, discendendo da Giovo, lungo scale vertiginose, i perigliosi terrazzamenti della Val di Cembra all’inseguimento di Paolo Piffer – vignaiolo radicale, ma per l’occasione metà vignaiolo e metà chaperon – che mi guidava tra i filari spiegandomi i segreti del “mosaico vitato” cembrano, di cui la Cantina sociale di Cembra (non a caso autobattezzatasi “Cantina di montagna”) rappresenta parte cospicua. Due numeri in croce posso aiutare a mettere a fuoco il concetto: trecento soci per trecento ettari, tutti tra i 500 e i 900 metri di quota, spezzettati in prese di mediamente mezzo ettaro, con un fabbisogno annuo di lavoro di 900 ore, in pratica il triplo che in pianura, e con pendenze anche del 40%, dove l’uva viene trasportata a spalla nei “congiàl” (cioè le bigonce). Una faticaccia, nonostante le rese varino dai 40 q.li del Pinot nero ai 65 q.li del resto (Müller Thurgau, Chardonnay, Riesling). Il tutto letteralmente “retto” da almeno 700 chilometri di muretti a secco, fatti a mano, si capisce. Roba per gente coraggiosa, appunto.


In un contesto del genere e in un mondo del vino globalizzato, anni fa da queste parti si era arrivati a un punto in cui l’unica strada per sopravvivere era scegliere la qualità, racconta l‘enologo Stefano Rossi, cembrano di nascita e in azienda dal 2011. “Ci ha aiutato l’esperienza: nel tempo sono emerse infatti alcune particelle particolarmente “fortunate”, individuate dalla cantina attraverso l’osservazione quotidiana”, racconta. “Sono questi vigneti che vanno ad arricchire la complessità del Müller Thurgau, del Riesling, dello Chardonnay e del Pinot Nero della collezione aziendale. Stagione dopo stagione, il carattere di questi appezzamenti è stato sempre più evidente”, continua. “Abbiamo preso confidenza con loro e ci siamo convinti che siano i valori aggiunti per l’identità dell’intera valle”. Da qui l’idea di considerarli come un unico “cru di eccellenza” e farne una linea ad hoc, con cinque vini monovitigno e una cuvèè (“Zymbra”, dall’antico nome della valle).


Vi assicuro, però, che una cosa è parlarne davanti a un bicchiere di Oro Rosso, il Trento doc riserva pas dosè millesimato della Cantina, o seduti a una scrivania col block notes di fronte, un’altra è farlo sotto il sole a picco, con le gambe indolenzite, i polmoni che pompano aria pulita, gli occhi persi nel panorama montano e le pergole trentine che stormiscono intorno, accarezzate, o almeno ti piace illuderti che proprio in quel momento siano accarezzate, dall’Ora del Garda, il vento del sud indispensabile a Cembra per asciugare il clima valligiano. E mentre tu, impossibilitato a scrivere per via del cammino, tenti di mandare a memoria informazioni e suggestioni, croce e delizia di ogni giornalista in movimento, l’implacabile Paolo Piffer prosegue la discesa lungo l’erta che conduce proprio alla sua vigna, raccontando della tradizione familiare portata avanti, da lui e dalla fidanzata come da tantissimi altri in valle. Poi, a un certo punto, devia dalla massima pendenza s’addentra in una specie di vialetto nascosto dalla vegetazione. In fondo al quale si apre qualcosa che somiglia a una grotta, chiusa da un portone rabberciato. 

Lo apre. 

Sembra l’antro di Polifemo. E noi – non certo come eroi omerici e nemmeno come uomini coraggiosi, ma spinti dalla curiosità – entriamo. Dentro di ciclopico non c’è nulla, salvo un paio di botti che, per essere trasportate lì, devono aver richiesto uno sforzo davvero ciclopico. Ci sono invece un focolare, una branda, una lanterna, un po’ di attrezzi, aria umida e tante ragnatele. “E’ la mia cantina di riserva”, spiega Piffer, “quando non ce la facciamo a portare tutta l’uva nella cantina vera, ci arrangiamo qui”.


Della questione, del coraggio e naturalmente dei vini discetteremo qualche ora dopo, placidamente assisi sulla riva del Lago Santo (una delle patrie del curling italiano, correva l’anno 1972), con un bicchiere di Riesling 2018 versato da una magnum, un calice di Pinot nero, un altro di Muller Thurgau e un pezzo di treccia mochena (crema pasticcera e marmellata di mirtilli) pronta da addentare.

We can be heroes (just for one day).

InvecchiatIGP: Silvia Imparato, la signora in rosso, e i suoi gioielli: Montevetrano 1993 e 1999


di Luciano Pignataro

Col passare delle stagioni, il vino diventa racconto autentico, liberandosi come una farfalla dal bozzolo delle narrazioni costruite dagli uffici stampa e dalle ossessive note tecniche che ne accompagnano la nascita. Se è vero che le abitudini stanno cambiando, uno dei grandi meriti della rivoluzione enologica italiana post-metanolo è proprio la capacità di sfidare il tempo, attraversare i decenni e riempire il calice di sensazioni e ricordi. Soprattutto quando l’allungo diventa sorprendente.
Ed è in quel momento che cambia anche il modo di bere. Mi ritrovo sotto il porticato della casa di Silvia Imparato, esattamente trent’anni dopo la mia prima visita. Allora era reduce dallo strabiliante punteggio assegnato da Parker al suo 1993, che fu il surf con cui cavalcò l’onda trionfale del vino italiano di quegli anni. Un’epoca che accomuna tutti noi: ancora con la macchina da scrivere, affascinati dai primi fischi dei collegamenti internet e circondati dai cascioni ingombri di fogli e appunti sparsi nei cassetti.


Una cena di fine estate, c’è la figlia Gaia che è tornata alla base dopo il lockdown, Bruno De Conciliis e signora, la loro figlia Marta e guest star, mia sorella Paola. Penso, mentre Silvia prepara uno spaghetto con aglio, olio e capperi, a quanta gente straordinaria è arrivata sul dosso di questa collina per provare il suo vino, pensato con Riccardo Cotarella quasi per gioco in una Campania che all’epoca, a parte Mastroberardino, D’Ambra e Moio, non aveva etichette da giocarsi nelle conversazioni degli appassionati.


Fu questo il primo miracolo della “signora in rosso” come facilmente titolai sul Mattino quella prima intervista. La serata scorre velocemente, da buoni meridionali, non abbiamo in conto sveglie l’indomani mattina e anche se le avessimo, mai sostituiremmo il sonno alla compagnia. Quello si recupera, i rapporti umani regalano invece momenti unici e irripetibili, come il sorso delle due annate iconiche che Silvia e Gaia hanno scelto per questa cenetta: il 1993, e a questo punto avete anche capito perché, e la 1999 che, ricorderete, è stata una annata di Montevetrano come per quasi tutti i rossi italiani, eccezionale, forse l’ultima vera grande vendemmia prima di quelle del global warming.


I due vini vengono versati contemporaneamente ed ecco che così si ristabilisce un rapporto diretto, immediato, che non è mai il risultato della semplificazione, ma delle complicazioni risolte grazie allo studio e magari anche grazie a qualche intuizione fortunata. Non avevo dubbi, ricordo che parliamo di merlot, cabernet sauvignon e solo successivamente un po’ di aglianico, sulla tenuta del vino, ma non me lo aspettavo così buono. Per certi versi il più vecchietto, 32 anni ormai, addirittura più arzillo e scattante del 1999, annata perfetta e compiuta. Esiste in realtà anche il 1992 e perfino un 1991 non etichettato, davvero una vendemmia fatta fra amici tra cui alcuni della banda del Goccetto di Roma. Ma per convenzione comune l’avventura parte proprio nel 1993 con l’apertura di un ciclo che adesso si trova ad uno snodo particolare ma di cui ci sarà altra sede e occasione per approfondire. Era epoca di sostanza, quando si iniziava a fare vino non si parlava delle pratiche del nonno e del bisnonno, ma si aveva come riferimento sempre il top, valeva per Antinori con il Tignanello come per il Montevetrano che allora iniziava la sua storia.


La 1993 bevuta fra amici, discorrendo di haters, Gaza, letture con il giusto pizzico di pettegolezzi, conferma comunque che Belzebù Parker di vino ci capiva, e ci capisce, se il bicchiere realizzato da Belzebù Cotarella è ancora perfetto, ancora con spunti di frutta, nota fumè appena marcata, fresco e pieno al palato, commiato finale interminabile che impone la voglia di proseguire. Queste serate mi convincono sempre più che per fare qualcosa di significativo oggi bisogna rallentare mentre tutti corrono, avere mistero invece di raccontare tutto in qualche reel scosciato o assertivo al servizio dell’algoritmo. Perché il nocciolo del problema non è fare prima e farsi ascoltare da quante più persone possibile, l’artigiano deve prendersi il tempo giusto e parlare agli interlocutori capaci di capire il suo lavoro.


Il 1999 appare a questo punto un contemporaneo, come è detto, addirittura meno vibrante del precedente, ma comunque vivo, in perfetta forma, lungo, fantastico.
Bisognerà riflettere nuovamente su questi vini degli anni ’90, capire perché adesso conservano un fascino poi dimenticato nell’era del web. Sono le due, i bicchieri sono vuoti. Lasciamo la collina che ha raccontato questa fiaba per oltre tre decenni a tutto il mondo illuminati dalla luna, appagati, felici di aver vissuto e di poterlo ancora raccontare.

Sertura - Taurasi DOCG 2012


di Luciano Pignataro

Agronomo dal 1992, Giancarlo Barbieri ha creato un’azienda che ha nel Greco la sua anima. 


Il suo Taurasi bevuto in Magnum ha però giocato un ruolo magnifico in abbaiamento alla solida cucina contadina cilentana in un pranzo estivo. Frutto integro e in equilibrio con il legno, ancora fresco, lungo nel finale, buonissimo.

Cantine Lipari - IGP Terre Siciliane "Dròmos Trecento" 2022


di Luciano Pignataro

Non pensiamo di essere snob, ma stavolta possiamo sembrarlo perché parliamo di una produzione di appena 300 bottiglie di un’uva poco conosciuta fuori dall’ambiente, la Nocera. Ma se lo abbiamo scelto per questo turno di Garantito Igp lo facciamo perché è sicuramente di tendenza da più punti di vista. 
Il primo è la scelta di vinificare un vitigno un tempo molto diffuso in provincia di Messina, molto affine alla famiglia dei Nerello, che resiste in ordine sparso in piccoli appezzamenti contadini. Il secondo è che parliamo di piante ad alberello, un allevamento che risponde perfettamente alle problematiche relative al mutamente climatico e alla sempre crescente penuria d’acqua in Sicilia. Il terzo punto da sottolineare è l’uso dell’anfora per la macerazione e la fermentazione prima di mettere il vino a riposare per un anno e mezzo in botti grandi. Infine il prezzo, assolutamente sotto i venti euro posto che lo troviate.
Insomma il Dròmos (il termine archeologico indica il corridoio di accesso alle sepolture antiche) sintetizza quella che è a nostro modesto avviso un insieme di indirizzi adottati da piccoli produttori oltre ad accendere il faro su un’area siciliana ricca di sorprese, così come la dirimpettaia Calabria grecanica con il continuo scambio di vitigni da una parte e dall’altra in attesa del ponte di Salvini.


Ce lo porta un amico, il mitico Marco Contursi, di ritorno dai suoi giri in Sicilia e ne godiamo durante un pranzo estivo cilentano a base di capretto, compreso il soffritto di interiora. Lo produce l’azienda Cantine Lipari a Santa Lucia del Mela in provincia di Messina fondata da Francesco Lipari nel. 2014 in Contrada Timpanara, una collina a circa 350 metri che annuncia i Monti Peloritani guardando Capo Milazzo e le Eolie. Appena tre ettari su suolo calcareo e argilloso dove si allevano tre vitigni a bacca rossa (Nero d’Avola, Nocera e Nerello Cappuccio) e tre a bacca bianca (Grillo, Catarratto e Inzolia). Una adesione convinta al territorio e alle pratiche ambientali non invasive.


Il gusto di bere una chicca è un conto, il risultato nel bicchiere è sicuramente un altro e in questo caso abbiamo deciso di segnalarlo proprio perché il vino appare slanciato e moderno nonostante tutte le premesse arcaiche poste dall’anfora e dall’alberello oltre che dal legno grande. Il colore è rosso rubino vivo a tre anni dalla vendemmia, al palato è fresco, leggermente fruttato ma anche con note di macchia mediterranea (suggestione siciliana?). I tannini sono setosi, il vino ha al tempo stesso vigore ed eleganza, accompagna bene il cibo, disseta grazie alla marcata acidità che rende il sorso veloce con un finale che ricorda la frutta rossa percepita in precedenza al naso e un cenno affumicato. La bottiglia finisce presto e ci siamo detti: lasciamone traccia con il monito di non smettere mai di essere curiosi quando si beve e si scrive di vino.